a sinistra Immagine satellitare dell'Europa di notte| a destra la stessa immagine con la ripartizione carolingia del territorio e la linea della direzione (Costantinopoli) Ravenna-Parigi-Londra e Milano il bivio per la Valle del Reno .

Indice.
1. Modernità.
2. Milano capitale.
3. Milano capitale rinascimentale
4. Gli anni ’50: Milano capitale del moderno.
5. L’anima della modernità milanese.
6. Cenni biografici.
7. Un progetto di formazione dell’Architetto al Politecnico.
8. Saggi e Manifesti della scuola.
9. Modernità?Una ricerca
10. La metropoli lombarda un problema di scala.

Milano capitale del moderno.
Grazie a tutti quanti hanno reso possibile parlare della città e della sua architettura nel contesto di Expo 2015, oggi, in questo luogo così emblematico per la città: il belvedere del grattacielo Pirelli. E grazie a Lorenzo degli Esposti che ha pensato questa manifestazione all ’insegna della modernità. E l’ha intitolata Milano capitale del moderno. Sono particolarmente felice ed onorato di introdurre questa sezione.
Sono però un po’ imbarazzato, in quanto appartenendo ad una altra generazione, che per di più si è formata sulla cultura classica, potrei essere tentato di misurarmi con il moderno con un distacco non del tutto adatto ad una assise in cui il confronto con le altre generazioni, nella prospettiva del passaggio del testimonio, chiede il coinvolgimento. D’altra parte non posso evitare la storia. Ma vorrei limitarne l’importanza. E soprattutto evitare lo storicismo.

da sinistra: le acque tra i laghi e il Po.| La città e il suo intorno in un quadro di 50x50 km| lo sprawl del capoluogo nel territorio| La mappa del 1833| sotto: telecity o l'esplosione delle isole attorno alle stazioni delle infrastrutture, da Naked City.

1. Modernità.
Ho allora pensato ad un avvio diretto prendendo di petto il modo irrevocabile col quale la modernità si è imposta e cioè con il rifiuto dell’ipoteca del passato sul presente per vivere l’ora libera di concepire un progetto al futuro.
Ma perciò occorre sentire l’ora tra sapere e progetto. E il progetto è soprattutto energia, e l’energia è dei giovani. D’altra parte il progetto è reclamato da problemi che non sono ancora stati affrontati. E che non si possono affrontare senza avere un punto d’approccio e d’aggressione. Questo esige sapere: una costruzione interiore. E ci vuole tempo. Il sapere è gravido d’anni. E per di più, come costruito sui problemi affrontati, non è orientato a quelli nuovi. Solo un’alleanza tra le generazioni, nell’ affrontare casi concreti, può trovare il modo di orientarsi e di affrontarli. Un’alleanza tanto più urgente quanto più si verifica il progredire di una diffidenza reciproca. Soprattutto nell’ università. Energia e sapere.Si è esposto il primo modo di entrare in tema. Ma ve n’è un secondo. E viene dal tema stesso di EXPO: nutrire. In che cosa nutrire, che è il tema più antico, ci investe come problema d’oggi.
Come problema nuovo che ci sorprende, ci coglie disarmati e c’interroga: nutrire. Dietro questa parola oggi si vede la migrazione epocale da Sud a Nord, la fame, la guerra. Dunque la parola c’interroga su qualcosa di cui ignoriamo il come affrontarla. Non voglio dire che siamo ignoranti e disarmati, ma abbiamo mezzi inadeguati e inadatti.Da un altro punto di vista, allora, si reclama forza ed energia. É chiaro che l’energia ora è apparentemente meno spirituale e umana, e più “fisica” in tutti i sensi. Reclama addirittura un approccio scientifico alla “natura”. Lo dicono le altre parole chiave del tema EXPO: ed in particolare il modo in cui si attraggono pianeta ed energia per la vita. Di questo però non devo parlare, non è nello specifico delle mie competenze. Ma conferisce al tema sapere/energia una pregnanza particolare che non si può trascurare in nessun caso.

Soprattutto nella collaborazione tra le generazioni che abbiamo preconizzato come questione essenziale nell’affrontare ciò che fa problema oggi. Anche questo era un approccio diretto al tema della modernità come ora/qui, nel padiglione architettura di EXPO. Ma un’altra constatazione emerge nel porre a tema “il moderno”. E cioè la questione del rapporto memoria/immaginazione. Ed in particolare la svalutazione della memoria. Per di più l’emergere simultaneo dell’idea di generazione spontanea. Che pone al centro dell’attenzione l’immaginazione con quanto di arbitrario essa porta con sé. S’ impone un problema capitale. Da qui sorge la critica del narcisismo soggettivo e la ricerca di anonimato nell’arte. D’altra parte la svalutazione della memoria comporta la svalutazione dei fatti, il disinteresse al loro valore, l’indifferenza alla qualità del significato così come alla pregnanza della forma. Chi può interessarsi alla produzione “naturale” di chiunque altro, preso com’è della propria? Torna la questione dell’ape e dell’architetto. Se l’ arte, come quella dell’ape, è una “bava” forse non è altro che un rifiuto. E non lascia traccia. Senza rivolgersi ad alcuno e senza potere d’attrazione che susciti entusiasmo alcuno, non reclama memoria, ma neppure ha energia.Di fatto è un rifiuto. Uno dei principali problemi del pianeta, riempirsi di rifiuti.Non mi dilungo. Non voglio dedurne altro che l’inanità di una immaginazione senza memoria dei suoi fatti. Senza intenzione cioè energia.Un ulteriore monito alla collaborazione tra generazioni tra sapere e progetto, energia e strumenti, immaginazione e memoria.

