Un testo sull’architettura a Roma negli Anni Settanta dovrebbe essere talmente lunga e complesso da diventare inadatto alla pubblicazione su una rivista. Dato il necessario formato più contenuto ciò che proporrò è quindi la sintesi di un discorso più ampio e circostanziale. E’ necessario comunque procedere brevemente a una premessa su alcuni aspetti generali di quel periodo riguardanti idee e vicende segnate da una grande contraddizione.
Per un verso vanno infatti ricordate notevoli aperture culturali, a Roma ma anche in molte altre città. Tra queste basta citare, oltre all’individuazione di impegnativi nodi problematici da parte di intellettuali come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, l’attività del Gruppo ’63, sostenuto dal progetto di un’industria culturale nella quale la comunicazione di massa, avrebbe dovuto permettere un confronto produttivo tra il pensiero elitario e le convinzioni dei ceti allora chiamati subalterni, il ruolo propositivo di due librerie, la Feltrinelli a Via del Babuino divenuta, fin dalla sua apertura, un vitale centro di elaborazione di nuovi scenari sperimentali, e la Samonà e Savelli, che svolge anch’essa una notevole attività esplorativa sulla situazione politica di allora. Per l’altro nascono in quegli anni forti fermenti sovversivi, emersi in grande parte dopo i movimenti studenteschi del 1968, prodotti sia dalla sinistra extraparlamentare di Lotta Continua e Potere Operaio sia da gruppi che scelgono la clandestinità come condizione per una guerriglia urbana che durerà a lungo. Questa deriva rivoluzionaria, alla quale si oppongono altrettanto violente fazioni dell’estrema destra, che ha come risultato un numero elevato di vittime, dimostra il suo essere storicamente fuori tempo. Questo conflitto sanguinoso raggiunge il culmine nel 1978 con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Nel frattempo erano già nati i centri sociali, che esprimono la condizione marginale delle periferie dando di esse una consistente e militante rappresentazione. In quel periodo un giornale come Il manifesto e una serie di riviste tra le quali Quindici, Alfabeta, Marcatrè costruiscono solide e innovative connessioni tra la cultura e la politica. Si determina così una lacerante bipolarità tra concezioni rivolte al futuro, anche se si tratta di un futuro quasi sempre all’insegna del consumismo, e la volontà che la classe operaia pensata, va ricordato, in termini anacronistici, combatte un capitalismo considerato come un’entità totalizzante e costrittiva. Il tutto all’interno dello scontro nel Vietnam tra la politica imperialista degli Stati Uniti e il comunismo sovietico e quello cinese in cerca anch’essi di estendere le loro aree di influenza nel mondo. In sintesi il decennio che sto riassumendo vede l’affermazione delle controculture, ovvero posizioni che contrastano i valori ritenuti superati o da superare. Contropiano è una rivista che segna questa condizione del pensiero in termini filosofico-politici, che combattono le ideologie dominanti anche se con il limite di essere essa stessa un’ideologia, per più versi schematica, autoconfinata in una presunta superiorità etico-scientifica. Nel campo dell’architettura Controspazio, fondata da paolo Portoghesi, svolge anch’essa una funzione decostruttiva rispetto alle statiche certezze di un professionismo convenzionale.
Intanto la produzione industriale, dopo la precedente fase espansiva, è attraversata da crisi ricorrenti mentre si profilano difficoltà economiche sempre più rilevanti. Tornando un attimo a Pier Paolo Pasolini e alla sua distinzione tra la negatività dello sviluppo e la positività del progresso non si può non accennare alla nascita, con il celebre libro manifesto I limiti dello sviluppo del 1972, a cura di Aurelio Peccei, della questione ambientale, che inizierà un nuovo corso conoscitivo e operante nei confronti del consumo energetico e più ampiamente della condizione complessiva del pianeta. Nel 1974 il Vicario Ugo Poletti, organizza un convegno sul tema I mali di Roma che analizza le sofferenze varie e diverse della Capitale. L’anno dopo viene pubblicato il libro Controroma, con opinioni di molti letterati e giornalisti nel quale la diagnosi negativa sulla città è compiutamente motivata.
