Ho tributato il dovuto debito di riconoscenza al barocco romano. Ma ho dovuto riconoscere la sua fine: quando la percezione della novità del tempo, che esprime, si arresta per effetto della controriforma. La ricerca “barocca” sarà meno universale e più locale. In Italia sarà perseguita in Piemonte, dove Guarini, autore del più moderno trattato dell’epoca, realizzerà i suoi capolavori.

Tra palazzo Barberini e convento di San Filippo Neri si conclude l’evoluzione della ricerca romana. E la sua fine è decretata dalla scelta di Luigi XIV il re di Francia che preferisce congedare Bernini e conferire l’incarico del suo palazzo, a Perrault. Questi è colui che risalirà a Vitruvio del cui trattato farà la traduzione.

 

1. Ripartire dal De Architectura di Vitruvio.

Studio delle categorie vitruviane da ex quibus rebus architectura constet.
Il primato della coppia
decor/distributio nei confronti di ordo/dispositio1.

L’accademia reale d’architettura francese istituita da Luigi XIV, avvia i suoi lavori proprio da questa traduzione, riletta e commentata. E con ciò fa scuola. Il disegno è considerato complemento del testo, come se si fosse perduta l’illustrazione che avrebbe potuto esserci. Tale complemento, fu pensato in modo palladiano entro il paradigma della scomposizione/ricomposizione delle forme degli edifici in rovina, tratte dalle riduzioni a disegni delle opere antiche. Ed in seguito, nel secolo successivo, invece di queste, saranno gli edifici contemporanei, gli hotel dell’aristocrazia francese legata alla corte. Non si perse la tecnica palladiana in base a diagrammi geometrici interpretati come modelli schematici. I quali, come rivelerà nel XX secolo Wittkover, erano fondati sulla teoria di Alberti.

Si trascurò di approfondire, in architettura, le potenzialità ignote che la scoperta della realtà virtuale dello spazio apriva. Essa tornerà all’attenzione della scuola francese alla fine del XVIII secolo. E diverrà davvero un problema essenziale, quando le belle arti, e la pittura in particolare, dovrà competere con la fotografia e con il cinema. Tornerà, allora, al centro il confronto con la scienza e l’antropologia.

L’idea della mathesis universalis concepita da Cartesio, che conferisce all’idea galileiana della matematica come “scrittura divina” del mondo una generalizzazione universale e sistematica, non fu acquisita dagli architetti. Cosicché il cogito, divenuto fondamento d’essere mentale, virtuale aggiungo, non fu guardato come sviluppo dell’invenzione albertiana, cioè come atto specifico dell’architetto, nel pensare sine ulla materia forme e figure esposte in disegni.

In Francia si cerca di “rinnovare” la sapienza di Vitruvio il cui trattato costituisce auctoritas e principio. E si studia in particolare il capitolo ex quibus rebus architectura constet.

Con questi cenni alla temperie nella quale l’accademia d’architettura francese si distingue dalla architettura italiana, si segnala altresì, come si faccia alfiere di una propria versione di rinascimento, cercando di fondare una scuola di architettura, al cui centro stanno le proprietà dei luogo nei confronti del tempo d’azione, quindi le categorie della convenienza e della dicevolezza. Il “giudizio di gusto” di una aristocrazia.

Il principio meta-mitico o racconto d’origine è quello filaretiano: il rapporto tra principe (o committente) ed architetto, il primo impegnato a definire gli usi, il secondo a definirne i luoghi. Quindi l’attenzione dell’architetto va alle convenienze che generano consenso, nei termini di allora dicevolezza, cui corrispondono appunto proprietà. D’altra parte il problema principale dell’architetto è la composizione le cui operazioni principali riguardano soprattutto la pianta . E sono la disposizione/distribuzione.

Bandito il rapporto tra matematica e meraviglia, che era stato il principio guariniano dell’architettura seicentesca post-borrominiana, si disfa l’intreccio tra statica della struttura e forma e figure dell’edificio. È questo disfacimento, necessario al primato incontrastato della distribuzione, nei confronti dell’ordinamento statico della struttura, ciò che davvero distingue la ricerca post-borrominiana dell’Italia da quella “razionalista” francese. E il termine barocco quale irregolare, contorto, grottesco e bizzarro lo dice autorevolmente.

Si definisce, invece, un nuovo intreccio tra misure delle stanze con posizione grandezza ornamenti, e “programma” d’uso delle stesse cosicché perde d’importanza la luce che vuole essere il più uniforme possibile. E si pone in dominante la sequenza o l’intreccio delle sequenze, le soglie d’avvio, i crocevia, i bivi che divengono tridimensionali all’avvio delle scale e ovviamente la successione di stanze che anticipano quella principale.

Emerge come tema di ricerca dell’architetto nella composizione (conlocatio), l’uso sistematico e sapiente delle serie di misure pitagoriche, che si dispiega nella pianta e si avverta nelle vedute. Lo verificano gli studi degli anni ottanta pubblicati si Parametro.

Vale la pena in proposito discutere le categorie di Vitruvio: ordo/dispositio corrispondenti alla firmitas, euritmia simmetria corrispondenti alla venustas, decor e distributio corrispondenti alla utilitas. E segnalare che il rapporto tra firmitas e venustas, per il barocco fondamentale, viene sostituito dal rapporto tra utilitas e venustas, essenziale per i francesi. Sostengo cioè che che la coppia decor/distributio corrispondente all’utilitas diviene il principio primo dell’architettura, sostituendo l’altra basata sull’ordo, che, precedentemente, aveva il primato.

L’ordo divenuto ordonnance, ribadisce il primato del nesso dispositio/distributio alla base del decor, il decoro: che presiede alla decorazione.

Così, un principio antropologico/sociologico prevale sulla necessità tettonica primitiva.

Sottolineo il cambiamento profondo nel primato tra i principi e le categorie che sono stati legati assieme. Esso coglie il cambiamento di “tono” nel duplice adattamento del pensiero al mondo e del mondo alla volontà.

Noto, infine, che la circospezione esplorativa dei luoghi, non è destabilizzata dall’analisi dei disegni. Essa resta il procedimento d’ apprensione delle proprietà dei luoghi nei confronti dell’uso nel tempo. Così come lo era stato nell’antichità in base alla testimonianza di Plinio il Giovane nelle famose lettere che descrivono le sue ville laurentina e tusculana riportate nel trattato di Durand. La circospezione si concentra però, in questo XVII/XVIII secolo sulle ore personali vissute (benché a partire da quelle personali del committente) riassunte da un programma d’uso dei luoghi.

Delimitare uno spazio, perciò, significa individuare una cellula temporale, il luogo di un’ora con le relative cose necessarie. Questo è necessario a cogliere la convenienza delle proprietà del luogo alla qualità dell’ora: le giuste misure di un’area limitata devono concentrare sulle sole cose necessarie all’azione che si svolge. Da questo punto di vista la giusta proporzione delle misure è una “mira intenzionale” o “mira della volontà”, per la “gestione” controllata del tempo d’abitare.

La circospezione che investiga convenienze e proprietà dei luoghi nei confronti degli usi, ha di fronte un testo architettonico, virtuale o costruito che sia, di nuovo genere.