Biografia urbana. Milano dal Medioevo ai giorni nostri . | in basso: Il modello di Milano 2000

2. Milano capitale.
Entro ora nel tema in modo meno diretto e più “classico”. Perché devo parlare di Milano. A questo soggetto conferisco la qualità dell’attributo: capitale del moderno.Ora di una cosa è certamente capitale Milano, della Lombardia. E i due termini, Milano e Lombardia “dicono” cose diverse, Milano è un toponimo, Lombardia designa l’area abitata da una popolazione, i Longobardi. In conclusione si è denominato il luogo eminente dell’area, una regione, che mantiene il nome di un popolo che l’abitò nella storia. Non è né la popolazione originaria celtica né la civitas di una capitale romana il cui primato civile e politico, è illustrato da Ambrogio e Costantino. Il nome ci riferisce di un’origine nel tempo storico di cui si ha ancora memoria, per qualcosa di memorabile e identificatore, che il nome della regione conserva. Ma perché i longobardi oggi, nel contesto dell’evento globale di EXPO in cui Milano si fa presente al “mondo” dal suo luogo regionale dell’Europa? Forse perché furono protagonisti in quella temperie originaria in cui si formò il nucleo dell’Europa moderna al tempo di Carlomagno?

In ogni caso la potenza originante dell’ora di allora in cui quel popolo fu presente alla sua ora in modo attivo e operoso, ci annuncia qualcosa di intrinsecamente moderno che fa primato di capitale. Da qui si possono riguardare analoghe ore che costruiscono l’attitudine a guardare alle risorse ed energie proprie e del territorio entro un progetto al futuro. L’ora di Ambrogio e Costantino o l’ora di di Teodolinda, o quella di Ariberto, di Filarete e Leonardo, di Verri e Cattaneo, o di Boccioni e del Politecnico. Ho parlato di uomini, ma evoco i loro fatti. I “fatti” delle ore identitarie che inaugurano un presente esteso (nei termini di Focillon) e costituiscono nel presente d’oggi, evi memorabili o identitari della biografia urbana. Ore in cui si ripete l’attitudine a concentrasi sul presente d’ora e concepire progetti (inventando la necessaria strumentazione concettuale) che confermano il carattere della città nella sua biografia urbana.Torno al toponimo della regione di cui abitarono i longobardi perché nomina la collinetta emergente dalle acque del lago palustre alimentato dalle risorgive della falda alpina oltre che dai molti corsi d’acqua perenni che vi scorrevano nascendo dalle Alpi e dalle prealpi, perché si strutturarono allora, nel corso del medioevo post-longobardo i conventi che, nella pianura tra Monza e Pavia e lungo la Vettabbia picchettano la valle e presidiano il territorio da loro stessi costruito, regolando le acque e creando la marcita, premessa e conduzione della la ricchezza agricola della regione.

Insomma Milano è nella valle padana e sotto i laghi delle Alpi il capoluogo in cui si riassume e concentra una congiuntura geografica e storica felice che il lavoro anonimo ma sostenuto dalla volontà e divenuto sapiente delle popolazioni abitanti fece divenire geografia manufatta strutturata per una società abitante potente e ricca. Questo a proposito della congiuntura geografica felice. Che per di più era su di una linea viaria costruita nella storia, confermata all’epoca dell’impero romano e consolidata all’epoca della quadri partizione dell’impero. Una linea viaria intercontinentale, terrestre e marittima che sta tra Costantinopoli e Londra ad bivio verso la valle del Reno. L’ Emilia padana, che prosegue nel Sempione. Essa si inscrive nel cuore del centro urbano tra piazza del Duomo, piazza Scala, Corso Manzoni, il Cordusio e corso Sempione. Ed ha la Galleria come elemento urbano di mediazione, o meglio il suo ingresso ambiguo in piazza Scala, invenzione geniale del Mengoni, che media appunto, il conflitto delle giaciture, quella geografica romana e quella locale cristiana.Se dunque questa è la congiuntura storico geografica inscritta nel cuore stesso della città, dove lavora una civitas urbana sempre attenta all’appuntamento con il tempo, testimone della filosofia del fare come scelta intenzionale più volte vissuta da Milano, come si è detto, qual è il momento memorabile che ne fa antefatto dell’oggi?

