È scomparso all’inizio di questa grande tragedia dell’umanità un grande architetto, un grande intellettuale, e un uomo che ha avuto un ruolo molto significativo anche per Palermo: di questo in particolare mi voglio occupare.
L’ha avuto sicuramente nel suo lavoro all’Università. Non ho mai lavorato con lui, e non parlo quindi della qualità del suo insegnamento, ma del contributo alla costruzione di una scuola. All’inizio degli anni ’70 Gregotti e Alberto Samonà elaborarono un programma di studi che rese in quel periodo la Facoltà di Palermo la più avanzata d’Italia: un programma che metteva l’architettura al centro dell’insegnamento, costruendo un primo anno attorno al progetto nei suoi diversi aspetti (nei suoi rapporti con la storia, con la città, con gli strumenti del progettare) e posticipando gli insegnamenti scientifici agli anni successivi. Tutto il contrario di ciò che è avvenuto successivamente, con la crescente autonomia dei singoli raggruppamenti disciplinari e la “perdita del centro” che si soffre ancora oggi. Questo consentì l’avanzamento straordinario di una Facoltà che fino allora (in pratica per quasi tutto il mio percorso didattico) si era mossa in modo molto tradizionale, con un corpo insegnante nell’area progettuale per lo più di età prossima alla pensione, e con una grande quantità di materie condotte in modo assolutamente poco pertinente all’indirizzo degli studi.
L’altro suo contributo fondamentale riguarda il progetto, la costruzione della città: i suoi due interventi più significativi, lo Zen e i Dipartimenti scientifici dell’Università, sono tra le poche architetture di altissimo livello in una città che non ha avuto molte occasioni di sperimentare il Moderno, e che anzi negli ultimi anni ha elaborato una strategia di rifiuto programmatico attraverso i suoi strumenti di pianificazione. A questo proposito, rivendico di avere molto contribuito alla eliminazione di una norma di piano (il piano di Cervellati, 2004) che prevedeva una demolizione dello Zen in ossequio all’orrore del nuovo.
Lo Zen infatti è un intervento straordinariamente significativo: come alcuni quartieri di Berlino e di Francoforte, è un segno molto forte sulla città, rappresenta un’idea urbana riconoscibile e, diversamente dagli esempi tedeschi, propone una relazione con la storia e la struttura di Palermo attraverso il suo porsi sul prolungamento dell’asse principale della città. Si tratta di un progetto con una forte valenza urbana, che disegna una parte consistente della nuova città, con un valore aggiunto rispetto ai quartieri della prima età del moderno, prodotti, in fondo, di una ipotesi anti-urbana in continuità con la città giardino. Ed è anche un progetto di grande significato nei confronti del sostanziale disinteresse attuale per la dimensione della città, e della volontà di costruire “monumenti” isolati e autoreferenziali.
Naturalmente le vicende successive al progetto ne hanno fatto un caso emblematico, visto dall’opinione corrente, ma anche da non pochi addetti ai lavori, come un esempio da non riproporre: ma questo parere è determinato soprattutto da condizioni successive alla costruzione, dall’occupazione abusiva delle case e dal degrado successivo dovuto alla mancanza di gestione e di manutenzione, forse più che dalla mancanza della realizzazione dei servizi lamentata dai progettisti, e dall’uso di materiali inadeguati che hanno portato a una rapida obsolescenza. Tanto che le insule assegnate in modo regolare, e progressivamente gestite dagli abitanti, presentano oggi uno spazio interno curato e ben vissuto dalla comunità che coincide con la popolazione dell’insula (come si può leggere dalle immagini, anche se esse documentano un’abitudine qui difficilmente frenabile di inserire abusivamente modificazioni nell’architettura).
D’altra parte, questo giudizio negativo rientra in una incapacità di riconoscere un aspetto del Moderno che è la volontà di costruire una città nuova, diversa, con qualità specifiche dell’epoca, incapacità che coinvolge, con molti esempi di edilizia scadente, anche architetture di qualità, come il lunghissimo edificio residenziale del Corviale, che non dovrebbero essere difese solo da sparuti gruppi di architetti.
Lo Zen, inoltre, a mio avviso, coincide con un importante avanzamento del percorso progettuale di Gregotti, probabilmente frutto anche di un rapporto fecondo con Purini, che si riflette in modo esplicito in alcune realizzazioni residenziali a Venezia (Cannaregio) e a Berlino (Lützowstrasse), in cui se ne ripropongono alcuni fondamentali elementi del linguaggio, ma che anche si può leggere in tutte le realizzazioni successive, con un segno fortemente riconoscibile e che ha in alcuni casi improntato parti significative di città o di territori.
Quartiere ZEN, Palermo 1970 e segg.
Veduta zenitale del modello e prospettiva a volo d’uccello
Veduta della corte interna di un’insula e prospettiva della piazza centrale
Quartiere ZEN, Palermo 1970 e segg.