 

2. La funzione della coppia simmetria/euritmia per il primato della coppia decor/distributio.

Il primato dell’utilitas governata dalla coppia decor/distributio, nel prevalere sulla firmitas, governata dalla coppia ordo/dispositio, qui intesa come prevalere dell’attenzione al tempo umano invece che alla tettonica dello spazio mondano, ha conseguenze profonde sulle altre categorie.

Innanzitutto sulla simmetria/euritmia che presiedeva alla modulazione dell’ordine da cui faceva discendere dal modulo (unità di misura) tutte le misure dell’ordine colonne/trabeazione. Una misura riguarda la totalità dell’edificio. Da essa discendono, per divisione, tutte le misure dei “vani” grandi o piccoli ciascuno dapprima nell’insieme di vani dominanti, complementari e serventi concretati da corti e scale; dipoi nella partitura del vano, fino alla misura della campata in cui si organizza il disegno dell’ordine in base al rapporto originario tra spessore della colonna e interasse della campata. La bellezza classica (venustas) infatti, deriva da una costruzione ben ordinata, cioè misurata in base ad un sistema di proporzioni tratte dallo spessore della colonna.

Ora, invece, occorre la “venustas” della dispositio/distributio il cui principio di relazione perviene all’occhio attraverso la “partitura” della modulazione che giunge al minimo dettaglio, ma procede dalla misura dell’area e del volume dell’intera forma che viene sotto gli occhi in misure modulate. La simmetria, è meno importante dell’euritmia nella sequenza. Non è più necessaria all’equilibrio che assicura la firmitas. Piuttosto, regola la sequenza delle posizioni e delle relative vedute, nella unità dell’insieme che coglie la simultaneità delle posizioni. L’euritmia, invece come periodizzazione della temporalità dinamica (circolatoria) entro la sequenza dei luoghi, diviene essenziale. Ad essa la variazione di luce e buio conferita dalla dispositio delle fonti di luce entro l’orientamento delle fabbrica e delle sue parti conferisce espressione.

D’altra parte la luce non dipende più dall’ardimento nello svuotare le coperture, ma solo dall’orientamento delle pareti. Così l’ “espressione” deriva dal disegno delle pareti, in base alla modulazione della superficie.

Ciò che era stato modo di segnalare l’ intelligenza della firmitas: la modulazione del “trilite” colonne/trabeazione, nella sequenza verticale di pietre variamente “squadrate” o “stondate” secondo una rigorosa o esatta misura e profilo – partitura del trilite dell’ordine o “canone” dell’ordine – diviene disegno della superficie e del volume del vano. Sulle pareti quindi ricorrono decori o marche di convenienze gradite al gusto di una “aristocrazia”.

Questo punto d’arrivo propriamente convenzionale o sintattico/grammaticale, distinto da norme è il vero contributo francese all’architettura. Il suo limite è che l’opera d’ingegno si offra alla intelligenza mentale. Cosicché la estrema raffinatezza dello studio ritmico e armonico si disperde nel sensismo della percezione. E l’intelligenza dei numeri si perda. Si occulta, infine, il fatto che il disegno sperimenti le possibilità di un oggetto offerto alla circospezione mentale che esplora esperimenti dell’invenzione di oggetti virtuali.

Non mi dilungo e riassumo.

Tutto si conforma ai requisiti della coppia egemone: decor/distributio. E la decorazione è concepita come commento che indica, attraverso la preziosità dei materiali e la perizia dell’artigiano, il grado di valore di ciascun luogo (stanza o sala portico o galleria etc) destinato al tempo d’azione di un attore.

In proposito i termini dispositio e distributio stabiliscono un rapporto, tra loro e con l’esperienza circospettiva, privilegiato rispetto a quello antico che correlava la disposizio all’ordo. In un certo senso il rapporto rigido tra ordo e dispositio segnala il primato irrevocabile della statica. Esso non può essere revocato ma subordinato all’altro. La rigidezza delle posizioni viene trasferita dalla posizione singola alla pluralità delle posizioni relative. Stabilita dall’interno come divisione di un’area totale la cui posizione_disposizione è preliminarmente stabilita come terna di assi perpendicolari tra loro originati dal punto centrale dell’area stessa. Essi impersonano le sei direzioni cubiche del corpo umano (sopra/sotto, destra/sinistra, davanti dietro). Le quali si espongono all’orientamento ed alla giacitura regolando la propria circospezione su di esse. Da qui il primato delle giuste misure dei vani, ciascuno per sé, entro la sequenza dell’enfilade di un corpo di fabbrica che circonda cortili; e distingue interni da esterni.

 

3. Il cours di Blondel ed il contributo teorico di Sultzer.

Il titolo del corso di Blondel nella prima scuola “privata” per architetti in Rue de la Harpe a Parigi, sarà, De la distribution, decoration,construction in cui la costruzione è subordinata alle prime due, lo dice lapidariamente: “L’area è l’unità che intreccia le sei categorie. La coppia area/divisione, cioè la partitura dell’area, deve essere un sistema. La coppia simmetria/euritmia, che concreta la venustas, persegue un sistema di misure armoniche (pitagoriche) sottolineo che si basa sul muro che sostituisce la colonna e dà corpo alla superficie il cui scostamento dalla parallela stabilisce la misura base del corpo di fabbrica. L’incrocio dei corpi di fabbrica ritmati dall’interasse della campata/modulo diviene il tema della composizione per la divisione dell’area, o per la moltiplicazione del modulo nella cadenza ritmica analoga al passo che viene alla vista come elemento.” E tra Blondel, Ledoux, Durand e Quatremére de Quincy si svolge la sperimentazione di questo tema.

Le idee di Blondel trattate nel Cours d’architecture ou traité de la décoration, distribution et constructions des bâtiments contenant les leçons données en 1750, et les années suivantes pubblicato nel 1771 la Harpe – tra i cui allievi vi fu L.N. Ledoux, l’architetto francese più geniale del settecento – sono divulgate dall’Encyclopedie di Diderot, D’Alembert.

L’autore francese inventa il tipo dell’hôtel francese. Il modello cui si ispira il maestro francese non è il palazzo italiano, ma la villa romana in una versione urbana rinnovata, quella di un edificio ad un solo piano sopra il basamento nel quale si integrano parco e dimora patrizia. L’edificio deriva dalla partitura di un’area rigorosamente rettangolare entro la lottizzazione urbana. L’area della pianta è più ampia di quella del palazzo italiano. La fabbrica è invece più bassa.

Anche se, commentando le categorie di Vitruvio, Blondel cominci col trattare di ordo, dispositio, il suo tema non è l’ ardimento costruttivo. Le esigenze statiche si risolvono con la contraffortatura del muro sottolineata dalle lesene. L’intervallo tra lesene, la “luce” della “finestra” è Il vero modulo. Una marca del muro. Un commento della parete.

