Memento autobiografico. In “vece” di firma.
Ho parlato sempre in prima persona.
Ma in nome di chi ho parlato? Ho pensato che occorra dire l’autore, un “autoritratto”nei “manifesti” pubblici nelle scelte prime. Per me gli anni ’60 – gli stessidi cui tratta Rassegna (Mi immatricolai nel ‘58). Dico di una posizione maturata nelle derive dell’esistenza, ognuna delle quali ha illuminato un lato ignoto del nucleo originale. L’ insegna del quale è spazio primario. Ho sempre parlato di spazio “vissuto”,“ a misura d’uomo. Oggi parlo di spazio somatico senza sostituire primario indice di primitivo e principio. Lo aggiungo ad esplicazione. Per ciascuno e per tutti, alla nascita, affezione del cominciare a mettersi in piedi. Somatico, di questo sentire sé stessi tenersi in equilibrio, carattere dello spazio. Per De carli, che mi consegnò l’insegna come testimonio che la precedente generazione consegna all’altra, non dovevo teorizzarne.
Ma non potei . Mantenni, invece, della nascita, l’affezione in cui autosentirsi agire e sentire si manifesta. Dovevo portare, come mio vessillo, l’insegna consegnatami nella mia corsa. D’altra parte, per condividerlo con gli amici dovevo capirlo. Molti anni, dopo, quando incontrai controscuola, l’ idea chiave della scuola romana negli anni ‘60, ho dovuto mettere alla prova ciò che avevo capito: il fondamento di ciò che condivisi con gli amici dello Studio ADFR, con i quali feci architettura negli anni ’70. Dicevo allora: “La casa, la strada, l’officina, l’ufficio, il cinema, la sala da ballo, la chiesa, la sezione di partito, sono tutti spazi individuati (destinati alle persone individualmente ntd) dove certi momenti della loro vita temporale, si annodano con la vita di altri uomini…in realtà, “progettare”, ed a fortiori quando si intende progettare nei termini dei bisogni o dello spazio primario, è rischiare la propria conoscenza del contesto sociale in cui viviamo.”… “Si tratta, di tentare il progetto di una riposta intersoggettiva ai bisogni intersoggettivamente espressi e soggettivamente assunti; e di risolverlo in un modo progettuale affidato ai segni del costruito.” Parlavo, allora, di “spazi individuati,
per esplicare quella vita di relazione tra gli uomini, un vero e proprio bisogno sociale, una sociale chiamata dello spazio: ogni sua definizione, è dunque un tentativo di risposta a questo intersoggettivo bisogno. Non sempre, però, l’intenzionamento dominante della progettazione, è quello di corrispondervi nei segni e con i simboli che ne esprimano, costituendolo in materia, il senso intersoggettivo, nell’ordinamen generale della vita degli uomini o della storia.” ….
Di tale posizione dicevo l’intersoggettività, lo sganciamento dall’autoreferenza. Già l’appartenere ad uno Studio/autore. Non ero un artista/autore. De Carli, non condivise la mia tesi. Sostenne, anni dopo, quando pubblicò Architettura Spazio primario, Hoepli 1982, “ ho parlato dell’idea discussa ancora con gli studenti del giovane gruppo Ernesto d’Alfonso ai quali vorrei dire, oggi, in cui Ernesto d’Alfonso è da tempo libero docente in architettura degli interni, arredamento e decorazione e incaricato di semiologia, che non è possibile e non è proprio, parlare di una teorizzazione dell’idea di spazio primario perché il problema è di comportamento e ricerca del concreto; è pieno di dubbi, di vitalità, all’origine, quindi proprio della ricerca pura in Architettura; è bisognosa quindi di affermare quella teoria-teorica-pratica dell’Architettura che sia capace di interpretarla fra altre spinte di cui ho potuto scrivere solo nel 1970 sempre in pubblicazione ciclostilata in proprio che ha per titolo «Lo spazio primario»”. Perciò ho abbandonato spazio primario, e parlato di spazio somatico distinguendolo dallo spazio astratto. E divenne ricerca come spazio percettivo. Percezione e circospezione per “fare” abitando, sono divenute sinonimo di “lettura” (metafora in voga oggi) del mondo circostante, cioè di esp rienza d’essere. Per la ricerca ,ma non bastò l’architetto. Occorse il semiologo, Il filosofo/ artista Dino formaggio, l’autore della Fenomenologia della tecnica artistica, che m’ introdusse alla filosofia delle formesimboliche, avvio di una metodologia della visione o della comunicazione. Occorse, altresì l’urbanista, Marco Bacigalupo, come “semiologo” della regione topografica o del territorio. Tale era per lui l’indagine del contesto, una analisi in profondità della topografia delle regioni tra le regioni dei