Filarete e Leonardo, il modello e il progetto. La carta topografica e il principio della scalatura.
3. Milano capitale rinascimentale. Modello della riforma urbana postrinascimentale.
Penso, allora, a quel momento particolare, il ‘400, in cui si verifica una specificità Milanese nel vivere la rivoluzione del tempo, come la chiama Garin, una rivoluzione epistemologica. In quegli anni, a Milano, si afferma una novità che ha effetto di progetto urbanistico piuttosto come “paradigma” di strutturazione della riforma urbana post-medioevale. Cioè paradigma del disegno urbano. A Milano, in altre parole, si intuisce il rapporto essenziale tra città e territorio. E se ne inventa il paradigma di strutturazione. La cui logica varrà fino alle soglie del ‘900 in Europa. Non solo in Italia. Parlo della città ideale nel trattato di Filarete dedicato a Francesco Sforza. Ma, affinchè questa “invenzione” non sembri episodica e casuale, penso all’opera creativa e artistica che procede per tutto il Quattrocento e compie i primi fondamentali passi nel campo della scienza proprio allora. E perciò al dialogo o alla sinergia di autori insigni riuniti a Milano in quel secolo: Filarete appunto, Bramante e Leonardo.
Vorrei, in proposito ricordare che tra Filarete e Leonardo c’è una relazione di concatenazione efficace, tra chi concepì il Paradigma della unificazione del territorio, attraverso la città, e chi sperimentò sul campo l’infrastrutturazione idraulica e urbana mettendone a punto la strumentazione concettuale e operativa per pensarla, progettarla e realizzarla. Cito i magnifici disegni di Milano, e segnalo lo sviluppo leonardesco del disegno geo-topografico (culminato nel rilievo di Imola e nella relativa mappa topografica). Ma soprattutto la geniale definizione del concetto di scalatura, attraverso il disegno dell’ homo ad circulum et ad quadratum, che rappresenta nelle giuste proporzioni (ed alla giusta misura) l’idea organica della partizione dell’uno/tutto scalabile all’infinito e all’infinitesimo. Lo strumento concettuale e logico necessario ad affermare universalmente la rappresentazione cartografica della terra, la cartografia in scala e la mappatura urbana. Insomma si posero allora le premesse base, concettuali e strumentali per la strutturazione del territorio che costituisce la città moderna mentre si struttura e cresce insieme ad essa.
D’altra parte, anche allora il problema era quello della crescita urbana che induceva una disgregazione della città, come alla fine dell’ottocento. E, come allora, bisognava scoprire una originale modalità che sostituisse l’addizione e determinasse integrazione. Come alla fine dell’ottocento si pose il tema della città che sale, quella futurista di Sant’Elia.

Il rilievo della città e la mappa in scala.

a sinistra: Boccioni, Sviluppo di una bottiglia nello spazio, 1912-13| a destra: Sant'Elia, Città futurista, 1913-14

Milano rasa al suolo.Bombardamenti nel 1943-45.

4. Gli anni ’50: Milano capitale del moderno
Ma sostanzialmente dovendo parlare d’oggi dobbiamo pensare al dopo la seconda guerra mondiale quando nulla fu più come prima.
La tabula rasa delle città si verificò durante questa guerra. Avevo tre anni quando cominciarono i bombardamenti del ’43 che durarono fino al ’45. Sentii cadere la bomba che distrusse la casa accanto. Ed ho conosciuto il terrore della distruzione totale. Quello che divenne universale dopo la distruzione atomica delle città nipponiche. E durò come equilibrio del terrore per i decenni successivi.
Penso che Milano si mostri capitale del moderno in quegli anni: gli anni ’50. Quando la coscienza del potere distruttivo dell’energia sprigionata dalla materia verificò le scoperte della scienza evoluta in tecnologia distruttiva ed usata come esercizio di violenza. E come arma letale o deterrente. Ma a Milano fu sentita intuita e pensata in una dimensione diversa e “sovversiva”: non distruttiva ma generativa. Artistica e non letale. In questa congiuntura si può cogliere più immediatamente e a fondo l’anima di Milano di fronte agli eventi estremi. E in questo caso il prevalere dell’ottimismo della volontà di fronte a una tragedia che poteva indurre piuttosto il pessimismo della ragione. Infatti interpretarono la propria rovina come testimonianza individuale di un dato di fatto universale. Insomma la distruzione che era di fronte agli occhi fu vista nella prospettiva delle distruzioni totali atomiche che si protesero nel terrore della guerra fredda.
Perciò la ricostruzione della città non fu rifacimento dello status quo ante, ma ricerca di adeguamento all’oggi, nella convinzione che l’identità non si inscriva tanto nel passato quanto nel progetto che protende l’oggi (e il passato che lo sostiene) in un progetto al futuro che intende rafforzare la struttura per affrontare le sfide a venire. Milano si guardò in questa prospettiva. E l’architettura della città, si rinnovò conseguentemente. Lo “dice” l’edificio stesso in cui ci troviamo. Così originale. “Distinto” dai suoi simili, soprattutto americani. Manifesto dell’ottimismo della volontà che prevale sul pessimismo della ragione come insegnava Rogers al tempo della scuola esemplificandolo con la propria opera: la Velasca. L’architettura degli anni ’50 resta documento di questa tensione al futuro motrice dell’eccellenza milanese.