Dall’interno, l’interesse dominante è il volume tra le sei superfici compresa l’area del pavimento dal tetto. La sala, interessata da un numero generalmente dispari di finestre, segue le altre infilate una di seguito all’altra in un allineamento di aperture in prossimità della parete o della fonte di luce. La sequenza delle sale è decorata in una gradazione che espone la proprietà ad un “grado” nella gerarchia del tempo relativamente ad un grado della scala sociale. Si vuole posizionare per una spectio circospettiva entro un campo perimetrato e coperto di vani in successione, onde assicurare il tempo dell’abitare nel tempo del riflettere memorizzare immaginare, infine programmare per agire dando seguito ai programmi deve corrispondere ad un grado della vita sociale. Questo si rivela un obbiettivo specifico. L’hotel francese costituisce il ritratto sociale di un grado della società, il più alto, come “mondo” conveniente ad esso.

Far coincidere una disposizione/distribuzione di un’area come divisione cioè proporzione univoca che un sistema seriale di misure verifica e rende intellegibile, costituisce l’intelletto in un vissuto di un fatto, la raccolta coerente e sistematica di ciò che occorre ad esporre un ritratto sociale. L’arte di esporre nei fatti questo ritratto, diviene ricerca prioritaria se non esclusiva.

Per questo obiettivo, il modello non è il palazzo, ma la villa. Che divenne un edificio urbano, non una residenza in campagna. E si chiamò, hôtel. Era generalmente più basso, di soli due piani e l’articolazione invece di basarsi sulla differenziazione tra parti serventi/servite in base a mezzanini introdotti sopra stanze basse a fianco delle sale furono risolti dalla differenziazione dei cortili.

Perciò, l’area era divisa da corpi di fabbrica ortogonali – a loro volta divisi in celle o stanze. Al loro incrocio, bivio tra enfilades di soglie o portici, stavano luoghi di transito grandi come i due corpi che s’incrociavano, quindi generalmente maggiori dei contigui. Per l’architetto, dunque, stante il vincolo di non superare luci massime precise, tra i sostegni, ed, anche, la congruenza tra l’allineamento dei muri e la regolarità degli angoli stanti i diversi spessori del corpo di fabbrica, era assicurare un accordo armonico tra le misure di ciascuna parte e quella delle altre. Oltre l’accordo speculare tra allineamento ed angoli la simmetria doveva assicurare l’accordo tra le misure cubiche della parte e questo entro la successione delle parti. Si introduce dunque il ritmo di un intervallo, cioè la cadenza di un modulo, che non coincide con quella della parte, ma è l’intervallo tra l’asse di una finestra e l’altra, la cui ripetizione si avverte piuttosto alla vista che non al passo, mentre di fatto è regolato da un passo.

Tra l’area compresa dal perimetro dell’intero edificio, divisa da corpi di fabbrica, formanti cortili, e le facciate dei corpo di fabbrica segmentate dagli incroci con i perpendicolari. A loro volta ritmicamente scandite dal modulo , l’interasse tra le mezzerie delle finestre o tra le mezzerie delle lesene o delle colonne dei portici si, stabiliva una relazione tra misura massima e minima che doveva essere armonica e commisurata.

Rimando ai disegni elaborati per verificare l’esistenza di un sistema di misure entro la costruzione geometrica dei rapporti tra parti.

L’idea illuminista francese viene portata a sistema da Sultzer . E divulgata dall’Encyclopèdie in calce alle voci di Blondel2.

Come autore del settecento per Sultzer l’uomo che abita e costruisce come attore è genio qualificato da gusto: un’attività pratica mossa dall’interiorità propria per “gustare” il mondo.

Nel gusto l’interiorità che gusta e il mondo gustato sono una cosa sola. Tocca all’architetto, dice, influire sul gusto di chi abiterà, ed educarlo. Far sì che l’occhio, attirato dalla forma graziosa dell’insieme, sia diretto, fin dall’inizio verso le parti principali, e, dopo averle considerate si soffermi sulle parti di dettaglio di cui l’uso, la necessità ed il giusto rapporto al tutto si faccia agevolmente sentire.

Qual è il modello? Si chiede.

La natura, risponde. Ed il suo esemplare archetipo e prototipo: il corpo organico. La natura è il mezzo universale della conoscenza. In quanto prima di tutti, per tutti, oltre tutti. Il mezzo universale attraverso il quale chiunque autonomamente possa trarre principi fondativi di verità e di ragione. Postulato in tal modo l’essere della natura, la natura stessa è divenuta il mezzo di diffusione universale del prodotto. Anzi guardando da questo punto di vista la natura come mezzo di riconoscimento delle regole d’essere e della conformità dei fatti alle regole stesse, che si trae un principio: il grado raggiunto nel far funzionare la natura stessa come mezzo universale delle produzioni, e di riconoscerla dunque come ragione universale del bisogno_desiderio, è misura del grado d’incivilimento di una nazione.

Tale far funzionare la natura stessa come mezzo di produzione_diffusibilità universale del prodotto come conforme alle leggi di natura nel corrispondere al bisogno desiderio, è il vero compito dell’architetto nel costruire secondo natura oltre natura.

Tale seconda natura è contrapposta alla natura stessa. Non è imitazione della natura ma, secondo sapienza della natura, “fatto” d’arte.

S’individua una dialettica non idealistica di cui il fatto d’arte è contrapposto alla natura, oltre natura. Postulato come più che natura i governi sono chiamati a farsi carico di questi fatti dell’arte perché sono loro che provocano, nel produrre tale seconda natura l’incivlimento.

In proposito occorrerà discutere se esista un principio di legittimità ad un simile idea.

Quello che si vede bene, è il dischiudersi di una storia dell’architettura come indice d’incivilimento dei popoli.

Per mostrare l’essere partecipe a questo processo L’Autore preconizza che il principio dell’architettura del suo tempo (seconda metà del ‘700), ruoti attorto a tre elementi principali: 

  1. Ordinamento generale di un edificio, cioè la sua forma e figura
  2. Alla sua distribuzione interna
  3. Alla decorazione interna

La trattazione di essi si articola in sette punti: 

  1. Ricerche sulla perfezione e bellezza degli edifici
  2. Regole dell’ordinamento
  3. Regole della distribuzione
  4. Riflessioni sulle regole della bellezza delle facciate
  5. Descrizione degli ordini
  6. Ornamenti convenienti alle singole parti
  7. Decorazioni dell’interno

Sottolineo il passaggio finale:

passo sotto silenzio ciò che attiene alla meccanica dell’arte.

Questo passaggio evidenzia che ormai il disegno ha sostituito la costruzione nell’esporre il “fatto” architettonico.

La costruzione è divenuta fatto meccanico.

 

4. La città di Chaux e il ritratto architettonico nel trattato di Ledoux.

Il ritratto architettonico diviene però il tema del trattato di Ledoux.

In questa ricerca si manifestava un progresso teorico essenziale. L’operazione progettuale non cercava più di trovare il suo fondamento sull’itinerario di un corpo virtuale in movimento, bensì sugli scostamenti degli involucri in base ai numeri di una geometria misurata da rapposti armonici.

Lo studio di questa geometria misurata in base a rapporti armonici è allora divenuta centro della ricerca progettuale.

