Il piano strutturale di Anversa (2003-2006) di B. Secchi e P. Viganò formula una visione della città composta di sette immagini, che ne ricompongono un quadro volutamente non conclusivo. La ricerca di entrambi questi urbanisti, improntata alla rilettura, scomposizione e ricomposizione delle categorie interpretative della disciplina ha avuto, in questo caso, come uno tra i risultati quello di rinnovare l’attenzione sulla piccola scala, lo spazio d’uso, le pratiche e la microstoria come categorie interpretative della città. Una conversazione con P. Viganò, chiarisce alcuni temi della ricerca.
Michele Vianello: Nel libro Antwerp territory of a new modernity si parla così del procedimento di costruzione delle immagini del piano: “…Le immagini derivano da alcune microstorie e trovano supporto sia nell’articolazione in scenari sia nel riconoscimento di situazioni in cui esse sono solidamente sostanziate”. La piccola scala torna sia nella verifica della legittimità delle immagini che nel loro riconoscimento in situazioni, locali, del presente…
Paola Viganò: La qualificazione di microstorie deriva da Carlo Ginzburg e la spiegazione che egli dà delle loro diverse declinazioni. Serve come metafora degli strumenti di analisi da usare nella costruzione del piano. Questo non può più essere quello onnicomprensivo moderno, ma si deve comporre su piani sovrapposti, multiscalari, aperti. Le microstorie, però, non fanno necessariamente riferimento a una scala piccola, si delineano piuttosto in contrapposizione alla grande Storia fatta di un inizio e una fine.
Le immagini compongono quindi una storia aperta, articolata in microstorie, scenarî, situazioni.
PV: L’immagine qui proposta è un dispositivo che raccoglie un procedere del pensiero sulla città: è inizialmente un’intuizione, “letteraria” in un certo senso, che serve a selezionare dei temi di ricerca. Alla fine del processo di raccolta e lettura cui si è accennato, su di essa si deposita una parte importante della storia di Anversa nel suo complesso, fatta di microstorie. Questa figura non può essere accettata come valida in astratto e atemporalmente. Nel piano infatti ogni immagine è stata proiettata in un tempo lungo e rinegoziata con gli usi, i saperi, le idee, i progetti, le pratiche e i mutamenti, proposti da chi ha pensato, usato, vissuto e progettato la città. Questi elementi si accumulano nell’immagine.
La questione della piccola scala si pone, in un certo senso, in modo diretto nella costruzione per le microstorie legate a quelle immagini che derivano dal passato ma il cui senso va ricostruito nel presente. Penso alla Spoorstad [città lungo i binari] o la Poreuzestad [città porosa].
MV: L’immagine della Poreuzestad indaga anche direttamente l’ipotesi di tornare a vivere nei vuoti della città consolidata…
PV: Nella microstoria “The reuse of Antwerp’s 19th century belt”, che compone l’immagine della Poreuzestad, si documenta il ritorno ad abitare la cerchia interna da parte di quattro giovani coppie di professionisti con figli, la cui collocazione d’elezione in Belgio sarebbe l’abitazione suburbana monofamiliare… Questi individui, tornando a vivere ad Anversa, non utilizzano la strada tradizionale come tale ed evitano il rapporto con essa; i tipi che introducono nella città si strutturano per accogliere nello spazio interno gli spazi di contatto, come il patio, o di relazione, in cui avviene la vita sociale.
Sono spazi che si possono adattare per ospitare amici, attività ricreative o di lavoro, rendendo interne pratiche che nella città storica avvenivano tradizionalmente a contatto diretto con lo spazio pubblico, sulla strada.
Lo spazio esterno d’altra parte ha subito enormi mutamenti non essendo più presenti molte delle attività che lo caratterizzavano come pubblico. Il suo carattere viene quindi ripensato nel piano in altri momenti di indagine, come nel parco di Spoornord, mirando a creare occasioni spaziali di contatto e di uso.
MV: La costruzione dell’immagine è quindi un’osservazione delle pratiche che avvengono nello spazio?