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, 1938-41

Enrico Baj, opere.

Dario Fo, l'attore, l'autore, sul palcoscenico

Aldo Rossi, Memoria e immaginazione. Gli archetipi della genesi urbana. L'immagine
5. I manifesti dell’anima della modernità milanese.
Un’eccellenza artistica multiversa, non solo architettonica. E, non solo artistica. Ma dell’eccellenza scientifica non parlerò per limitarmi all’arte che ho meglio conosciuto.Mi riferirò quindi ad una rosa di autori per illustrare l’ampiezza dell’espressione artistica della modernità milanese e ricostruire attraverso di loro l’anima di quelle generazioni nell’affrontare la ricostruzione. E il sentimento di rinnovarsi per rafforzarsi. L’ autore che riconosce la modernità, come attualità d’allora come radicale aver voltato pagina è Enrico Baj, l’inventore insieme a Colombo e D’Angelo del movimento nucleare il quale sostenne l’energia della materia scoperta dalla fisica moderna come essenziale costituente, quale principio dell’energia, principio di qualunque forza, anche di quella espressiva e artistica. L’energia della materia stessa si manifesta ed esprime meglio di qualunque individualità soggettiva d’autore nelle materie stesse. Tale intuizione “sovverte” l’idea tradizionale di materia e d’espressione, A partire dal principio di un diverso rapporto tra uomo e natura. Al cospetto di una manifestazione, bensì di natura, ma determinata dall’uomo in base a sperimentazioni scientifiche.
A suo modo anche il trattamento informale dei materiali, che induce una nuova figurazione, in quanto non condizionato da alcun atto intenzionale di significazione è un atto sperimentale. Esso suscita in chi lo compie e osserva, un sentimento di stupore che sorge bensì dall’insensato per la ragione, ma denso di forza quindi capace di interazione. Suscita emozioni. Si svaluta la personalità dell’autore che deve assumere la posizione ricettiva di chi reagisce non più quella attiva di chi propone. La soggettività è messa fuori gioco. Non esclusa, perché qualunque interazione esige il tempo umano di una biografia personale, ma perché l’autore dell’espressione, come materia senza mediazioni, è non umano, non è “soggetto” né “oggetto”. L’informale di conseguenza acquista una legittimazione espressiva inusuale proprio per l’impiego “brutale” dei materiali allo stato naturale. Ne colgo l’eco persino in Fontana e Burri. Per altro verso, vedo l’ introduzione di un tema oggi definitivamente affermato anche per il valore multiculturale e multietnico. Non senza mantenere il sentimento di un’ora attuale che deve essere come tale marchiata ed inscriversi nello spazio pubblico, fisico o comunicativo. Fatto che ha un’ampia eco nell’oggi dominato dalla comunicazione nelle forme meno dirette e più mediate. Non proseguo. Verifico questo: il manifesto dell’arte nucleare fa data.Inaugura l’attualità del moderno.

Ho introdotto il tema della comunicazione, e l’affronto ora nella versione più radicale. Quella di Dario Fo.
Sono consapevole che riguarda l’oggi che viviamo. Il 2015 nel quale la comunicazione per immagini è non solo dominante ma pervasiva. Affrontandola con Dario Fo e il teatro che ha impersonato col suo stesso corpo di mimo, so di affrontare il tema nel modo più essenziale e radicale. E al di fuori del culto della personalità. In che modo allora l’anonimato intenzionalmente perseguito e consapevole di sé, poteva affrontare nell’essenza il tema della comunicazione? Certo nel teatro, ma ricorrendo alle maschere della commedia dell’arte distolte dal pathos delle passioni e temperate dalla risata del clown. Ed usando l’insensato pregno di sensi veri contro un ipocrita buon senso. Potevano allora esprimere una critica etica, metastorica e socialmente condivisa ribaltante in riso il proprio sguardo esigente. Questi era per me Dario Fo che andavo a vedere a teatro da ragazzo, testi come la Signora è da buttare trattanti temi di attualità immutata: come la critica alla società dei consumi di un’America invidiata ed imitata. Di essa voglio ricordare una “gag” che riassume in un’immagine icastica la forma di spettacolo più amata allora, il cabaret, la musica jazz e le battute insensate contro il buon senso: uno scheletro canta a squarciagola suonando jazz al pianoforte. Non voglio certo limitare a questo l’arte di Fo, trascurando Mistero Buffo. Dove lo stesso corpo dell’autore/interprete, riassume il teatro intero; con la mimica, e ove occorra il suono di parole che non dicono assolutamente nulla, il gramlot, trasmettendo, però, di l’anima delle lingue. Nuova figurazione, nuova narrazione.
Non posso dilungarmi. Evoco allora il teatro dell’architetto. E per la stessa ricerca antisoggettiva capace di rinnovare l’idea tipologica di teatro attraverso “immagine tipica”, metastorica e archetipale. Figura tipica, perciò maschera per essere metastorica verità. Tale figura che l’autore chiamò analoga perche nascente di nuovo, nel tempo come archetipo, non può essere identico ma analogo. Sto parlando dell’opera di Aldo Rossi alla ricerca della verità del tipo architettonico che è immagine analoga, cioè come replica dell’archetipo ma “generato” nel tempo e piegato dallo spirito del momento ad esprimerne la stimmung. Si delinea una ricerca del modo d’essere “anonimo” dell’espressione che accade nella biografia di un autore. Il documento di questa ricerca è il Teatro del Mondo, realizzato come manifesto della Biennale di Venezia del 78 (?) Era un natante che poteva navigare per l’Adriatico e che volgeva a Venezia, ovunque sostasse, il porto della sua tappa. Tale era la intrinseca forza evocativa della sua immagine. Ne traeva fuori la venezianità associandone i luoghi al suo essere ideale.