Nella ricerca dell’architettonica commedia si avanzavano diversi studi di metodologia della visione per una immaginazione progettante:

  1. Una fenomenologia della circospezione entro un campo “tipomorfologico complesso” la Salina Reale di Chaux.
  2. Lo studio della caratterizzazione dei tipi come conformi agli “stati” urbani (economico_sociali) dei cittadini entro la gerarchia sociale urbana.
  3. La definizione di una forma di “città ideale” originata dalla critica della città esistente cioè del principio di prossimità che aveva condotto all’intasamento di una densità insostenibile dal punto di vista igienico e morale. Questo modello paradigmatico, alternativo a quello italiano (filaretiano) promosso dagli italiani in molte città europee, ed a quello di Laugier, come forma disturbata avrà la sua fortuna nella modernità novecentista. 

cioè del paradigma di una città opposta all’idea di prossimità caratteristica della città storica che aveva condotto all’intasamento condannato da tutti della città esistente.

Del paradigma urbano non parlo perché deve essere discusso in relazione ai paradigmi di Filarete, Laugier e confrontato con le esperienze di Londra e New York, che faremo altrove.

4.1 L’idea di città illuminista di L’Architettonica Commedia.

L’idea del ritratto architettonico diviene ricerca specifica dell’autore francese che riprende la ricerca degli oggetti virtuali nello spazio virtuale del disegno. Il suo trattato, l’architettura sotto il profilo dell’arte, dei costumi e della legislazione che ho definito architettonica commedia nel libro così intitolato, edito dalla CLUP nei primi anni ’80, ha proprio questo tema ad oggetto di ricerca o d’indagine.

Si può dire che ciò che ho delineato come specifico della ricerca di Borromini venga ripresa nella chiave francese del ritratto sociale che congiunge una determinata porzione di terra coi relativi mezzi materiali di produzione sulla base di un’industria agricola non quantificata, ma illuministicamente presupposta come capace di sostenere lo stato di gestione/consumo con un edificio che espone un ritratto ontologico la cui varietà indefinita in base alle distinzioni di tipi umani, diviene oggetto di ricerca per l’architetto per il quale, la città, non è altro che l’insieme di questi stati architettonicamente definiti. Non gli individui sono membri della città, ma tali stati che si differenziano da un minimo ad un massimo.

L’oggetto virtuale che definisce lo stato è il capoluogo in cui si stabilisce il principio dell’intreccio tra uomo e mondo. Solo in tale intreccio l’uomo può esistere. Lo stato stabilito dall’intreccio è quindi un modo d’essere e sostenersi /riprodursi del singolo nella società cui si rapporta piuttosto idealmente che nella tattilità sonora e visiva della presenza fisica. Questa è la architettonica virtuale definita nel disegno nel ritratto come principio di intreccio tra cose del mondo e uomini. Essa è principio di rapporto umano_sociale col mondo naturale. A questa cosa ideale si riferisce la cosa costruita come modello ideale. Rispetto alla ricerca italiana seicentesca si è compiuta una evoluzione radicale. Imprevedibile, imprevista. Discontinua.

Se a proposito dell’opera di Borromini ho parlato della comprensione drammatica della novità del proprio tempo. Del tempo alle prese con lo strumento precedentemente ignorato di realtà virtuale. Se si scoprì che conseguiva ad una derealizzazione dello spazio del mondo che poteva interferire virtuosamente o viziosamente con la realtà del mondo. Ora emerge un’altra novità impensata, l’dea di una relazione tra azione umana industriosa e mondo che l’architettura espone bensì virtualmente ma con chiarezza e distinzione. Una relazione architettata alle soglie dell’invenzione dell’industria vera e propria, come scaturita dalla riflessione sui procedimenti proto-industriali di una manifattura che organizza appunto l’azione umana industre. La riflessione sui suoi procedimenti consente di concepire compiti differenziati ma cospiranti ad un fine sociale comune. Dischiude allora una ricerca che si vale degli spazi virtuali per descrivere stati architettonici di relazione e d’azione produttiva con il mondo .

La definizione di questi stati coincide con il disegno di oggetti virtuali cui confrontare costruzioni e verificare la intelligenza del rapporto concepito tra virtualità e mondo.

In concreto si verifica una riduzione estrema degli elementi architettonici impiegati ed una estensione massima nell’articolazione delle serie armoniche che ne controllano i rapporti nelle tre dimensioni. Per l’idea di stato, il committente è sparito. Il programma è nell’articolazione geometrica degli spazi e nella proporzione numerica seriale di ogni misura rispetto alle altre ed all’unità di misura e al modulo.

Questa astrazione che conferisce alla disciplina una autodeterminazione completa diviene da allora in poi specifica. Evidentemente la disciplina autodeterminata è una disciplina grammaticale/sintattica, cioè formale. Per questa disciplina la geometria e la matematica dapprima nell’unione che le intreccia proporzionalmente nel finito della proiettività finito, poi nella logica dell’infinitesimo che genera la geometria analitica sono il mezzo indispensabile per procedere nella ricerca.

Non mi dilungo.

Parte da questi cenni un commento al trattato di Ledoux.

Che non intendo discutere in tutte le sue parti. Non intendo trattare i disegni in cui la sintassi della composizione architettonica si correla al rapporto con il committente che definisce separatamente il programma. Ma solo le tavole del trattato specificamente destinate a descrivere l’idea di città ideale concepita da Ledoux come sviluppo disurbano della salina di Chaux il cui disegno si completa facendo cerchio del semicerchio della proto-industria produttrice di sale.

Parlo di una forma liberale di “città, non_città” che si oppone a quella densa e “fatiscente” accalcata lungo le viuzze medioevali di Parigi che l’intera aristocrazia intellettuale francese del tempo contesta.

Non è più quella quattrocentesca descritta da Filarete. E neppure quella di Laugier che considera l’accalcarsi delle abitazione attorno alle viuzze della città antica come una foresta nella quale tagliare strade.

L’ho definita disurbana con parole d’ oggi. Dispersa nella natura. Nel contempo, però, in una natura coltivata e resa giardino, antropizzata. Bensì parco! ma agricolo. Un concetto di natura antitetico a quello inglese perché antropica e agricola. In una industria agricola generalizzata nella quale comincia a svilupparsi una proto-industria che evolve dall’estrazione del sale per asciugatura meccanica con rudimentali bollitori, gli stati definiti dalla edificazione insediano uno per uno i cittadini. I primi oggetti virtuali sono allora case ed edifici pubblici virtuali che espongono la moltitudine e la varietà dei ritratti virtuali di stati virtuali.

Per questo ho chiamato architettonica commedia la serie delle tavole di Ledoux pubblicata nel suo trattato. E la città ideale che si dispiega alla visione ideale dell’autore francese è un insieme non definito dalla prossimità fisica. È invece un insieme ove ciascun edificio attua idealmente la sua funzione urbana mentre se ne sta, per sé in disparte. E rifugge la prossimità fisica con gli altri stabilendo con loro una comunicazione ideale istruita dagli oggetti virtuali. La quale reclamando, invece, una circolazione accelerata ed efficiente, presupposta, ma non disegnata. Si delineano così i due termini della relazione urbana moderna al di fuori dalla prossimità: la comunicazione virtuale e la circolazione accelerata. La funzione ideale esercitata in disparte è comunicata da testi architettonici. Si anticipa attraverso un testo architettonico di tavole ciò che diverrà attuale attraverso il treno e il telegrafo, la nave e la radio, il soggiorno di casa e la televisione, la navicella spaziale ed il computer, la persona con il computer telefonico in tasca.