continenti, l’unica che consentisse di intuire “qual è la scala dell’intervento prospettatomi che sviluppa appieno, le potenzialità di cui sono dotato oggi. Scala contesto strumenti e apparecchi, quindi, infrastrutture e strumenti informatici d’allora facevano corpo unico. “Scala” non coincideva con bigness. Né “intervento a scala urbana” coincideva con speculazione edilizia. L’Architettura, non perse l’Aura. Bisognava però, continuare a studiare e pensare progettualmente. La disciplina ampliava i suoi orizzonti non solo teorici, ma anche quelli fattuali. Questo ha nutrito di partecipazione l’incontro con la controscuola. Che il monito di De Carli alimentava di curiosità ed attese. Nel leggerne la prima volta vi scorsi l’intelligenza della modernità. Una intelligenza altra. Ho veduto gli allievi che fummo. E l’intelligenza di sé di chi assimila resistendo. E poter far propria la “disciplina” i cui comportamenti tecnici diverranno propri. Controscuola nomina l’intelligenza di quel momento iniziatico. Non solo personale, ma sociale e per così dire “pubblico”. Quando, sapendo di dover assumere un comportamento d’autore e le tecniche della sua azione ci s’interroga, si prendono le distanze per prendere le misure della disciplina. In un momento in cui si capì che doveva cambiare. E bisognava saperlo fare. Imparare a farlo. Perciò nella scuola occorreva controscuola. A Roma si capì, nella forma a_conscia delle affezioni. Ed in quella conscia delle scelte d’azione e delle parole che le dichiarano. E “pubblicano”. La temperie di allora decretò la sovrastrutturalità dell’architettura. Cioè la subalternità alla politica. Ma la potenza della parola chiave, supplì. Quella generazione scelse di “occupare” la scuola in modo istituzionale. Laura, accettò la sfida. Dico, la sfida di un’utopia. Ne aveva capito il valore politico. Non “di partito”. Cercare la sintesi nelle diverse “anime” che avevano riflesso , contrapponendosi sul proprio tempo. Cercare di esporre lo zeitgeist del proprio tempo. Una idea non antiquaria di storia. Una valorizzazione del proprio presente, delle sue scelte e delle conseguenti azioni. Una idea di presente aperto al futuro in attesa di smentite, non solo di conferme.
L’utopia di Controscuola. Il valore del presente per il futuro. Rassegna: cronaca di una scelta radicale. Per la storia del secondo dopoguerra.
Dunque si trattò di affrontare lo Zeitgheist del dopoguerra. In una temperie nella quale variava in modo radicale lo “statuto” dell’architettura quale ci era consegnato dal passato. Dunque il problema non era la sovrastrutturalità dell’architettura, ma il cambiamento di “paradigma”, di fronte ad un cambiamento radicale delle nozioni di spazio_tempo, cui ci riferiamo nella quotidianità dell’abitare e di cui la scienza d’oggi ha accertato la relatività, proponendo interrogativi sullo spazio somatico, quello esistenziale, in cui viviamo. Mentre accertiamo le catastrofiche conseguenze delle energie scatenate, ma anche le stupefacenti risorse. Dunque una legge naturale di “spazi_tempo” in_vibili ed in_vissuti, coabita con “la natura” di cui abbiamo esperienza circospettiva e percettiva. Che non è messa in falso, ma “colpita” dalle conseguenze. Oggi, per di più, una strumentazione, in_concepibile qualche decennio fa, l’intelligenza artificiale mostra di poter compiere operazioni mentali automatiche efficacissime alla conduzione di processi industriali e tecnici. Nel nostro mestiere per di più i files cad dotano la progettazione di una operatività “semifattuale” attraverso stampanti tridimensionali digitali. Sembra, perciò, reso obsoleto il nostro operare mentale. Cosa non vera. Il problema è da prendere di petto. Sia il potenziamento semifattuale della progettazione, fatto vero. Sia il primato dell’operare digitale, del tutto falso. Si tratta di pensare e scrivere una storia della modernità, dagli anni ’40 ad oggi, indicando i “fatti” di cronaca relativi all’architettura, documenti di progetto e di esecuzioni o costruzioni. In proposito segnalo la rilevanza della scelta collettiva di allora: Khan come maestro del moderno. E Venturi come alfiere del Postmoderno. Non la condivido, ma la ritengo illuminante. Come alfiere della seconda modernità scelsi Eisenman. Penso, però, che la scelta degli amici romani fosse gravida di possibilità non valorizzate da Rassegna. Che chiede di pensare, ancora, di nuovo e più in profondità. Ho contribuito a questo compito urgente? Volevo questo. Ho saputo darvi inizio? Non so.