All’interno di questa condizione il dibattito disciplinare italiano è in quel periodo a un livello talmente avanzato da influenzare notevolmente la ricerca internazionale, facendo sì che la cultura del costruire del nostro Paese sia considerata come uno dei più importanti riferimenti teorici e operativi. Tutto ciò in una fase nella quale i principi dell’architettura moderna sembrano aver perduto gran parte della loro forza propositiva, essendosi quasi completamente consumata la loro carica in un’iterazione di temi e motivi ormai consolidati, progressivamente trasformati in una serie di formule convenzionali e di stilemi meccanicamente replicati.
Nella stagione che è oggetto di queste considerazioni il quadro architettonico nazionale, e in particolare quello romano, è diviso in due grandi orientamenti. Il primo riguarda in termini nuovi il ricorso alla ragione come spazio originario della ricerca, una ragione intesa in modo piuttosto assiomatico, assoluto e rigido dalla Tendenza, nata a Milano con Aldo Rossi e Giorgio Grassi all’inizio degli Anni Settanta ma subito molto presente anche nella Capitale. La scelta razionalista aveva anche una diversa espressione, più aperta ed evolutiva, definita come “razionalismo critico” come nei saggi e nei progetti di Maurizio Sacripanti, di Vittorio Gregotti e di altri architetti disponibili a un confronto produttivo con problematiche diverse, una visione dell’architettura caratterizzata dall’idea di una centralità fondativa del rapporto tra tipologia e morfologia, ripreso in parte dagli studi urbani di Saverio Muratori, accompagnata da una propensione a una iconicità monumentale, sostenitori di una continuità, seppure adeguatamente contrattata, con quella “tradizione del nuovo” teorizzata dal critico statunitense Harold Rosemberg. Al primo orientamento, come ho appena detto a sua volta duplice, si oppone una direzione di ricerca che intende riconfermare l’adesione alla modernità ritenuta come un patrimonio ancora del tutto attuale. Rappresentato con una grande capacità critica associata a una leggendaria energia polemica da Bruno Zevi, questo secondo orientamento si rivolge al futuro attraverso immagini avveniristiche, dissonanti, eretiche, dalle quali è del tutto esclusa qualsiasi invariante legata alla struttura stessa del linguaggio, dotato per sua natura di una attitudine alle permanenze e al contempo alle mutazioni, ossia in grado di evolvere conservando, però, un nucleo riconoscibile all’interno di una positiva dialettica tra continuità e discontinuità. C’è da osservare, anche se non è possibile in questa occasione addentrarsi ulteriormente sulla dualità descritta, che entrambe le aree ereditano il recente lascito delle avanguardie che un decennio prima avevano cercato di ridefinire le problematiche urbane sotto il segno di una vera e propria rivoluzione architettonica. Archigram, Superstudio, Archizoom, i visionari giapponesi, Yona Friedman, Hans Hollein, Luigi Pellegrin, Aldo Loris Rossi, Raimund Abraham, Maurizio Sacripanti sono alcuni dei maggiori esponenti di quel momento.
Un’altra tematica comune alle due aree consiste nella concezione della grande dimensione come una nuova categoria progettuale che includeva nel progetto il territorio in quanto spazio concettuale da esplorare, un’entità nella quale gli insediamenti potevano acquistare, come nelle teorizzazioni gregottiane, una scala più ampia e interconnessa. Assieme all’architettura radicale e neoutopica, alla quale appartengono gli architetti appena ricordati ha un ruolo importante la ricerca dei Five Architects (Peter Eisenman, Michael Graves, Charles Gwathmey, John Hejduk e Richard Meier) promossi in Italia da Manfredo Tafuri. Il loro lavoro consiste in una ripresa di temi del razionalismo in un’operazione insieme anacronistica e neoavanguardistica che ha una durevole influenza sulla questione del linguaggio appena prima della nascita del Postmodernismo, di cui è comunque uno dei principali riferimenti per quanto riguarda il suo versante non storicista.