L’intelligenza dell’immagine, il suo potere, non derivava dalla psicologia dell’autore, ma dall’aura della città che l’impregnava.
D’altra parte, come “dice” la tavola della “città analoga”, stabilendo per così dire le cause dell’architettura della città, la mente cattura immagini come documenti di cose e di fatti. I quali stessi sono gli elementi costitutivi della città. La memoria li reperisce come archetipi. E, quando l’immaginazione d’autore, per così dire, li trae fuori, essi “nascono” tali tra soggettività d’autore e documento di realtà aninoma, memoria e immaginazione. Sorgono così nel tempo come momento di biografia urbana. Nascono nel tempo di una biografia d’autore ad abitare la città, come “fatti urbani” a sostenere un presente esteso che varrà, come tale, nel tempo d’altri che verranno ad abitarli. Costituendo un immaginario collettivo piuttosto che testimoniando una psicologia d’autore.

a sinistra: L.Moretti, Complesso polifunzionale in Corso Italia | a sinistra: G.Ponti, grattacielo Pirelli
Carlo de Carli, Il teatro Sant'Erasmo e l'edificio che lo conteneva in via dei Giardini, 1953

6. Cenni biografici.
Questa è stata per me scoperta recente che ho cercato di integrare nel mio lavoro. Perché occorre un lavoro non segnato dalla psicologia di un autore per il progetto architettonico. Soprattutto in un laboratorio universitario, in cui la collaborazione tra le generazioni è la base dell’avanzamento. Parlo allora del laboratorio fondato molti anni fa con i miei allievi e collaboratori. Che ho lasciato da qualche anno e che oggi la professoressa Contin conduce con indubbia originalità e risultati eccellenti. E del più recente che conduco oggi a lato di Arcduecittà, rivista fondata nel 2011. Non proseguo. Dichiaro però che non sono divenuto “rossiano”. Ho capito, anche attraverso Rossi, che l’architettura come progetto è ciò che “incatena” biografia umana e biografia urbana. D’altra parte mi sono laureato con Carlo De Carli il cui motto era “le cose nascono”. Perciò spazio primario. Esprimeva la modernità che pensa l’interno e riguarda l’abitare, il problema dell’architetto: saper pensare e fare per abitare. Non l’ho dimenticato.

Riprenderò il tema in seguito.In proposito, rievocando quegli anni, ripenso i miei anni ’60 e le opere che s’imposero alla mia immaginazione allora: questa stessa torre Pirelli di Giò Ponti, il complesso multifunzionale di corso Italia di Luigi Moretti, e l’edificio di via dei Giardini di Carlo De Carli. Tutti interpreti allora, dello stile internazionale nella originale versione milanese che ebbe un seguito in molti paesi negli anni successivi. Non li guardo però ora come rottura col passato e apertura al futuro, diversamente da come ho fatto precedentemente. Li guardo invece come compimento dell’opzione degli anni ‘30/’40, ilustrata da Terragni, non solo perché esponente di punta del razionalismo in Italia, ma perché seppe definire un “canone”, per così dire, dell’architettura moderna internazionale, tra casa Giuliani Frigerio e casa del Fascio. Ma soprattutto perché molti professionisti di allora appresero da Terragni, a produrre un’edilizia di qualità caratterizzata dall’equilibrio tra la superficie di mattoni e il telaio in cemento ed una immagine per quanto generica della modernità, specifica della città.