Vedute recenti delle corti interne con le trasformazioni da parte degli abitanti
Quartiere Cannaregio, Venezia 1981-2001: Veduta di una corte interna e prospettiva a volo d’uccello
Case in Lützowstrasse, Berlino 1984-1986: Veduta
Centro culturale di Belém, Lisbona 1984-1993
Veduta a volo d’uccello e Vedute dal fiume
Dicevo prima del rapporto con la storia della città: è questo un carattere specifico dell’architettura italiana di cui Gregotti è certamente un protagonista. Un’architettura che risente della forte presenza della storia nel nostro paese, che ha caratterizzato alcuni degli esempi italiani più importanti del Moderno, e che ha trovato realizzazione anche nei moltissimi interventi di Gregotti all’estero (cito tra tutti il grande complesso di Belém a Lisbona, una cittadella fortificata in pietra rosa ai bordi del fiume).
A conferma di ciò, per il vastissimo intervento alla Bicocca, un intero pezzo di città, in cui ancora una volta l’urbanistica si traduce in toto in architettura, Gregotti scrive che la griglia è un «sistema tanto antico da mettere fuori gioco l’idea stessa di nuovo».
Due temi essenziali della specificità prima detta sono stati già da me citati in occasione della presentazione della sua monografia, tenuta alla sua presenza nella Facoltà di Palermo nel giugno 2004. E per questo farò riferimento a due degli editoriali che improntavano ogni numero della rivista “Casabella” che diresse per 15 anni.
Il primo tema è quello della teoria, che in uno dei primi numeri della rivista (nel 1983) viene affrontato col significativo titolo «Necessità della teoria». In quella circostanza ricordavo la distinzione esplicitata nell’ultimo testo di Bernard Huet tra dottrina e teoria. Per Huet, la dottrina è un «insieme di nozioni che si afferma essere vere attraverso le quali si pretende di fornire una interpretazione dei fatti», la teoria è «ciò che permette di costruire un oggetto (teorico) che si chiama “architettura”»: concludendo che l’architettura moderna ha elaborato dottrine, ma non teoria.
La posizione di Gregotti non è distante: citando un periodo di poco precedente a quella data, e molto significativo per l’architettura italiana, scrive: «Non è quindi stato un caso se gli anni sessanta si sono presentati, non solo in Italia, come gli anni della nuova produzione teorica, una produzione dotata della parzialità sufficiente a mettere in primo piano nuove questioni ed aspetti della disciplina. Dobbiamo però riconoscere che […] i principi non sono divenuti regole e metodi trasmissibili, sono rimasti modelli e immagini, e quindi rapidamente l’imitazione formale è divenuta l’unico sistema pedagogico praticato. Lo stesso confronto con il sito che io predico da vent’anni è rimasto una petizione di principio senza riuscire adeguatamente ad articolarsi in metodo di progetto».
E conclude: «essere architetti significa oggi essere intellettuali prima che professionisti ed artisti, nel senso che la questione della ricostruzione della base teorica e degli strumenti metodologici di ciascun progetto è divenuta una questione non evitabile per il progettare. Ciò non in termini ideologici, non nel desiderio di una impossibile nuova globalità ma nell’accertamento della sua necessità, come ci si accerta della natura del terreno su cui si muovono i propri passi».
L’altro tema è quello dell’ordine, delle regole. Nel 1992, in un editoriale dal titolo “Dell’ordine” Gregotti scrive: «Ordine è una parola antipatica e fuori moda: essa suscita immediatamente un senso di fastidio e ribellione […] Le parole ordine e regole in architettura (ma non solo) evocano infine uno dei fantasmi più temuti dal mondo contemporaneo: quello della perdita dell’identità attraverso l’uniformità». E poi, riferendosi alla situazione attuale dell’architettura: «Tante cose tutte capricciosamente diverse, si sa, producono il rumore indistinto dell’uniformità: ciò è esperienza comune».
In altre occasioni, ha scritto: «La tradizione dell’architettura europea è tradizione della costituzione di regole e della loro continua violazione». E, in un articolo su «la Repubblica»: «Il moderno ha travolto le regole, il contemporaneo le ricompone» (io ritengo tuttavia, a parziale integrazione del pensiero dell’autore, che una parte del Movimento Moderno: Le Corbusier e Perret in particolare, abbia costituito un suo sistema di regole).
L’architettura diventata merce, spettacolo, è quella che oggi invade non solo molte riviste specializzate, ma anche la pubblicistica comune: è quella contro la quale l’intellettuale formato alla scuola del Moderno, di coloro che (dai primi decenni del XX secolo) pensavano di poter cambiare la città e i cittadini attraverso la nostra disciplina, non poteva che opporsi, come ha fatto sino all’ultimo
Immagini dal seminario del giugno 2004
Cesare Ajroldi, aprile 2020