Occorre infine chiarire che negli Anni Settanta la cultura architettonica italiana, e quella romana in particolare ripropongono in tutta la sua ampiezza il tema della storia come materiale architettonico essenziale, anche se il ruolo della storia stessa nell’arte del costruire si articola, nelle due aree, in modalità opposte. Se Bruno Zevi, al suo ritorno come docente a Roma dopo gli anni di insegnamento a Venezia, teorizza la “storia come metodologia del fare architettonico” e la “critica operativa” come attività che può dedurre dallo studio di architetture significative nuovi temi e motivi in nuce, Paolo Portoghesi identifica nel pensiero sul passato solo un campo linguistico dal quale derivare tematiche formali, un campo di riferimenti non inteso in senso eclettico ma specifico – per lui il barocco – mentre Manfredo Tafuri rifiuta decisamente l’idea di una stretta relazione tra storia e progetto. Leonardo Benevolo è invece portatore di uno sviluppo in un certo senso automatico se non proprio meccanicistico dell’architettura moderna, che in un razionalismo corretto, sebbene privo della necessaria tessitura tematica e dell’altrettanto intensità formale, riafferma volta per volta i suoi fondamenti senza però rimetterli in discussione, come sarebbe necessario, ma adattandoli semplicemente alle condizioni diverse da quelle che li avevano connotati nel momento in cui erano stati teorizzati. Per concludere questo schema è utile accennare a un’ultima distinzione tra le due aree. Essa riguarda l’autonomia dell’architettura come esito del rivendicare al progetto e alla realizzazione di un’opera una superiore unità tematico-linguistica per la quale l’opera stessa si configura come l’espressione di un processo compositivo unitario, dotato di una sua interna capacità di definirsi. A questa idea si oppone frontalmente Bruno Zevi, il quale, nonostante il bel convegno su Giuseppe Terragni da lui organizzato a Como nel 1968, venticinque anni dopo la sua morte, aveva una grande opinione del razionalismo, considera accademica la ricerca di principi architettonici solidi e durevoli, come quelli dettati dalla ragione preferendo l’ “architettura organica”, alternativa a sistemi spaziali chiusi, definiti, statici. Egli è fautore costante del superamento di ogni espressione architettonica a favore di un nuovo ogni volta destabilizzante anche se, ambiguamente, derivato dalle sette invarianti, categorie da lui individuate nel celebre libro Il linguaggio moderno dell’architettura che possiedono, malgrado le intenzioni dello stesso Bruno Zevi, una loro solida strutturazione. In quegli anni la generazioni allora più giovane, alla quale chi scrive appartiene, si impegna in una rifondazione dell’architettura che muove da una critica radicale all’eclettismo professionale, il cui esito è la riproposizione di stereotipi tipologici e formali. Non essendo più il risultato di una vera ricerca la produzione professionale si configura quindi come la ripetizione in più casi, comunque, colta e consapevole, di espressioni linguistiche consuete. Nella loro intenzioni queste scritture architettoniche, divenute anonime, rendono i principi dell’architettura moderna sempre meno capaci di motivare in senso innovativo il progetto. L’autonomia dell’architettura è una categoria che nasce da questa critica così come l’architettura disegnata, a tutt’oggi non del tutto intesa storicamente nel suo autentico significato di territorio aperto a una sperimentazione libera e avanzata, ma considerata come un’autogratificante evasione in un gratificante spazio autoreferenziale.
Le personalità più rilevanti dell’architettura romana negli Anni Settanta, appartenenti a più generazioni, sono Giuseppe Samonà, Pietro Barucci, Giuseppe Samonà,Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Maurizio Sacripanti, Paolo Portoghesi, Vittorio De Feo, Alberto Samonà, Il Grau, Metamorph, Bruno Zevi, Carlo Aymonino, Mario Manieri Elia, Ludovico Quaroni, Saverio Muratori, Costantino Dardi, Alessandro Anselmi, Franco Pierluisi, Piero Sartogo, Tommaso Valle, Cesare Ligini, Eugenio Montuori, Carlo Melograni, Monaco e Luccichenti, Luigi Moretti, Francesco Berarducci, Ugo Luccichenti, Luigi Piccinato, Vieri Quilici, Lucio Passarelli, Luigi Pellegrin, Roberto De Rubertis, Mario Docci, Leonardo Benevolo, Manfredo Tafuri, Giorgio Ciucci. Questo elenco è sicuramente troppo esiguo, anche se fa comunque comprendere quale è in quel momento il clima della discussione sull’architettura. Tra l’altro le due aree prima descritte non sono certamente ambiti omologanti, nel senso che ciascun appartenente a una delle due aree concepisce il proprio ruolo nell’uno e nell’altro schieramento secondo le sue personali convinzioni. Il confronto acceso e coinvolgente tra posizioni alternative è inoltre aperto alle tematiche artistiche e a quelle scientifiche e filosofiche. É presente anche la politica come nell’azione sempre generosa, irruenta e profonda di Bruno Zevi, nella presenza attiva di Paolo Portoghesi, che all’interno del Partito Socialista Italiano chiarisce quanto l’architettura sia importante per una società più libera e giusta, nel pensiero ermetico ed esclusivo di Manfredo Tafuri, Roberto de Rubertis, Lucio Barbera, Salvatore Dierna. Nel frattempo il vicino 1968 rende la maggioranza degli studenti, divenuti architetti, più che sensibili alle questioni sociali e alla cosiddetta rifondazione dell’architettura. Tra questi emergono alcune personalità promettenti, tra le quali Lucia Latour, Laura Thermes, Paolo Martellotti, Giangiacomo D’Ardia, Dario Passi, Paola D’Ercole, Giorgio Muratore, Lauretta Vinciarelli, Paola Iacucci, Sergio Petruccioli, Massimiliano Fuksas, Marco Petreschi, Claudio D’Amato, Gianni Accasto, Renato Nicolini, Roberto Perris, Franco Zagari, Paolo Melis, Giuseppe Rebecchini, anche in questo caso limitandomi a pochi nomi.
