Racconto di Giuseppe Samonà.
Ho visto per la prima volta Giuseppe Samonà a Trieste, al Congresso di Urbanistica del 1965, dove ero riuscito ad organizzare la partecipazione di un piccolo gruppo di studenti di una Facoltà periferica e ancora in parte provinciale. Ma la vera conoscenza risale al 1972, quando, su invito del figlio Alberto, di cui ero assistente, partecipai al concorso per la nuova Università di Cagliari.
Giuseppe era gilio di Carmelo, che si occupava di psichiiatria e di questioni “paranormali”, e di Adele Monroy, di famiglia nobile, che possedeva una villa progettata da Venanzio Marvuglia, all’inizio della “piana dei Colli” di Palermo. Questa condizione gli pesava, tanto da nascondere il fatto che lo portassero a scuola in carrozza. D’altra parte, credo che i non buoni rapporti con Basile, e il fatto che la madre regalò in pratica la villa ai Salesiani, furono le ragioni principali della sua partenza da Palermo.
Era un uomo di acutissima intelligenza, con occhi azzurri mobilissimi, affascinante parlatore e capace di cogliere ogni occasione per approfondire questioni nuove, o viste sotto nuove angolazioni.
Era capace di intuizioni rapidissime: dopo il sopralluogo a Cagliari per il concorso dell’Università, circa quindici giorni prima della chiusura del progetto, decise di ribaltare la sezione-tipo che fino ad allora si era studiata, e riuscì a farlo, malgrado le proteste di tutti, che pensavamo fosse impossibile finire in tempo.
Era anche infaticabile, e durante i lavori del Piano Programma per Palermo era sempre davanti a tutto il gruppo dei collaboratori durante le visite al centro storico. In quei giorni era molto spesso in città ed entrava sempre con Egle Tricanato nelle stanze di lavoro dicendo, con la sua inconfondibile voce: “eccoci qua!”, il che determinava subito un’atmosfera di impegno intenso. Teneva moltissimo a questa esperienza, e ciò gli faceva superare qualsiasi problema, soprattutto con l’amministrazione, che appariva poco interessata al lavoro, e creava infinite difficoltà. V’era in questo una profonda differenza da Giancarlo De Carlo, che aveva capito l’aria che tirava e cercava in continuazione di ricevere garanzie.
Per questa dedizione al lavoro era intransigente, e dunque capace di grandi tensioni, ma era anche molto affettuoso, e credo ricambiasse l’affetto di noi che eravamo suoi collaboratori al Piano. Ricordo in particolare una sera a pranzo a casa mia, che passò in uno stato di grande agitazione per la difficile nascita del primogenito di uno dei collaboratori, agitazione che si calmò al momneto dela notizia che tutto era andato nel migliore dei modi.
Come racconta nel suo libro Il progetto Kalhesa, pubblicato con lo pseudonimo di Ismè Gimldalcha, De Carlo propose, nella seconda fase del Piano, di mescolare i collaboratori, ma Samonà rifiutò, adducendo il motive che voleva continuare a lavorare con i collaboratori scelti da lui e a lui legati.
Questo libro di De Carlo, che ripercorreva il suo diario a Palermo, ma modificando i nomi reali, fu letto da molti come un attacco a Samonà; ma alcuni anni dopo, quando il Dottorato di progettazione di Palermo organizzò una mostra sul lavoro di Samonà in Sicilia nel centenario della nascita, De Carlo in una memorabile conferenza portò un tributo di stima e di affetto che non poteva lasciare dubbi.
Il debito di Samonà nei confronti dei maestri che amava di più, Wright, Perret, Le Corbusier, per il quale era stato accusato di essere eclettico, muta significato ed in certo modo si arricchisce alla fine degli anni cinquanta, quando il suo linguaggio matura e sis svincola dal rapporto diretto con i maestri.
Dopo la lunghissima direzione della scuola di Venezia, dove chiamò i più capaci, e che si concluse con la valorizzazione di giovani che costituirono la generazione successiva, da Rossi a Tafuri, da Polesello a Semerani e ad altri, seguiva sì progetti altrui, appreszzando ad esempio Aldo Rossi, ma era soprattutto teso a trovare nuove strade per l’architettura moderna, e le cercava soprattutto nella lezione dela città antica, con grande costanza.