D’altra parte in quegli anni era Giò Ponti colui che impersonava la versione italiana e milanese dello stile internazionale che la rivista Stile promosse e pubblicizzo, esercitando così un’attrazione indiscussa sugli architetti non solo italiani. In particolare sull’architetto romano, Luigi Moretti, che meglio ha illustrato l’originalità moderna dell’architettura in quegli anni con il complesso edilizio per uffici e abitazioni in Corso Italia (primi anni’50), una tipologia “ibrida” avrebbe detto Fenton trent’anni dopo, per qualificare così l’innovazione tipologica caratteristica della città iperdensa del XX secolo di cui Milano è un caso particolare.
È quest’opera milanese dell’ architetto romano che attesta e convalida il primato di Milano, capitale del moderno. Solo un architetto romano poteva farlo.
D’altra parte Moretti venne Milano per sostenere un’idea di architettura alternativa a quella palladiana milanese, michelangiolesca o borrominiana in cui vedeva l’altra faccia del rinascimento, analoga al futurismo piuttosto che al cubismo. Così indicando una via per andare oltre l’international stile. E lo fece attraverso la rivista Spazio, che uscì qualche anno dopo l’ultimo numero di Stile.
Sono queste due riviste che indicano in che direzione si procedette negli anni ’40 e ’50 nella ricerca archittonica della modernità (la ricerca dello zeitgeist). E fanno di Milano il luogo dove essere iniziati all’architettura moderna nel procedere oltre il funzionalismo.
7. Un progetto di formazione dell’Architetto al Politecnico
E a proposito dell’opera di De Carli oltre Ponti e Moretti, voglio sostenere che il compimento degli anni trenta non è motivato dal fatto che De Carli impersoni una discendenza, che peraltro non è quella di terragni, ma di Ponti, ma dal fatto di avere dato corpo con Leo Finzi, ad un progetto formativo dell’architetto nel Politecnico che porta a compimento l’integrazione tra costruzione e immagine che era nei voti dell’architettura razionalista italiana. Interpretarono, insomma una idea precisa di mestiere basata sul disegno tecnico sul foglio bianco, diverso da quella romana. In questo processo formativo, la scienza dell’ingegneria e l’arte della forma possono procedere affiancate perché lo stesso disegno tecnico sul foglio bianco sostiene il pensiero nell’atto di dar forma e nello stesso tempo di fornire consistenza statica all’edificio. Ed ho detto mestiere, perché privilegia il lavoro tecnico del disegno; un lavoro, ripeto, in cui il foglio e la mano che vi traccia figure sono chiamati a sostenersi reciprocamente entro la logica che istruisce le forme per conferire loro “realtà” di cose nello spazio. In cui cioè, foglio e figure tracciate forniscono alla memoria e all’immaginazione la sostanza per pensare forme autodeterminate e capaci di sostenersi e conservarsi. Cioè di pensare forme per la realizzazione. Di conseguenza spazio primario e principio dei lavori virtuali si sposavano nel punto stesso del foglio toccato dalla penna, l’uno in quanto punto della forma, l’altro in quanto punto di resistenza interna alle sollecitazioni dei carichi.
A questa integrazione logica entro il lavoro di progetto si coordinava l’esercizio sapiente della percezione istruita dalla scoperte della modernità. Ed era compito di un nuovo insegnamento affidato a Dino Formaggio, allievo di Banfi ma soprattutto artista lui stesso, scultore, ed autore della Fenomenologia della tecnica artistica. Egli introduceva alla linguistica moderna ed alla semiologia in base alla teoria della percezione moderna a partire da un approccio non era letterario ma semiologico.

Gruppo ADFR (Almici, d'Alfonso, Ferrari, Rossi), Espositore e teatrino nel Salone d'Onore della XV Triennale.
Gruppo ADFR (Almici, d'Alfonso,Ferrari, Rossi). Edilizi speciale in via Bazzini, 1972-73
Casabella 321, 1967. Omaggio a Borromini, Ernesto d'Alfonso

8. Saggi e Manifesti della scuola.
Questa terna di sinergie l’ho assimilato e portato nella pratica del mestiere e nello studio dell’architettura; cioè nello studio delle opere d’architettura. Per il quale la percezione era una sorta di lettura corporea delle opere stesse. Una lettura “intellettuale”, perché basata su disegni tecnici e immagini fotografiche, osservati e pensati nella concatenazione mentalmente ricostruita di itinerari percettivi entro e intorno all’opera esaminata.
Così è cominciata la collaborazione con Casabella con una “lettura” dell’Oratorio dei Filippini, corredata dallo studio dell’Opus Architectonicum –il cui testo è suggerito dal padre Spada ma l’opera architettonica è illustrata dalle tavole di Borromini esaurienti più di una servizio fotografico moderno. Seguirono su Casabella “letture” di opere di Canella e di Albini. Attraverso tutte si orientava alla progettazione moderna la “lettura” stessa. D’altra parte questo era il problema del laboratorio fondato con gli amici. La sperimentazione del progetto d’architettura moderno. Il cui manifesto pubblico, fu la realizzazione del salone d’Onore della XV triennale il manifesto dell’architettura. E, aggiungo, un progetto di residenze minime in via Bazzini, non realizzato ma pubblicato qualche anno dopo. Questo cenno biografico è essenziale perché avvia una parte del mio argomento in cui si toccano gli ultimi anni, non più riguardabili in chiave storica. Ma solo richiamati secondo il filtro della memoria a partire dalla posizione militante dell’ architetto insegnante.