La Roma architettonica vive negli Anni settanta un momento sul quale è necessario riflettere. Il dibattito disciplinare si svolge in più istituzioni, la Facoltà di Architettura, che nel 1970 compie mezzo secolo di vita, poco per un’istituzione universitaria, l’Istituto Nazionale di Architettura, l’Ordine degli Architetti, l’Accademia Nazionale di San Luca, le accademie straniere, tra le quali la Scuola Britannica e l’Accademia Americana. Si tratta di un dibattito importante anche se, per più motivi, poco capace di tradursi in concrete scelte progettuali. La Facoltà di Architettura si trasforma in un contesto conflittuale di specialismi che le fanno perdere la sua originaria unità. Nascono sedi esterne a Valle Giulia, che materializzarono questa frammentazione rappresentandola nella città come le sedi di Fontanella Borghese nel centro storico e di Via Cassia, prima che venisse aperta, qualche anno dopo, anche una sezione a Via Flaminia e un’altra, vicina a questa, a Via Gianturco. Al contempo, come nelle altre strutture per l’insegnamento, quella romana si configura come una scuola di massa alla quale si contrappone l’elitaria sede di Valle Giulia, con i corsi ritenuti dal punto di vista culturale più avanzato. Dal punto di vista culturale Saverio Muratori è stato isolato, a partire dal Convegno del Roxy del 1963 organizzato da Bruno Zevi. Conseguentemente l’incidenza dell’autore di Architettura e Civiltà in crisi sulla Facoltà di Architettura è neutralizzata a vantaggio dell’area quaroniana mentre l’Urbanistica, il Restauro, la Tecnologia, al Disegno e Rilievo, assieme al nascente Paesaggismo acquistano una sempre più marcata indipendenza rispetto alla concezione inclusiva di Gustavo Giovannoni sintetizzata nel modello dell’ “architetto integrale”. Questa divisione della scuola romana esprime una particolare opposizione nei confronti della Composizione Architettonica, espressione storica della sintesi delle componenti dell’architettura, sulla base di una loro ridefinizione come discipline autonome. Prevale conseguentemente un’idea forzata dell’interdisciplinarietà, come un’architettura possa essere pensata e costruita tramite il montaggio di diversi saperi. In realtà l’architetto da Vitruvio in poi, deve essere senza dubbio capace di dedurre da ambiti culturali diversi elementi importanti per il suo lavoro quali le esigenze, nonché l’interpretazione delle varie funzioni e delle loro relazioni, nonché le condizioni ambientali, la natura dei materiali, le modalità del significato dell’abitare, su più livelli, rendendosi conto, però, che le scelte progettuali non derivano da una semplice sommatoria di informazioni, seppure essenziali. Esse discendono infatti da un esercizio conoscitivo e creativo nel quale ciò che l’architetto è riuscito a dedurre da altri saperi deve essere versato nello stampo di un immaginario in grado di generare una totalità segnica nella quale ogni aspetto del costruire si traduce nella coppa albertiana fatta dai lineamenta e dalla structura.