Se il genio di Borromini aveva visto la novità del proprio tempo esporre in un testo di tavole la nozione virtuale del tempo_luogo del tempo di una comunità religiosa.

Ledoux vede ed indaga lo strumento nuovo divenendo capace di stabilire cose virtuali in uno spazio virtuale o mondo “idealizzato”. Egli comprende una comunicazione tra persone e cose disgiunte nel tempo e nello spazio sulla base del paradigma delle cose virtuali che reclama un sistema di circolazione che naturalmente procederà senza bisogno d’essere disegnato.

Non procedo.

Mi premeva sottolineare questa novità del contributo francese.

Essa indica qualcosa che diviene vieppiù urgente indagare e capire nel tempo: il non ancora che le generazioni successive apportano alle scoperte invenzioni pregresse, che origina una storia diversa.

Occorre pensare ai modi di tale storia.

Penso allora alla distanza dalla direzione di ricerca romana (e tedesca) presa dall’accademia di Francia. L’intenzione è rivelata dall’esito piuttosto che dalle ragioni immediate che rivelano la loro mira dall’esito.

In questo caso l’esito rivela che non si perseguiva il ritorno al passato nel momento di una rivelazione dell’essere, secondo il modo ecclesiastico di pensare il rinascimento come rivelazione dell’essere immutabile. Si guarda, invece ad esso come origine di una domanda per il futuro ancora da formulare. Cosicché nel dare forma alla domanda, si compiono i primi passi di una ricerca che mira la risposta, da perseguire in un percorso aperto al futuro.

Dal punto di vista concreto, l’oggetto ideale o virtuale che Ledoux propone al pubblico che ne prende visione studiando sue tavole, espone un paradigma virtuale da confrontare con la realtà degli oggetti costruiti che espone la domanda urgente del suo tempo illuminista rivolto allo strumento virtuale. Stabilire un punto di riferimento necessario dal punto di vista logico, nel confronto tra idealità e realtà concreta. esso è perseguito attraverso una definizione del tutto “astratta” del procedimento vitruviano di definizione dell’oggetto architettonico, inteso ora come rapporto “industre” tra uomo e natura.

Vi è una radicalizzazione dell’astrazione a intelligenza pura delle relazioni formali che la realtà concreta esibisce alla esplorazione del mondo.

Da ciò il rifiuto della decorazione. L’opera disegnata è infatti priva di decorazione alcuna. Si esalta invece l’opposizione verticale tra i tre piani che appartengono al sottosuolo, alla terra e al cielo. Tutto si riduce a forma ideale o virtuale. Solo linee angoli, superfici e volumi. La ricerca e la differenza sono nella forma e figura grandezza che, ora, è intesa come capace d’inglobare una partitura sempre complessa ma diversamente articolata a seconda della “capacità”. Vi è solo geometria e numero. In una varietà di rapporti geometrici e proporzionali incredibile. Da questo punto di vista potremmo parlare di una analogia tra arte della partitura architettonica dello spazio virtuale per esporre i ritratti degli stati architettonici, analoga a ciò che in musica è stata l’arte della fuga di Bach.

La grandezza viene intesa come capacità di gradazione dal grande al piccolo secondo una strutturazione seriale che viene illustrata tavola per tavola come ove ogni tema “urbano” pubblico o privato anche secondo la gerarchia di reputazione o di censo nella interdipendenza con la funzione pubblica o privata diviene paradigma di “stato” urbano.

La cui figura virtuale consente di considerare questa forma ideale uno schema di ciò che costituisce dall’interno forma delle cose con una precisione di dettaglio incredibile tra tutto e parte.

Può illudere di aver trovato il modo d’invertire il processo della conoscenza dall’esplorazione alla produzione di paradigmi ideali. In che è falso.

L’oggetto virtuale, come paradigma è solo un modo per vedere più nel dettaglio le cose del mondo.

Le quali sono sempre esuberanti rispetto a quanto il paradigma permette di coordinare e tenere insieme. Perciò perseguire l’inversione è pernicioso.

D’altra parte rifiutarne l’impiego è peccato. Uso questa parola al di fuori del suo antico valore religioso, come rifiuto dell’umano dell’uomo: riconoscere il prodotto del suo compito esistenziale

Non mi dilungo il modo illuminista ha dimostrato il suo valore ma anche i suoi limiti.

Torno alla situazione esistenziale in cui emerse l’esperimento che produsse la scoperta del quattrocento. E suggerì l’invenzione di uno strumento di scrittura figurativa e formale o d’impressione che non ha nulla a che vedere con la stampa delle lettere: la geometria proiettivamente misurata.

Il rapporto tra esplorazione ed esperimento o tra circospezione ingenua benché attrezzata dai paradigmi dell’esperimento e nuovi esperimenti ed invenzioni paradigmatiche si potrà, forse, valere di queste osservazioni come caso esemplare di tale relazione generativa d’intuizioni, di invenzioni, di interazioni fertili con il mondo. E penso che l’architettura sia il luogo o lo stato che mantiene questa relazione generativa nel mondo nella situazione di esercizio di questo complesso interfaccia con il mondo.

Di nuovo mi arresto.

Sostengo solo che non è l’hôtel o il convento a detenere la facoltà di esporre ritratti di stato, in esclusiva.

D’altra parte , come costruiti non esibiscono adeguatamente l’intelligenza del paradigma. Non solo la fattualità di uno stato di relazione nel suo aspetto fattuale, appartiene a qualunque edificio, ma l’oggetto virtuale disegnato ne espone il paradigma virtuale. Questo è il compito che si assume Ledoux. Esporre una rassegna di paradigmi che dimostra l’esercizio della facoltà di applicarsi ai vari casi.

È importante segnalare che La vie des formes di Focillon espone la temporalità di questi stati paradigmatici. Poiché cerca di cogliere tale temporalità nell’essere della costruzione piuttosto che nel paradigma virtuale, non comprende la genesi temporale che consiste nella scoperta della virtualità e nella esplorazione sperimentale delle sue possibilità.

Prima però di passare alla esposizione della narrazione storica della esplorazione nel cui contesto si verifica la possibilità della fenomenologia virtuale un cenno al metodo d’insegnamento della esposizione in disegni della forma virtuale. Ed al modo del ritorno al procedimento italiano (a partire da Milano) della ricerca in architettura.

 

5. Il procedimento della composizione combinatoria illuminista o la sintassi dell’oggetto virtuale dal Précis des leçons d’architecture données à l’École Royale Polytechnique di Durand.

Segue allora il principio dei parelli filaretiani che inquadra nel suo diagramma “quadrato di nove quadrati”, che inventò come prototipo, e che Palladiano prese a paradigma delle sue variazioni tipologiche. Durand ne estese la gamma.

Durand radicalizza il “modulo”, inteso come quadrato minimo in pianta o cubo minimo in alzato come elemento minimo della capanna/campata/cella in cui è diviso l’insieme dell’edificio.

