<< L’architettura è un’arte difficile fatta di elementi facili. Nello stesso tempo è un’arte facile, nonostante sia l’esito di processi disseminati di difficoltà.>> ;
con queste semplici parole Franco Purini pone l’accento sulla complessità insita nel fare architettonico. Ampliando il discorso sino a identificare l’architettura in un’arte positiva, un’arte essenzialmente rivolta e finalizzata alla vita, si raggiunge la consapevolezza di quanto, a partire dall’atto compositivo, se non dalla sua concezione iniziale, l’architetto debba necessariamente interrogarsi su tutto un coacervo di elementi “invisibili”, in quanto immateriali, la cui funzione e il cui contributo, ai fini del risultato dell’atto compositivo da lui orchestrato, siano tutt’altro che prevedibili, scontati nonché ininfluenti. Il pensare, il teorizzare l’architettura non rappresentano delle operazioni finalizzate a sé stesse. Nell’ampliamento della Gipsoteca di Possagno da lui orchestrato nel 1955, Carlo Scarpa modella lo spazio luminoso in modo variabile e articolato attraverso l’introduzione di aperture ritagliate dagli angoli degli ambienti sotto forma di triedri vetrati attraverso i quali la luce naturale penetra negli interni incontrando sempre nel suo cammino un piano di diffusione perpendicolare e assicurando in tal senso la miglior illuminazione possibile ai fini della fruizione delle opere esposte. In chiave eminentemente organica e neoespressionista, la Philharmonie berlinese (1963), opera capitale di Hans Scharoun, si mostra agli occhi del visitatore come una grande tenda dissimmetrica e provvisoria; varcato l’ingresso, l’insieme dodecafonico dei foyer labirintici è risucchiato dai vortici scalari. Si giunge finalmente alla sala come culmine di questo crescendo: vassoi a diverse altezze riconnessi da scale circondano l’orchestra in posizione centrale; la musica è fruita direttamente, senza alcuna intermediazione; non solo una vera e propria struttura urbana, ma soprattutto nelle parole di Renato Bocchi uno “spazio cavo” uno spazio involucrato, contenuto all’interno di una sorta di recipiente la cui importanza dunque è di gran lunga più elevata rispetto ad una qualunque definizione in negativo della materia.

Il progetto che Peter Eisenman redige per l’Iba di Berlino nel 1985 è concepito attraverso la formula che la critica ha definito di “sterro archeologico”: l’opera diviene un insieme di masse interpretate in quanto fossili fuoriusciti dal terreno le quali, da un lato lasciano le tracce della propria esistenza precedente nella terra, e quindi in planimetria, dall’altro raccontano la propria storia in superficie, nelle facciate. Se i prospetti si ergono al pari di vere e proprie sezioni stratigrafiche, la planimetria, in virtù della tensione generata dall’incrocio di diversi sistemi geometrici, diviene strumento dinamico di cambiamento dell’esistente in grado di conservare le tracce della storia e al contempo di volgere lo sguardo al futuro.
Tre opere capitali dell’architettura contemporanea assumono come oggetto prioritario di indagine rispettivamente temi quali la luce, lo spazio, il tempo. L’architettura non potrà in nessun caso estromettere dalla sua riflessione la vita in tutti i suoi aspetti dai più espliciti ai più impliciti, dai più reali ai più virtuali, perché è proprio dall’attenzione rivolta a  questi che essa puòe deve trarre le soluzioni atte alla loro conservazione o al loro miglioramento, qualora quest’ultimo ne risulti necessario.

 

 


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