In quegli anni nasce l’AAM (Architettura Arte Moderna) un sistema culturale ideato da Francesco Moschini che ruota attorno alle mostre nella Galleria in Via del Vantaggio, che diffondono e ampliano l’influenza nel dibattito disciplinare dell’architettura disegnata, a incontri tematici e a una intensa attività editoriale. In breve questa scuola parallela diventa un polo di aggregazione che orienta, con la sua attività espositiva, la proposta di alcune collane e un forte impegno teorico, la ricerca degli studenti e dei docenti più motivati. Nello stesso periodo alcuni studi, composti da membri di diverse età, si configurano anche essi come poli culturali a volte in opposizione all’insegnamento ufficiale. La nascita del Politecnico, un insieme fatto di studi, laboratori, un teatro, uno spazio per la danza, un cinema si costruisce una factory romana che svolge un ruolo importante nel panorama culturale della Capitale. Un altro movimento, se coì si può chiamare, viene prodotto dall’impegno politico e culturale di Renato Nicolini, assessore alla cultura nella giunta del sindaco Giulio Carlo Argan. Il giovane architetto interrompe con la sua Estate Romana il silenzio della città nell’età del terrorismo garantendo la riscoperta del meraviglioso urbano dopo anni di una volontaria lontananza di molti cittadini dagli spazi pubblici. Iniziata nel 1977 con un ciclo di film proiettati alla Basilica di Massenzio, questa manifestazione raggiunge nel 1979 un’ampiezza e un’incidenza di livello metropolitano coinvolgendo una serie di aree urbane. La riappropriazione della città da parte del folto pubblico delle manifestazioni annuali consente anche di rendere più visibile e incisiva la sorprendente stagione del teatro di avanguardia, le cui cantine ospitano attori, attrici e registi come Carmelo Bene, Memè Perlini, Leo De Berardinisi, Perla Peragallo, Giancarlo Nanni, Manuela Kustermann.
Nonostante la vivacità del dibattito architettonico Roma è però priva di certezze per quanto riguarda il suo futuro. Il piano del 1962, operante dal 1965, non ha un esito concreto, se si eccettua la sua virtuale realizzazione prefigurata da un sogno utopico, il progetto visionario nel suo eroico fuoriscala dello Studio Asse, elaborato dall’inizio del decennio da Bruno Zevi, Riccardo Morandi, Ludovico Quaroni, Tullio e Lucio Passarelli, Luigi Piccinato, Vincio Delleani. Nel frattempo vengono costruite architetture significative, anche in numero consistente, nonostante l’energia creativa che aveva sostenuto l’architettura degli Anni Sessanta si sia piuttosto affievolita. Emerge tra le migliori architetture la Moschea di Paolo Portoghesi, progettata nel 1974 e realizzata qualche anno dopo, un segno di grande tensione spaziale che riesce a trascendere la semplice dimensione urbana ponendosi come la testimonianza che nella parole “Roma Eterna” c’è un’operante verità, un costante e creativo incontro universale di culture diverse.
A Roma un rapporto assente, o forse solo implicito, è quello tra l’architettura e l’archeologia. Se è infatti vivace la discussione sulla relazione tra storia e progetto, che è considerata essenziale ma sempre indiretta e teoricamente non definibile, quella sull’esistenza di un’interazione tra passato, presente e futuro non sembra avere luogo, se non nell’area del Restauro. L’Antico è un’entità a parte, una realtà separata che vive in una dimensione documentaria e museale. Eppure qualsiasi monumento è ciclicamente riprogettato nonché di per sé, diverso epoca per epoca. Ad esempio gli interventi sul Colosseo di Raffaele Stern e di Luigi Valadier hanno cambiato in modo considerevole la sua identità divenuta duplice, perché l’eroismo di Raffaele Stern, un ermetismo concettuale, si pone agli antipodi del realismo analitico dell’autore di Piazza del Popolo. Negli Anni Settanta si fa strada nella cultura architettonica romana l’idea di far convergere in uno spazio discorsivo comune il progetto archeologico e il progetto architettonico e urbano. Nasce allora l’interesse per una ricerca, materializzata negli anni Ottanta e Novanta, relativa all’Area Archeologica Centrale. Essa è sintetizzata negli studi di Raffaele Panella, Leonardo Benevolo, Vittorio Gregotti, Massimiliano Fuksas, che definiscono quattro scenari progettuali diversi, tra i quali il secondo appare il più completo e innovativo. Alcune iniziative promosse dalla Soprintendenza su tematiche specifiche ampliano l’orizzonte della ricerca che trova nell’intervento di Carlo Aymonino, e di Remo Calzona per gli aspetti costruttivi, un’intensa interpretazione per la nuova sala che ospita la stata equestre di Marco Aurelio. La sistemazione della grande scultura in bronzo è stata in un certo senso anticipata da tre tentativi di dare una risposta consapevole al rapporto tra l’Antico e il Nuovo. Questi interventi sono la destinazione della Centrale Montemartini a spazio museale per l’esposizione delle sculture romane con il suggestivo contrasto tra l’ideale plastico e uno scenario meccanico; l’allestimento di Costantino Dardi per la mostra su Étienne-Louis Boullée al Monumento di Vittorio Emanuele II; la ruderizzazione dello stesso in un progetto di Ludovico Quaroni e Carolina Vaccaro in cui la mole di Giuseppe Sacconi viene magicamente assimilata alle rovine dei Fori.