PV: È soprattutto questo. Esse vengono scelte per la loro rilevanza più che per il loro peso. Il fenomeno del ritorno in città di giovani famiglie era molto fragile oltre che molto esiguo. Esso apriva però possibilità d’indagine sotto diversi profili.
La rete di pratiche si può interpretare in molti modi, questo tipo di ricerca potrebbe essere proficuamente sempre aggiustato e sommarsi a nuove letture e immagini: un piano che lavori per additività, nel tempo, adattandosi al cambiamento.
MV: Nonostante questa attenzione all’apertura dell’indagine sulla città, il piano si è necessariamente tradotto in aree strategiche d’intervento e di investimento. Si tratta secondo lei di una necessità o anche di una fiducia della città in una sorta di trickle down effect, che porta con l’invisibile mano del mercato i benefici di alcuni interventi alle aree circostanti?
PV: Il consiglio della città stesso si è posto questioni simili durante l’attuazione e da questo punto di vista il piano voleva rappresentare un punto di inizio. Un ampliamento della riflessione sul modo di investire le risorse nella città sarebbe un’opportunità utile.
MV: Questa riflessione sorge dall’associazione tra benefici delle trasformazioni, piccola scala e piano. In alcune immagini è forte una riflessione su questo: ad esempio nella Spoorstad.
PV: Sì, il piano propone una rete di trasporto pubblico diffuso, invece che composto di linee strutturanti, ma anche progetti molteplici a scale diverse in diversi luoghi della città tra cui si tracciano assonanze e relazioni. Questo tipo di approccio, rispetto a un progetto di città fatto di grandi gesti, può favorire una distribuzione su più ampie aree dei benefici del piano. Il piano deve creare occasioni spaziali e in questo senso è di certo una possibilità per la ridistribuzione, se vogliamo metterla in questi termini.
I progetti realizzati ad Anversa hanno portato gentrification ma con crescita dei valori immobiliari attorno ai progetti paragonabile alla crescita media nella città. Ad Anversa questo è stato un buon segno.
Per quel che riguarda l’effettiva ricaduta positiva su un tessuto economico debole o minuto, più che proporre ricette, invadendo il campo degli economisti, il piano vuole cogliere e valorizzare gli elementi spaziali presenti. Come nel caso dell’ex officina riparazioni ferroviarie di Spoornord o nella copertura di Schouwburgplein. La qualità e flessibilità spaziale è stata messa davanti a un rigido programma funzionale: degli spazi aperti, “vaghi”, possono avere il potere di attrarre funzioni e pratiche, anche economiche, che cambiano nel tempo, facendole reagire a contatto con lo spazio pubblico. Anche qui la scala umana è fondamentale: la città può essere pensata come un supporto di spazi dove le cose possono avvenire.
MV: Nel passato l’urbanistica italiana ha avuto molta attenzione per l’economia. Senza porsi grandi questioni sistemiche rese obsolete dall’evoluzione politica del Paese, crede che ci sia spazio perché l’urbanistica del prossimo futuro si occupi di economia alla scala della città? Non dettando soluzioni, ma esplorando le sue potenzialità nel definire scenari. Ad esempio, quali risorse economiche e finanziarie un piano può attivare o deprimere con specifici strumenti? O ancora, può essere di nuovo opportuno valutare in termini monetari le conseguenze a lungo termine di determinate scelte o politiche urbanistiche?
PV: Questa è una domanda da porre agli economisti.
Ma capire dove sono finite le risorse derivate dallo sviluppo, sfruttamento e autosfruttamento dei territori è comunque una domanda interessante.
Essersi occupati di economia da parti degli urbanisti non ha portato a particolari risultati e la specificità disciplinare, oggi, sta piuttosto nell’osservare i fenomeni nell’ottica della qualità spaziale.
Mi augurerei che fossero gli economisti a tracciare in parte degli scenari.
Ciononostante, senza fornire indicazione prescrittive, l’economia può costituire un tassello per indicare dei futuri possibili e quindi costruire scenari urbanistici