Architettura, storia del presente tra passato e futuro. Una storia per il progetto d’architettura. Per la periodizzazione dei paradigmi di semiologia architettonica.

Senza cronaca non c’è storia. Senza giudizio neppure. Nel giudizio sulla cronaca basa la storia. E nel dibattito sul giudizio si maturano scelte strategiche che fanno storia. Qui sta il mio studio della cronaca degli eventi degli anni sessanta giudicata da chi li visse a vent’anni quarant’anni dopo circa nel 2002. Appartiene alla cronaca, come opinione di un milanese, vent’anni dopo, quel dibattito pubblicato. Mi piacerebbe avviare così un nuovo dibattito che apra all’oggi ciò che avvenne nel seguito. Non solo tra gli stessi che vissero da “grandi” il seguito di quella iniziazione, ma da coloro che vivono oggi avendo raccolto il testimonio da quella generazione.
Non so se si possa. Comincio dunque da qui.
Allora, la scuola perse d’autorità, all’atto di una divisione. Lo dice bene Nicolini. Raccolto in un libro.
Si è trattato di un ricambio generazionale che coincise con lo scontro irriducibile tra diversi modi di affrontare la modernità impersonati da autori di diversa età. Da un lato messi a confronto con l’evoluzione della produzione industriale e l’avvento della grande scala irriducibile alla concezione tradizionale classica della produzione architettonica e urbana, dall’altro con il conflitto tra l’imperativo moderno di non ipotecare la ricerca con vincoli fuorvianti della tradizione ed il dovere di tramandare la “lezione” di un patrimonio bimillenario fertile nei secoli. S’impose un confronto con la modernità nella sua discontinuità irriducibile con il paradigma classico. Parlo di chi entrò alla Sapienza in quegli anni per imparare il mestiere dell’architetto ed incontrò un irriducibile conflitto generazionale, di merito e di metodo tra i professori nella cui reciproca esclusività la scuola perse d’autorità. Lo dico di nuovo con le parole di Nicolini. Quella generazione di studenti dovette reagire ed inventò un blasone per esprimere la distanza presa da quella scuola e l’urgenza di trovare una propria originale direzione di ricerca (tendenza nell’accezione inclusiva di Moretti prima di quella esclusiva di Rossi): controscuola. Nell’assumere il termine come adesione all’imperativo di aderire al proprio tempo moderno: quello di non ipotecare la ricerca con i vincoli fuorvianti della tradizione, ne segnalo i limiti. Della modernità fu scelto come autore Luis Kahn. Nelle parole di Antonio Pernici: Poi dall’America emerse Louis Kahn e nella critica italiana l’altro genio piranesiano di Manfredo Tafuri. Nel nome di Piranesi accomuna i due autori. Indica, così il modo in cui fu intesa la proposta di Kahn, come simbolica figurativa gravida di riferimenti all’architettura romana antica. Anche come critica del funzionalismo e dell’international style. Ma non colta nella accezione Kahniana anti funzionalista per contrapporre lo zeitgeist di un diverso approccio alla modernità – un’integrazione diversa tra composizione costruttiva e dispositiva ai fini di istruire e sostenere l’icona di una istituzione tipologica – non funzione – amministrativa, scolastica o altro (biblioteca università o parlamento). Di Kahn si prese la novità figurativa contrapposta alla assenza di figuratività dell’architettura funzionalista, non l’adesione al movimento moderno che implica, ormai, nella scelta di progetto la strategia del processo, istruita da una tensione teorica (inquietudine, secondo Moneo, perché motivata dalla ricerca di una strategia, non dalle sole regole). Fu possibile, perciò, distogliere da Kahn l’attenzione, come fosse stata una moda. Solo Umberto Cao, forse, ebbe sentore che fosse stato un errore. E titolò il suo contributo: parricidio.
Oggi non si può esercitare il progetto nel modo premoderno, come se si potesse tornare alla ignoranza antica. Quando si poteva credere in un sentire privo di vincoli, perché in tale spontaneità si manifestava un dio.
Si può esercitare il progetto, oggi, solo nella coscienza d’appartenere al tempo odierno. Come già detto nei termini di Moneo. Che ci ricorda di stare partecipando ad un ricambio paradigmatico ormai sempre in itinere. Forse, perciò, si dice movimento moderno. Che impone ad ogni autore, il compito di aderire ad uno zeitgeist, che ha un debito con l’azione futurista del passato prossimo, il quale impone d’essere capita ed orientata all’istanza presente. L’oggi vissuto, infatti, fu genericamente presentito come “non ancora” di cui si precostituì il potenziale. Il quale potenziale, venuto alla verifica dell’attualità, è giudicato nel vissuto come proprietà conveniente o no. Rogers chiamò questo fatto utopia della realtà. Il rifiuto di questo termine a favore della metatemporalità dell’archetipo, ha costituito e costituisce l’ interrogativo della nostra generazione: l’inquietudine teorica. Essa però, nelle parole di Moneo, contiene un monito: restare agganciato, ogni teorizzare, all’opera costruita. Mantenere legato ad essa lo studio del contributo al processo di chiarimento paradigmatico. Il contrario di ciò che fece Tafuri. Il rinnegatore sottilissimo di progetto e utopia; nei termini di Terranova, che condusse l’intera generazione nel vicolo cieco dell’ antiprogetto quindi di una teorizzazione narcisista ed autoconsolatoria.
