I principi di organizzazione dello spazio che regolano la casbah della città islamica sono stati con persistenza, dal Dopoguerra ad oggi, motivo di riflessione ed approfondimento per gli architetti.  Alcuni edifici contemporanei testimoniano che la sperimentazione su questo tema non è di certo esaurita.  Il complesso abitativo a Madrid dei Morphosis, il museo a Leon di Mansila e Tunón o le numerose opere di Sejima e Nigisawa, costituiscono ulteriori esercizi inscrivibili in quel filone in cui si annoverano edifici famosi come il Kimbell Museum di Kahn, l’Ospedale di Venezia di Le Corbusier, l’unità di abitazione orizzontale di Adalberto  Libera, oltre che, notoriamente, i numerosi esempi ascrivibili agli architetti del Team X, che fecero di questo riferimento un vero e proprio manifesto.  Non ci riferiamo qui, quindi, a quel fenomeno, seppur molto diffuso, per il quale l’architettura islamica e la casbah in senso più stretto, sono stati fonte di ispirazione stilistica.  In quel contesto le forme sono state attinte e replicate e scarsa è stata l’attenzione ai principi.   In maniera invece più profonda gli architetti sopracitati insieme a tanti altri hanno instaurato con la casbah un rapporto problematico, complesso, a volte anche ambiguo, ma denso di significato.  I principi essenziali della città islamica e cioè la crescita per gemmazione di cellule, lo sviluppo orizzontale, la complessità dei rapporti tra pieni e vuoti, la commistione – o addirittura fusione – degli spazi pubblici e privati costituirono una notevole e problematica presenza per chi lavorava nel rigore della ortodossia del Movimento Moderno.  Di questo difficile rapporto la vicenda di Le Corbusier è sintomatica: per lui la casbah era un modello perfetto di urbanistica:  ma tanto perfetto da essere intoccabile.  Ciò avviene nel Plan Obus dove, come ci ha fatto notare Manfredo  Tafuri,  la nastriforme architettura proposta accerchia “discretamente” la città storica islamica rinunciando a qualunque interazione. Ma il modello della casbah viene introitato nei suoi principi e diventerà, più tardi, matrice dei quello che può essere considerato il capolavoro di questo modo di intendere l’edificio, e cioè il progetto per l’ospedale di Venezia.

In quel progetto Le Corbusier porta a compimento una sperimentazione incessante sul principio della ripetizione di cellule voltate e sulla possibilità di generare spazi complessi nell’alternanza di queste cellule: le numerose realizzazioni con le volte catalane, Roq e Rob, la casa de Mandrot, la fattoria di Cherchell fino alle case Jaoul ne sono testimonianza. Ma il riferimento alla casbah non era nè per Le Corbusier né per gli altri  “puro”.  L’istanza tecnica, volta catalana o esigenza di economia costruttiva, era l’altro elemento del binomio. Generare l’edificio dalla iterazione di elementi semplici significava potere articolare l’esigenza moderna di edilizia standardizzata, unificata od addirittura prefabbricata.  La città islamica, orientale o africana, era quindi un modello che poteva articolare spazi pubblici ed edifici in maniera complessa ma permetteva anche di ipotizzare una economia di cantiere.

Un edificio più di ogni altro in quegli anni sembrò incorporare le due istanze: la Freie Universitat a Berlino di Candilis, Josic e Woods: “matrimonio felice  tra la casbah ed il meccano”, così come fu definito con una felice espressione di Bernard Huet.

Georges Candilis, aveva lavorato in Marocco con Le Corbusier partecipando quindi alla esperienza dell’ABAT, un tentativo di organizzazione edilizia basato proprio sui principi fin qui citati.  Ma Candilis Josic e Woods avevano, prima dell’edificio di Berlino, elaborato un famoso progetto per Francoforte dove si proponeva di colmare un vuoto bellico con un edificio “orizzontale” interrotto da numerosi piccoli cortili.

 

La loro sperimentazione veniva sì da Le Corbusier, ma era parte della grande riflessione che il Team X, ed Aldo Van Eyck in particolare, portarono avanti.  Fortemente influenzato da Levi Strauss van Eyck fece della rivista Forum l’organo ufficiale di quella teoria del dissenso rispetto al Movimento Moderno.[1]  Foto di insediamenti africani ed islamici, studi di quelle città e progetti illustravano come si potesse cercare nella grande densità, nella compattezza un rimedio ai problemi che gli spazi di risulta della urbanistica dei CIAM  avevano già cominciato a produrre.  In quegli anni una idea collaterale si venne a sviluppare, ad opera di Alison Smithson, era l’idea del mat building, quello che nell’infelice traduzione italiana sarebbe l’edificio-stuoia.[2] Un edificio che secondo una metafora tessile si genera secondo un ordito in cui si dispongono, ancora orizzontalmente i vari ambienti.  In questo la componente islamica si incontrava di nuovo quell’istanza tecnica che permetteva di fare “sposare” modello storico e prefabbricazione moderna.   Erano anni in cui a Londra un allievo di Buckminster Fuller, Cedric Price costituiva una figura carismatica di non poca influenza su tutto il gruppo dell’Independent Group.   Ma quello che Price era stato per gli Smithson era esattamente analogo a quello che Fuller fu per Kahn e attraverso la sua associata e moglie Anne Tyng.  Il centro di Trenton, la fabbrica Olivetti e soprattutto i vari progetti per il Kimbell sono esempi chiari di questo modo “meccanico” e “mediterraneo” di guardare all’edificio.

 


[1] R. Oxman, H. Shadar and Ehud Belferman, “Casbah: a brief history of a design concept”, in arq, vol. 6, n. 4, 2002, pp. 321-336.

 

[2] Cfr. Hashim Sarkis, Pablo Allard, Timothy Hyde, a cura di, Le Corbusier’s Venice Hospital and the Mat Building Revival,  Prestel Publishing, London, 2002.


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