Una ricerca in architettura 1950-2000
9. Modernità oggi? Una ricerca.
Ho altrove già sostenuto che Le Corbusier è il campione della modernità. Perciò, per me, la valorizzazione di Terragni, anni dopo, soprattutto per opera di Eisemann, annuncia un modo del “dopo la modernità”, non nel modo postmoderno secondo la vulgata corrente, ma ascendente ad una versione “canonica” del moderno, cioè oltre il moderno perché sapiente e capace di elaborare la sintassi architettonica. Ed in questo Terragni è stato più rigoroso di le Corbusier. In un certo senso, più anonimo e “declinabile”, più paradigmatico. L’idea che l’opera di Terragni indichi un modo ben più declinabile, di quella di Le Corbusier, fungibile per il progetto a venire, mi ha portato a prendere in considerazione l’idea di “Terragni, dopo Le Corbusier”. Perché la sua stessa opera, sintetica e non analitica e soprattutto tridimensionale e non stereometrica, futurista e non cubista, inaugurava una prassi per così dire assonometrica del progetto per la quale l’edificio in scala 1:1, modello di sé stesso, poteva considerarsi, usando un termine di Eisemann, cardboard architecture. Un “cubo di cubi “armonici” nel quale ogni elemento potesse subire una piccola modifica ridondante sulle altre e spazialmente qualificata. Inaugurava una prassi oltre la modernità nè “pop” nè postmoderna.
Questo mi consente di citare Colin Rowe, lo studio di Wittkover sui principi architettonici nell’età del rinascimento degli anni ’40, la scoperta della sintassi palladiana o del quadrato di nove quadrati. E di segnalare la rinascita della sintassi architettonica che avrà nella scuola americana di Austin, ed in seguito di Cornell e della John Hopkins ispirata da Hejduk, un seguito importante. E di segnalare che nei confronti di questa posizione, la tridimensionalità del paradigma sintattico terragnano compie un avanzamento essenziale.Non proseguo.Chiudo la parentesi degli anni ’50 ricordando che nel ’52 si tenne nel contesto della XI Triennale, il seminario internazionale sulla Divina Proporzione, in cui si confrontarono Wittkover e Le Corbusier, l’uno con gli studi sulla teoria delle proporzioni albertiano-palladiane, l’altro con la ricerca sul Modulor che proponeva un “canone” numerico per la sintassi architettonica investendo, così il problema del modulo e i procedimenti base della prassi architettonica moderna. E sostengo che Colin Rowe comparando sulla base del quadrato di nove quadrati un’opera di Le Corbusier con una di Palladio spostò l’attenzione dal Modulor, ad una struttura metastorica dell’ordinamento architettonico che indicò ad Hejduk un principio fertilissimo per l’invenzione progettuale d’oggi.

Una prassi che esigeva un nuovo paradigma urbano. Colin Rowe ripensando il pochè di ascendenza francese come opposizione gownd/figure, propose l’inversione del tradizionale assedio del vuoto da parte del costruito con l’assedio del costruito da parte del vuoto.
Non mi dilungo. Il problema del disegno urbano necessita di un approfondimento logico del paradigma rinascimentale.
D’altra parte non è l’oggetto singolo e solitario che si colloca in uno spazio neutro facendo il vuoto intorno quello che occorre alla città d’oggi. È Infatti un’interazione organica di “oggetti” tipo logicamente differenziati per funzioni dominati ciò che occorre per marcare l’oggi nel dove della città. Occorre, inoltre ricostruirne la biografia urbana nel contesto locale nei confronti del nucleo originario e dell’area periurbana. E tener conto delle ore preterite che si protendono all’oggi come presente esteso attendendone un progetto al futuro di fronte alle sfide inedite che reclamano scoperte ed invenzioni.
Di fronte al tempo che incalza – devo ormai terminare, come mi hanno segnalato gli amici – mi affretto a mettere in evidenza quello che è stato negli anni ’90 e ‘2000, il modo in cui ho collaborato con i miei studenti a risolvere progettualmente i problemi di casi studio specifici ed esemplari di differenti città del mondo. E prendo avvio dallo studio della struttura territoriale che si è costruita in tempi lunghi attraverso scoperte, invenzioni e interventi programmati di strutturazione ri-strutturazione che hanno creato un’armatura gerarchica di luoghi interagenti tra loro attraverso vie e strade secondo l’intuizione felice espressa nel settecento da Milizia (e Verri) : sono le città in una provincia ciò che le piazze nelle città. Un concetto la cui definizione in un modello teorico verificato poi sul territorio tedesco sarà fatta più di un secolo dopo da Cristaller. E che, per meglio intendere la interazione della strutturazione gerarchica sul territorio, dobbiamo integrare alla modellizzazione della distribuzione delle risorse terrestri (e dei relativi lavori di sviluppo) fatta da Geddes. Dunque in questa interazione si deve costruire il territorio in modo che sia capace di raccogliere e sostenere le sfide.