Torno al blasone di una controscuola che dichiara necessaria la autoformazione mentre si confronta con la scuola. Ribadisco il blasone con l’intento di distoglierlo dall’antiprogetto in cui incappò. Ho detto del rinnegamento di Tafuri che non posso trascurare l’impatto che ebbe, – nella sinergia con Rossi -, sulla cultura architettonica internazionale del secondo dopoguerra. Ho già acennato alle derive dell’esposizione del ’78 Roma interrotta che contribuì ad accreditare il posmoderno come liquidatore della lezione di Roma; come se la lezione di las Vegas ne avesse il potere. Accenno al disegno, la pratica artistica sinergica all’architettura in cui tra gli archetipi di Rossi e le operazioni di Purini, si tenne viva in Italia, la scienza architettonica e l’arte seppure troppo esclusivamente ridotti al disegno.
D’altra parte la lezione di Roma non si lascia intaccare da Learning from las vegas. Soprattutto se mostra la sapienza di una sintattica urbanistica testimoniata dalla carta del Nolli così lontana dai paradigmi antichi e, d’altra parte ispiratrice, nello studio strenuo degli antichi, di un paradigma originalissimo che a sua volta fu imitato nella crescita settecentesca delle diverse città europee. La lezione di Roma è al cubo. Da un lato presuppose lo studio delle rovine di Roma, dall’altro, come invenzione originale, tardorinascimentale, concepì e realizzò il primo paradigma moderno di urban design, il disegno della Roma seicentesca. Il disegno divenne “testo di studio” sostituendo la costruzione, che oggi, è diventata di nuovo oggetto di analisi (certo senza rimuovere il disegno, anzi esaltandolo). Infine, rilievo, restauro, progetto di verifica o sovversione paradigmatica moderna, sono un tutto sinergico. Si può cercare di delimitarne un campo per approfondire domande indifferibili come quelle del restauro antipalladiano. Non teorizzare l’esclusione di tutto quanto non collimi con i temi del campo ritagliato. A suo modo Roma interrotta ha contribuito a tale esclusione del progetto, mostrando il convergere della cultura romana degli anni ‘60/’70 sull’antiprogetto come condizione di teoria. Ricordo le parole di Argan. Tanto pregnanti nel riflettere sull’implicazione di immaginazione progetto in un cambio radicale di mira, quanto censorie del progetto. Preconizzando, così la deriva sterile che condusse in un recente passato gli architetti italiani, nel vicolo cieco, da cui non sono ancora usciti. La discontinuità epocale che inaugura la modernità non è una scelta arbitraria autoreferenziale. Né si è affermata contro il passato per una motivazione di gusto. Ma perché è stata costretta da ciò che si era determinato a trovare un modo di implicare fenomeni precedentemente ignoti e incompatibili con la struttura sintetica pregressa. Non si può sospendere l’esercizio della competenza di abitare costruire che reclama il progetto. Lo ricordo anche a Françoise Choay che pure ha elaborato il concetto di tale competenza specifica non coincidente con la competenza linguistica di cui parlò Chomsky. È nell’esercizio di tale competenza che emergono i problemi che costringono chi fa ricerca a cercare e trovare strade non mai precedentemente battute. Concludo tornando al problema del divorzio della storia dal tempo vissuto/da vivere umano e sociale. Per affrontare direttamente il tema, nel divorzio tra momenti reciprocamente implicati nella sinergia del vissuto che è, malgrado la parola declinata al passato piuttosto tempo da vivere. Parlo di una scissione nel tempo interno. Del sentire sé stessi nel mondo come azione che “occupa” un tempo d’azione che è tempo interno sinergico ad un tempo esterno. È la condizione del cooperare uomo e mondo insieme. Come tale avvertita fin dalle soglie del XX secolo come “primario”. Perciò è più pregnante, a proposito del tempo parlare futuristicamente di da vivere, piuttosto che di vissuto. Il diverbio è del tutto interno alla cellula temporale “presente” nel momento stesso, da un lato da vivere e dall’altro da mantenere per giudicarne del bene/bello. Attendendosi che il “da vivere”, conferisca al vissuto una carica di potenziamento o depotenziamento intenzionale che intona a rifiuto o ad attesa il momento stesso. Trascurare questo diverbio è sintomo di impotenza ad affrontare ciò che capita. Smarrimento totale della realtà nella tensione tra somatico e mentale nell’azione. Ricordo di nuovo la massima coniata da Rogers: utopia della realtà. Avrebbe potuto sembrare che Tafuri fosse in sintonia nel suo testo d’allora, Progetto e Utopia, nel dichiarare la sua strada per il progetto. Non perseverò, anzi prese le distanze. E si volle esclusivamente storico. L’abiura fu esemplare. Inaugurò un cambio radicale. Nei termini di Petreschi: La critica al progetto, prese il sopravvento sul mestiere colto dell’architetto.
Concludo con un’aforisma di Antonino Terranova.

