Disegniamo ciò che osserviamo; disegniamo per comunicare. Ma assumendo il disegno quale modalità di conoscenza precedente l’atto progettuale (lo schizzo), così come forma di restituzione dell’atto stesso (ad esempio un render), occorre chiedersi se esso costituisca davvero il tramite unico in grado di trainare un progetto dalla fase embrionale a quella propriamente vitale. Per un paradosso, spesso è proprio in architettura che altre forme di rappresentazione assumono importanza, attribuendo al disegno il ruolo di summa finale concreta di processi più astratti, interpretativi di fenomeni fisici o legati alla percezione. Il disegno è traduzione morfologica del progetto; come tutte le traduzioni, non sarà mai fedele all’originale, ma ha l’arduo compito di concretizzare ciò che sta in mente architecti. Affinché la traduzione non diventi tradimento, occorre che la rappresentazione rispetti un ordine. Proprio qui sta il punto: come si rappresenta un’idea? Spinoza, nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata, assume l’idea quale concetto della mente e non come una sua percezione, rifiutando dunque la sfumatura di passività che quest’ultima implica. Quando ho un’idea, sto già progettando; di conseguenza ho l’obbligo di domandarmi come rappresentarla. È il passaggio dal caos all’ordine, che può essere spiegato anche in questo caso con le parole di Spinoza, il quale nella stessa opera afferma: “l’ordine, e la connessione delle idee, è identico all’ordine ed alla connessione delle cose”. Per tradurre, e non tradire l’idea, il progettista deve quindi individuare un ordine nel proprio flusso creativo, che trovi una corrispondenza univoca negli oggetti che genera. Proprio per questo, il passaggio tra mondo ideale e mondo reale viene sempre più di frequente affrontato, in architettura, attraverso l’uso di diagrammi: disegni non legati alla matericità né alla scala del progetto, ma ugualmente in grado di esprimere relazioni, concetti e funzionamenti. Come afferma Eisenman, il diagramma “è una rappresentazione di qualcosa in quello che non è la cosa in sé”. Tale strumento garantisce la sintesi rappresentativa, nell’ordine, di percezione, idea, progetto e disegno. Ricopre per l’architetto il medesimo ruolo che ha Virgilio per Dante, affiancandolo attivamente durante tutto il processo generativo, in un continuo rimbalzo tra osservazione e creazione, impulsi in entrata e in uscita. Non a caso il diagramma viene definito dalla rivista Any (n. 23/1998) “macchina riduttiva e insieme proliferativa, astratta e aper ta”. Permette di semplificare e di arricchire al contempo. Interessante risulta, a
questo proposito, la disamina delle operazioni di semplificazione principali garantite dai diagrammi che Giovanni Corbellini offre nel saggio Attraverso qualcosa di scritto, incluso nella già citata rivista Any, cui si dovrebbe far riferimento per un primo importante approccio all’argomento. Quale applicazione trovano i diagrammi in architettura? Per la duttilità di questo strumento, è evidente che la diffusione sia sempre maggiore; tuttavia un dato forse poco evidenziato ma che merita una riflessione è fornito dalla trasversalità che lo contraddistingue e che gli ha consentito di trovare una propria dimensione in stili spesso anche assai distanti tra loro. Volendo rispolverare un vecchio giochetto, ci si potrebbe infatti domandare: “cosa hanno in comune Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Philippe Rahm, Bjarke Ingels, MVRDV e tanti altri? La risposta, ovvia e scontata, è proprio questa: l’uso dei diagrammi per ordinare
e fornire coerenza allo stream of consciousness tipico delle fasi metaprogettuali e la necessità di chiarirlo a tutti una volta giunti al progetto vero e proprio.