10. La metropoli lombarda un problema di scala.
Per questa prospettiva, la parola chiave della modernità milanese, futurismo deve declinarsi in un’accezione nuova, capace perciò di interagire con l’altra forza chiave della modernità lombarda, il Politecnico, non tanto e solo come istituzione universitaria dove si costruiscono le competenze per gestire il territorio, quanto della motivazione originale cattaneana di promozione delle scienze applicate per sviluppare le sue risorse ed energie che insieme a quelle umane fossero capaci di sostenere adeguatamente i problemi della città che sale. Ed uso questo termine di allora per richiamare Boccioni e Sant’Elia, ben sapendo che sono da affrontare oggi i ben diversi problemi della città diffusa. Che coinvolgono il territorio della regione. E qui comincia il rebus, perché da Milano, la regione è ben strutturata tra Ticino e Adda. Quindi rispetto ad Est, ove la regione si estende oltre l’Adda e fino al Mincio mantovano, Milano è eccentrica, o squilibrata verso Ovest. Solo dal punto di vista aeroportuale una struttura ben articolata si attesta su Orio al Serio, come complemento orientale, al sistema Malpensa/Linate.
Questa è una questione essenziale da affrontare per la strutturazione est dell’area metropolitana in fieri. Si tratterebbe di strutturare la Cassanese, in sinergia con la Rivoltana e con la ferrovia (un ramo nuovo di linea metropolitana parallelo alle ferrovie dello stato) nel tratto tra le due tangenziali, la interna e la esterna come asta di “città lineare. Protendendola oltre l’Adda verso Bergamo e in veneto. Studiando poi il superamento in sovrapasso o sottopasso dell’anello ferroviario per trovare un innesto nel tessuto viario interno, ed in particolare nella via Pascoli attraverso la quale si raggiungono le circonvallazioni e si raggiunge il Duomo. Si avrebbe ad Est una asta simile a quelle ad Ovest e a Nord.
Sarebbero così superati i due vincoli storicamente radicati del territorio milanese, L’Adda, che Renzo il promesso sposo di Manzoni ci ricorda essere via di fuga e salvezza come confine con Venezia. E la cintura ferroviaria, che De Finetti ricorda essere stata erroneamente pensata come confine della città o alterego delle mura. Forse bisognerebbe raccogliere, perfezionandolo, il suggerimento di AUFO che pensava una infrastrutturazione di linee metropolitane ad Est. Ho così accennato al lavoro del laboratorio di ricerca di Arcduecittà. Strutturava così ad est un tessuto insediativo appoggiato ai centri esistenti, complementare o aggregante nella forma dell’ “arcipelago” cosicchè le aree agricole frammezzo, con i loro microinsediamenti non solo fossero conservate ma mantenute al riparo dei flussi. Non posso dilungarmi.
Ho inteso portare al centro dell’attenzione la metropoli lombarda. La sfida d’oggi. Il ridisegno dell’idraulica per l’industria l’agricoltura i parchi, dell’infrastruttura , dell’energia. A scala regionale. Sono tornato al tema di EXPO dal peculiare punto di vista dell’ architettura della città. Segnalo infine che: la strutturazione idraulica, l’energia, l’infrastrutturazione viaria ferroviaria aerea, la produzione di rifiuti e l’inquinamento, il welfare sono i temi chiave da affrontare nel disegno della metropoli. E che il paradigma della “forma urbis alla scala metropolitana deve pensare nuovi epicentri interattivi con gli insediamenti esistenti per ri-funzionalizzare la struttura intera.

Camilla degli Esposti, Studio di epicentri urbani: Reshaping the Urban Border per Bishopsgate Goodsyard in East London

Huan Wei Ke. Studio di epicentri urbani: Archeologia, storia e natura nella regione cinese di Hanzou

Huan Wei Ke. Studio di epicentri urbani: Archeologia, storia e natura nella regione cinese di Hanzou

Francesco degli Esposti, Michele Piolini, Studio di epicentri urbani: HYBRID 128. The Urban Metamorphosis of Brooklyn Navy Yard, New York.

Federico Marani, Studio di epicentri urbani, Valencia, Mestalla

Concludo citando i lavori dei più giovani appunto sugli epicentri urbani in relazione alla loro tesi di laurea magistrale. Nel fare le quali, hanno affrontato casi studio esemplari di città, ovunque al mondo avessero sollecitato il loro interesse “scientifico”. Una ricerca comparativa in cui si sono distinti Federico, Francesco, Michele, Wan Wei, Camilla, nell’affrontare punti strategici di New York e Londra, Valencia e Hangzou, esemplari per comprendere i problemi chiave della città d’oggi. Per tutti cito quest’ultimo che poneva il più arduo problema del confronto con una città asiatica, capitale del sud cinese durante la dinastia Song, che costruì il grande canale nord/sud. È stata una giovane allieva la cui famiglia è originaria di quella città, a proporne lo studio. Si trattava di affrontare la qualificazione di una vastissima area vuota al centro di Hangzou. Un’area che non soddisfa la funzione naturale della sua posizione centrale tra aree di alto valore urbano. Non stabilisce cioè, la relazione tra loro e con sé.
Parlo di un luogo che chiede di avere di nuovo la pregnanza urbana della sua posizione, di essere crocevia dello spirito tra sacro e profano, natura e cultura, per introdurle nella quotidianità dell’abitare. Per offrire, cioè agli abitanti una memoria di sé al futuro collocata con le altre tra le opzioni coesistenti dell’abitare. Lascio loro, per così dire, la parola attraverso le tavole del loro lavoro.
E mi congedo ringraziando di nuovo Lorenzo degli Esposti che ha validamente sostenuto questo lavoro. E, insieme a lui Matteo Fraschini e Ariela Rivetta.


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