Il rapporto area/divisione, sul foglio da disegno, attraverso linee parallele scostate di una quantità data (i parelli di Filarete), conduce, al minimo di due sole rette perpendicolari, al centro del foglio, parallele ai due lati del foglio. Tale doppia divisione a metà forma quattro parti conformi alla simmetria speculare sopra/sotto, destra/sinistra. Si tratta di un’ articolazione minima, insufficiente ad esprimere l’avvio di uno studio sull’articolazione. Sussiste la simmetria, non il ritmo. Manca una misura concreta al vero, anche scalata, che opponga il commensurabile con l’incommensurabile. Che faccia da modulo o unità di misura somatica o virtuale. E, nella ripetizione, determini il ritmo della ripetizione a interasse, o cadenza, modulare.

Anzi, rispetto al quadrato di nove quadrati filaretiano/palladiano moltiplicò la gamma dei diagrammi al massimo, cercando di far corrispondere ciascun diagramma ad un tipo specifico di edificio. E, piuttosto che prototipi, ricercò monotipi.

Il sistema settecentesco, dell’hôtel che coincide con un’area perimetrata da corpi di fabbrica, e divisa da altri corpo in cortili cercando una commisurazione tra totalità ed elemento ripetuto o modulo, invece di essere pegato ad un ritratto di stato sociale dell’individuo, viene orientato alla definizione di un “tipo” stato sociale d’essere di un’istituto pubblico dello stato.

Tale è il tipo di cui tratta Durand.

Perciò la parte più originale del suo trattato è la terza, la partie graphique.

Essa s’inquadra nel corso di composizione tenuto per trent’anni circa 1798/1830

Quindi nel testo scritto per esso: Précis des leçons d’architecture données à l’École Royale Polytechnique (2 vol., 1802/5). Occorre notare che il Précis, fu preceduto da un Recueil et parallèle des édifices de tout genre, anciens et modernes: remarquables par leur beauté, par leur grandeur, ou par leur singularité, et dessinés sur une même échelle (1800).

Questa pubblicazione enciclopedica di tavole costituisce il corpus degli esemplari che l’autore analizza e decompone. Ne ricava pochi elementi la cui combinazione secondo reticoli di linee ortogonali regola i corpi di fabbrica e i cortili che li raccolgono in sottoinsiemi, i quali, appunto sono ritmati da interassi di finestre, lesene aggettanti dai muri che incorniciano le aperture, o colonne che costituiscono elementi di portici. Sono questi assi principali di corpi di fabbrica, che infilano le soglie allineate delle sale o stanze come illustra la partie graphique, terzo volume, aggiunto ai primi due delle precedenti edizioni, nell’ultima edizione.

Quest’ultima terza parte del trattato chiarisce il procedimento dell’architettura che traduce l’idea esposta dallo schizzo, nel disegno di un tipo specifico passando per la fase intermedia di un diagramma che espone appunto la sintassi della composizione del testo architettonico virtuale.

Da allora in poi questa sintassi sarà comune agli architetti nella composizione dei loro edifici virtuali. I quali regoleranno la costruzione.

Si può dire che da allora in poi il rapporto tra cose virtuali e cose reali sarà al centro del progetto architettonico di fronte ai modi di relazione tra loro come enti che appartengono all’insieme urbano. In altre parole che lo compongono al di là ed oltre la compagine che ne fa insieme fisico.

 

Premessa a Quatremére de Quincy.

Gli autori francesi sono partiti da Vitruvio è hanno sviluppato un sistema della comunicazione architettonica piuttosto che di una ontologia. Blondel secondo la prospettiva dell’architetto che progetta, Sultzer secondo la prospettiva della comunicazione tra architetto e comittente (pubblico se riguarda edifici pubblici) all’abitante ricettore, Ledoux secondo la prospettiva dell’edificio che “costruendo” (disegnando il modo di raccogliersi nell’abitazione dei luoghi propri, attorno ad un attore ne designa lo stato) una seconda natura di luoghi apprppriati al suo modo d’azione, espone il modo di vivere di un individuo. Durand nella prospettiva di chi deve “inventare” l’edificio e perciò necessita di una struttura comunicativa, paradigmi sintattici. Guardando poi a Schinkel e Quatremére. Si nota che primo che guarda questa comunicazione dal punto di vista dell’immagine conveniente, il secondo invece che guarda ciò che Durand ha guardato dal punto di vista dell’architetto progettante, dal punto di vista di chi interroga l’edificio del suo carattere.

6. Quatremére de Quincy.

Una teoria “obbiettiva” del carattere ed una teoria “soggettiva” dell’invenzione

Nella voce carattere dell’ «Dictionnaire d’architecture» dell’Encyclopédie méthodique, ed. Panckoucke, 3 volumi, Parigi, 1788/1825 l’autore francese sostiene che: si dice di un edificio specifico, ha il suo carattere per indicarne l’appropriatezza cioè il potere di manifestarci qual sia la sua particolare natura e quale la sua destinazione.

Si deve quindi individuare la convenienza alla destinazione delle proprietà dell’edificio. A tal fine, occorre studiare la forma della pianta e dell’alzata; in seguito la misura ed il modo degli ornamenti e della decorazione; infine considerare le masse ed il genere della costruzione e de’ materiali.

Questa esposizione che indica i segni o le tracce che conducono al giudizio del carattere è una semiologia che si può dire concluda la trattazione francese illuminista di cui abbiamo parlato.

Occorre però aggiungere una tesi molto importante che riguarda invece la concezione del carattere. Cioè qualcosa che Q. affronta pensando a chi deve inventare il carattere dell’edificio cioè dell’esemplare che è caso di un tipo. Come ha osservato Argan, infatti, «il problema appartiene al processo ideativo e operativo dei singoli architetti.» ). È esposta nella voce“tipo”, che per motivi alfabetici, nel dizionario, è posteriore a quello di carattere.

La parola tipo, dice l’autore, non presenta tanto l’immagine d’una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente, quanto l’idea d’un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello. Così,

Quatremére, cerca, qui, di penetrare nella genesi dell’idea del tipo. Pensa il tipo di un esemplare, , nella sua insorgenza nella mente umana. È la prima volta che si considera un momento psicologico come genetico di un’idea. Evoca il momento in cui, la mente intuisce un carattere del tipo da progettare. Comparando con gli autori di cui abbiamo parlato, riguarda il momento dell’idea che si espone nello schizzo, di cui ha parlato Durand. Essa non dipende dalla fascinazione percettiva, ma da un processo di associazione mentale.

Riguarda, in parole d’oggi, lo stimolo di una associazione di idee e riguarda il tono che regola le proprietà dei segni di cui ha parlato alla voce carattere.

Considero questo punto d’arrivo un monito a ricercare il carattere del tipo, in architettura a partire dalla analisi attraverso rilievi e studi d’armonia architettonica per sezioni che recentemente sono stati chiamati close reading.

 

7. Aperture all’oggi.

Con questo richiamo all’oggi , al modo d’oggi di apprendere dall’edificio stesso tipo e carattere nella esibizione delle sue proprietà alle convenienze di un’ora d’azione nel mondo, apro al dopo

Il problema in età moderna si è imposto entro il diverbio: invarianza/originalità. Per noi, è enunciato dalla domanda di Argan – in un noto testo pubblicato dalla Cluva a Venezia nel ’66, La tipologia in architettura (l’idea di Tipo è esemplarmente definita dal tempietto di San Pietro in Montorio, del Bramante)- : come può un autore contemporaneamente scegliere un modello e liberarsi della sua influenza condizionante cosicché il tipo possa essere accettato ma non imitato? Giacche rimonta alla voce tipo di Quatremére, di cui cita i passi che attengono al «al processo ideativo e operativo dei singoli architetti.», sostengo, che qualunque associazione a idee esposte in qualunque modo, poetico o figurativo, devono interferire con la sapienza derivante dai paradigmi dell’architettura. Non tanto e solo teorici ma “tratti” analisi “strutturaliste” degli edifici che la istruiscono.