Una data per tutte, intanto: nel 1967 il celebre concorso per la nuova ala della camera dei deputati si risolveva in un nulla di fatto.
Vinceva il più facile “non fare”, l’ala antiprogettuale, che vedeva oggettivamente alleati Italo Insolera e Manfredi Tafuri.
Che cosa accomunò quei due studiosi così differenti il critico moralista di “Roma moderna” ed il
rinnegatore sottilissimo di “Progetto e Utopia”?

Che cosa condusse noi dietro il pifferaio magico dell’ideologia dell’antiideologia,
progettisti senza progetto e con un pugno di mosche di teorie di autoconvalida o autoconsolazione?

Lascio aperte le domande di un giudizio severo. Perché chi lesse i libri di Tafuri ne trasse nuovi stimoli al pensiero del progetto incurante dell’ interdetto di colui che si volle storico puro.
Ho contestato l’interdetto e ho studiato e insegnato le tecniche del progetto.
Ho anche avviato lo studio dei ricambi paradigmatici lavorando i testi di Foucault, della Choay di David Graham Shane. Infine di Desanti, che ho trovato davvero illuminanti.
So che, ad un percorso della conoscenza, necessario per insegnare, occorre, oggi, compiere studi di questo genere. I quali, conoscendo il rischio della strategia del progetto, sanno le opposte ragioni di scelte divergenti. E ammettono la compossibilità di entrambe senza pregiudicare la propria. Rispondono così all’aspettativa di Laura Thermes che interpreto così: risarcire le lacerazioni che esautorarono la scuola. Sostenere la sfida della controscuola con la promessa di saper imparare da entrambi.

 


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