é stato accusato anche di essere ermetico, e certe volte lo era: ma De Carlo scrisse, quando lesse le schede che Samonà aveva preparato per il Piano Programma, di non averne colto immediatamente il ruolo, ma di avere intuito che vi era dietro un nuovo modo di usare la descrizione per legggere e progettare la città storica, un nuovo modo di intendere l’urbanistica.
Nell’unica occasione in cui il figlio Alberto gli chiese di partecipare, isa piure dopo la conclusione dei lavori, a un seminario di Gibilmanna, l’unico in cui facemmo un progetto, sulla piazza del Duomo di Cefalù (1982), spiazzò tutti, parlando poco dei progetti e molto delle idee che gli erano venute in relazione alla teoria.
Aveva un rapporto profondissimo con la Sicilia, e nella villa di Gibilmanna, fatta costruire dal padre copiando uno chalet svizzero da una cartolina che aveva ricevuto, e dove tutta la grande famiglia si riuniva ogni estate in occasione dell’abbattimento di un muro per ingrandire il soggiorno, fece tagliare un pino e lo dipinse con motivi basati sul rosso e sul nero, di espressione in certo modo cubista (ill. 246).
A noi è rimasta un’eredità profonda, che ci siamo sforzati di mantenere portando avanti le questioni prinicipali legate alla sua teoria, e mantenendo un rapporto costante con il figlio Alberto. Purtroppo il Piano Programma è rimasto nei cassetti del Comune, che lo approvò all’unanimità pochi giorni prima della sua morte, e poi scelse di affidare un Piano particolareggiato a Pierluigi Cervellati e Leonardo Benevolo, che lavorarono su un’idea del tutto diversa, contraria in pratica a ogni intervento di architettura contemporanea nel centro storico: bloccando per vent’anni (a oggi) gran parte delle possibilità di avanzamento della disciplina a favore di una conservazione ferrea. Tutto il contrario di ciò che Samonà aveva voluto e sognato.
Cesare Ajroldi
C’è un motto nella memoria di Samonà che conservo . L’ho tratto da un suo commento al testo Architettura Moderna di Wagner. E lo considero tale perché contemporaneamente sigla icasticamente l’opposizione della modernità dal passato classico e nello stesso tempo indica un modo “italiano” di aderire alla modernità e di porsi in un cammino di ricerca che il testo pubblicato dal Poligrafo, nella collana Il tempo e le opere, documenta ampiamente: nascita contro ri-nascita.
Cesare Ajroldi ha fatto un lavoro ingente , ma soprattutto sapiente, nell’offrire al lettore, studente o ignorante un saggio del talento, della versatilità della costanza di un autore , Samonà che ha illustrato la scuola italiana soprattutto nel secondo dopoguerra senza smettere di essere architetto e di esercitarne il mestiere. Ed ha documentato l’opera di Samonà in modo che con tale acume, cosicchè il motto di Samonà (come sopra riportato) non valesse tanto la storia di un recente passato ma per ciascuno dei suoi momenti. Ma che ad ogni opera si rinnovasse la tensione di aderire al proprio tempo ed al suo sentimento del’ora.
Così, per me il teatro di Sciacca rappresenta icasticamente l’intelligenza di quel tempo per un architetto consapevole dell’ora
Daniele Vitale ha fatto una scelta perspicace interpretando il tempo e le opere di un recente passato, l’architettura Italiana tra anteguerra e dopoguerra, attraverso il lavoro di un autore sapiente. Che ha cercato l’inedito e sapendone l’inattualità, non ha smesso di cercare perché sapeva che non si trattava di approdi vani perché ognuno poteva offrire al poi l’appoggio da cui partire verso nuovi approdi, divenendo così levatrici di nascite nuove.
Mi preme allora selezionare, per un album interiore, alcune icone tratte dal testo che varranno al futuro:
La Redazione
La Sicilia i sogni le città