Ho detto dei diagrammi come linee animatrici del modello virtuale dell’esemplare rilevato o progettato). Ora parlo, piuttosto, del modello. E, in rapporto ad esso delle sue sezioni.

È una semiologia del corpo di fabbrica che procede dall’analisi dei disegni, cui segue lo studio degli ornamenti, e l’osservazione delle masse, in rapporto alla tecnica costruttiva ed ai materiali. In tale procedimento dall’esterno lo studio della pianta rispetto all’alzata nel precedere, domina le altre che intende integrare.

Nel richiamarlo come chiarimento dei testi dell’Encyclopèdie di Diderot/D’Alambert, per una semiologia analitica, richiamo il testo di Durand relativo al metodo del progetto che opera simmetricamente a partire dall’interno. L’aspetto ideativo è premesso, alla ricerca di una idea che, benchè miri ad una sintesi della destinazione valorizza la intuizione primitiva ed il suo momento temporale d’insorgenza. Esso si espone nello schizzo che detta la l’intreccio ortogonale degli assi. È il paradigma del modello che, come analogo del tracciamento al suolo delle fondamenta viene elaborato dal poché del disegno (la macchia entro le linee perimetrali) che conferisce al parti (paradigma dell’intreccio d’assi) le determinazioni figurative del corpo virtuale. È chiaro che la terza parte del Prècis des leçons, la partie graphique, espone esempi di operazioni (intrecci d’assi) considerati momento progettuale chiave per la definizione del tipo architettonico.

Invece di seguire questa indicazione di Durand, che privilegiando il metodo dell’incrocio d’assi, svaluta il valore dell’idea, Quatremére, cerca invece di penetrare nella genesi dell’idea, nella sua insorgenza. È la prima volta che appare un tratto psicologico. Come tale è degno di nota. Riguarda infatti il dialogo irrinunciabile con il mondo e con gli altri senza il quale non può insorgere l’idea. Sostiene, infatti:

La parola tipo non presenta tanto l’immagine d’una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente, quanto l’idea d’un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello. Così, se un frammento, uno schizzo, il pensiero d’un maestro, una descrizione più o meno vaga, abbiano dato origine nella immaginazione d’un artista ad un’opera, si dirà che il tipo ne è stato a lui fornito con una tale o tal altra idea, per un tale o tal altro motivo od intendimento.

Non proseguo.

Ho prevalentemente guardato gli autori dell’ottocento in rapporto alla posizione di Durand, come ho fatto per Quatremére. L’ho fatto guardando, soprattutto, l’opera di Schinkel a Berlino. È evidente che questi, nelle opere berlinesi sulle rive della Sprea che ne confermano l’eccellenza, pensa all’esposizione del carattere attraverso l’immagine. Essa non è tratta automaticamente dall’alzata della pianta, ma da un valore morale o ideale, che si espone nell’immagine della fabbrica. La quale, trattandosi di edifici pubblici, che qualificano funzioni dello Stato, in precisi luoghi della città capitale fornendo loro il luogo con la “fabbrica”. Attraverso l’immagine del prospetto, essa “pubblica” l’idea dell’istituzione specifica. Deve, infatti, esporre nel suo sito, in relazione agli altri la rilevanza specifica della sua funzione pubblica la quale ha un valore operativa non in quanto burocratico, ma civile.

Esso emerge originariamente la prima volta che fu capito“voluto” e costruito. Assunse, perciò, i segni di quella prima volta come propri di quella istituzione.

Allo Schikel, non interessa dunque la destinazione espressa dal rapporto distribuzione/disposizione della pianta, quanto il valore dell’istituzione per i cittadini indicato eminentemente dalle figure della forma che recano con sé anche tracce del il tempo d’origine, quando emerse la sua necessità politica cioè sociale. L’immagine esposta dal prospetto, ha , così oltre ad un valore d’istituzione, il potere di esporre una forma architettonica e urbana del tempo d’invenzione. La storia di cui riferisce è storia della elevazione civile/istituzionale. Reca l’eco della aspettativa di Sultzer. Il problema del tempo emerge piuttosto che come segno del “genio” come segno di intelligenza di aspettative umane o “sociali” che mirano a forme di convivenza “urbana”. Sto usando termini e concetti che evocano, idee di altri che hanno suscitato ammirazione e adesione .

Urbanità, un termine antropologico che aspira a convivenza armoniosa, vita delle forme che indica della storicità urbana il persistere di un valore che la cittadinanza conferma, di generazione in generazione, l’istituzione .

Non mi dilungo.

Sostengo solo che non è l’hôtel o il convento a detenere la facoltà di esporre ritratti di stato, in esclusiva.

D’altra parte , come costruiti non esibiscono adeguatamente l’intelligenza del paradigma. Non solo la fattualità di uno stato di relazione nel suo aspetto fattuale, appartiene a qualunque edificio, ma l’oggetto virtuale disegnato ne espone il paradigma virtuale. Questo è il compito che si assume Ledoux. Esporre una rassegna di paradigmi che dimostra l’esercizio della facoltà di applicarsi ai vari casi.

È importante segnalare che La vie des formes di Focillon espone la temporalità di questi stati paradigmatici. Poiché cerca di cogliere tale temporalità nell’essere della costruzione piuttosto che nel paradigma virtuale, non comprende la genesi temporale che consiste nella scoperta della virtualità e nella esplorazione sperimentale delle sue possibilità.

Prima però di passare alla esposizione della narrazione storica della esplorazione nel cui contesto si verifica la possibilità della fenomenologia virtuale un cenno al metodo d’insegnamento della esposizione in disegni della forma virtuale. Ed al modo del ritorno al procedimento italiano (a partire da Milano) della ricerca in architettura.

È comparso coscientemente nella genesi dell’architettura il tema del tempo che fa della città la custode della “storia” come biografia propria. Essa conferisce al metabolismo necessario alla sua esistenza per i cittadini una mira genetica e progettuale, non solo riproduttiva. È questa storia che non si può scrivere positivamente ciò cui mira l’architettura cioè il progetto nell’orientare le sostituzioni metaboliche e le “trasformazioni”.

Riassumo allora questo contributo teorico con la tesi di Boito che ribadisce la mira temporale postulando l’obbiettivo civile, nel simbolico e segnalando che la ricerca figurativa è eminentemente geometrica.

Scrive Boito3: «Ogni stile architettonico ha dunque un’ossatura sua propria, che viene dalla distribuzione interna dell’edificio, dalla qualità dei materiali impiegati nella costruzione, dall’ordinamento statico della fabbrica, dalle condizioni naturali del paese, da certi principii della scienza e della pratica architettonica, – principi diversi, come tutto il resto, secondo i secoli e i luoghi.

STILE ARCHITETTONICO QUALSIASI4
ORGANISMO                                               SIMBOLISMO
STATICO                DISTRIBUTIVO               ESTETICO                CIVILE
GEOMETRICO                                             ORNAMENTALE

Or questa ossatura logica, davvero dipendente, più razionale che artistica, è l’organismo. Ma l’organismo non basta a formare lo stile. L’architettura non si ferma all’ufficio di servire e di rivelare la distribuzione e la costruzione: intende ancora alla bellezza, esprimendo con allegorie dirette, con astratte analogie, o con l’indefinibile spirito dell’arte, l’uso dell’edificio, rappresentando quasi inconsapevolmente l’indole della civiltà, certi stati delle culture, certe inclinazioni poetiche o prosaiche dei popoli, e finalmente dando una forma all’animo artistico tutto individuale dell’architetto.

Or questi molteplici e differenti uffici, più civili, estetici, ideali che non scientifici, sembra a noi di poter indicare con la parola simbolismo. Chi ne vuole una più propria, la cerchi. Il vero bello viene dalla intimità delle due parti. E l’espressione anche: le due parti formano dunque unite ciò che si dice uno stile architettonico.»

Noto che i sei termini: statico, distributivo, estetico civile, geometrico, ornamentale sono riconducibili, con le opportune variazioni, a quelli coniati da J.F.Blondel, costruzione, distribuzione, decorazione che compare fin nel titolo del suo famoso Cours d’architecture ou traité de la décoration, distribution & construction des Bȃtiments con le lezioni date dal 1750 e negli anni seguenti. Poi diffuse in tutta Europa dall’Encyclopèdie di Diderot/D’Alambert che affidò gli articoli relativi all’architettura all’architetto francese. Questi tradusse in operazioni architettoniche la triade vitruviana – utilitas/firmitas/venustas – designanti i fini dell’architettura e non le operazioni intese a soddisfarli.

Le tesi di Boito risalgono a quelle di Milizia e dell’Encyclopédie (quindi a Blondel) ed in ultima analisi alla estrema versione (illuminista e francese) di Palladio. Boito parla di stile, non di tipo, ma, nel distinguere una parte organica da una simbolica segnala la irriducibilità dell’invariante. Conferisce bensì, al simbolico un primato ma nel contempo lo riduce all’insignificanza di ciò che trapassa.

Cosicché all’altro è attribuita l’invarianza di ciò che resta.

Insomma Boito distingue la fabbrica (costruzione) articolata in elementi e parti (distribuzione) – organica, dai segni che ne espongono significati complessi (decorazione) – simbolica. In tal modo l’unità postulata si scinde. L’effetto della separazione si manifesta nella prassi d’atelier che individua due figure, quella dell’ingegnere e quella dell’architetto che impersonano i due irriducibili aspetti dell’opera d’architettura.

Si noterà allora che, in base alla separazione, la prassi d’atelier consente di apporre a qualunque struttura di fabbrica retrostante un’identica facciata. Si vedano le case di Ernesto Pirovano (Milano, 1866/1934). L’Art Nouveau milanese, il liberty, e l’architettura di Sant’Elia antecedente alla sua conversione al futurismo, procederà da questo approdo per affrontare le sue sfide. In particolare i problemi di scala urbana che si profilano all’orizzonte (cfr. manifesto della Architettura futurista da lui redatto nel 1910).

 

8. Il contributo di Shinkel

Vedo in particolare il contributo, complementare a quello di Durand, venuto da Schinkel. Cito in proposito la pubblicazione delle tavole disegnate negli anno 20/40 dell’ ‘800: Sammlung architectonischer Entwürfe

E mi ripropongo di approfondirne il valore in un prossimo studio sulle città.

Non mi dilungo. Ricordo solo per concludere il contributo di Boito alla fine dell’’800 che inaugura attraverso la sintesi di questi contributi che riguardano il disegno d’architettura come forma virtuale che si confronta e interferisce con le forme costruite.

Boito propone una sintesi tra Durand e Schinkel. Comprende il valore di contemporaneità dell’architettura come aderenza al proprio tempo. Chiama “stile qualsivoglia” l’incrocio dell’organismo con il simbolismo che attiene all’estetico ed al civile dipendenti appunto dalla temporalità “aevale” delle generazioni che si succedono nella città e che i diversi modi di fare architettura espongono. cfr. C. Boito, Sullo Stile futuro dell’Architettura italiana, in Architettura del Medio Evo in Italia, Milano, 1880, Hoepli; introduzione. p.XI riportato nel mio libro Il Tipo, itinerario teorico Milano, Firenze 2014. La sintesi di Boito, però, pur alle soglie della modernità, nell’ aprire al sentimento del proprio tempo resta implicato nello storicismo e non supera il nazionalismo. Non vede che la modernità è presa da una nozione del mondo sempre più esposta a fatti che non cadono nella “naturalità” dell’esperienza somatica . Provengono, invece, da un mondo investigato attraverso invenzioni/scoperte derivanti da nozioni che provengono da altri modi di conoscere la realtà che non quelli naturali. La sua formula non vede l’inadeguatezza della organicità e del simbolismo cui egli si riferisce. La modernità ed i suoi problemi gli restano inaccessibili.

Oltre l’oggetto architettonico ed il tipo edilizio l’intuizione dello spazio virtuale come accesso mentale ad una nozione inaccessibile al senso entro la natura dei suoi limiti.

Non è la genialità dello stato architettonico ciò che apre al lungo periodo. O che introduce alla modernità, bensì l’invenzione dell’oggetto virtuale che, liberato dalle ipoteche vitruviane, deve porsi alle spalle dell’oggi come “genesi” di un universo oltre i sensi umani. Questi nelle ricadute ineliminabili con l’universo che cade sotto i sensi continua a nutrire ore “umane” d’interazione con il mondo nella sua interezza e totalità “sovra_umana”.

Per aprire davvero alla modernità, torno al quattrocento che guardo come momento della invenzione/scoperta dell’oggetto virtuale e dello spazio virtuale che esso reclama come suo universo.

 

Ernesto d’Alfonso

 

 

1 Rilettura “illuminista” e francese, dello lo stile dell’abitare mediterraneo quale emerge dall’antichità tramandata dal trattato di Vitruvio – nell’età di Augusto a cavallo tra il I sec a.C ed il I d.C. 

2Dalle voci architettura/Architetto di Johann George Sultzer aggiunte all’edizione di Livorno dell’Encyclopedie.

 3 C. Boito, Sullo Stile futuro dell’Architettura italiana, in Architettura del Medio Evo in Italia, Milano, 1880, Hoepli; introduzione. p.XI.

4  Alla sintesi esplicativa di questo diagramma vorrei collegare alcune formule e aforismi coniati da coloro che mi furono insegnanti negli anni della scuola perché illuminarono ed illuminano la ricerca in Architettura: innanzitutto la formula di E.N.Rogers: Architettura = Funzione + Bellezza; poi l’aforisma di Dino Formaggio: reale più che reale è l’opera dell’arte; infine il principio di Carlo de Carli: le cose nascono come spazio primario.


Save pagePDF pageEmail pagePrint page
SE HAI APPREZZATO QUESTO ARTICOLO CONDIVIDILO CON LA TUA RETE DI CONTATTI