La relazione che mi sembra possa riassumere il senso del decennio di cui sto parlando è quella tra i grandi interventi di edilizia popolare costruiti a seguito della Legge 167 e le borgate abusive. Due Rome si confrontano in una espansione dalla duplice anima. La prima discende in gran parte dalle tematiche già ricordate dell’utopia della grande dimensione materializzandosi in estesi quartieri. Altrettante microcittà prive, però, e non nei progetti degli autori ma per il meccanismo stesso della Legge 167 per le quantità e le modalità realizzative , delle essenziali strutture pubbliche. Si tratta di insediamenti monoclasse, pensati dal sistema legislativo come insiemi di tipologie ripetute, che si rivelano come ambienti abitativi dominati da un soffocante anonimato, un clima ipercollettivo e al contempo chiuso in intorni privatizzati e difesi che non era presente, per inciso, negli equilibrati quartieri dei due settenni dell’INA Casa. Una condizione limite, in breve tempo causa di un diffuso disagio che crea in questi sistemi abitativi di massa una situazione conflittuale sia al loro interno sia tra di essi e la città. Le borgate abusive si configurano invece come paesi più o meno piccoli fatti di una ingannevole edilizia spontanea. In realtà esse sono il frutto di una diffusa speculazione edilizia, frammentata in tanti interventi, che assume forme nuove, molto più modeste delle precedenti grandi operazioni private di cui ha parlato e scritto a lungo Italo Insolera. Superando i imiti del Piano Regolatore, questi insediamenti, a scala umana nonostante i loro limiti, circondando la città inseriscono nell’Agro Romano una presenza insediativa diffusa, di una misura contenuta che, anche se involontariamente, assimilata con naturalezza al paesaggio.
A proposito della dualità tra i grandi quartieri nati dalla 167 e le borgate spontanee va detto che un aspetto di solito dimenticato di questi interventi in periferia è il loro nascere non in generico esterno alla città, una sorta di vuoto, sebbene tale esterno appartenga all’Agro Romano, ma su un sistema di segni terrestri tracciati spesso prima della fondazione di Roma. Strade, sentieri, ruderi, cave, casali, costituiscono una suggestiva narrazione storica dalla misteriosa molteplicità, la cui conoscenza si rende necessaria per riconoscere all’abitare periferico, divenuto l’ambito di un’ambigua totalità un valore capace di renderlo più compreso e partecipato, luogo di una convinta e socialmente positiva appropriazione conoscitiva e sentimentale da parte della comunità. Le borgate abusive, legalizzate negli Anni Ottanta, sono edificate su aree lottizzate dai proprietari stessi dei terreni mentre le case, spesso unifamiliari, vengono costruite o da operai edili che poi le abitano o da modeste imprese. Tor Bella Monaca, il Laurentino ’38, il Quartaccio di Pietro Barucci, Vigne Nuove di Lucio Passarelli e Alfredo Lambertucci, il grande e denso rettangolo a Tor Sapienza di Alberto Gatti, il Corviale di Mario Fiorentino diventano ben presto ambienti difficili, dai quali emerge un disagio che nasce dall’esclusione. L’abitazione di massa, vale a dire del grande numero e della conseguente omologazione, si trasforma in massa di abitazioni che vorrebbe essere eroicamente collettiva, mentre di configura come la negazione dell’individuo nella sua singolarità. L’esigenza umana di circoscrivere il proprio ambito di vita in uno space in between libero e al contempo complesso, vale a dire in una identificabile territorialità permeabile tramite rituali sociali concordati si scontra con la ripetitività assoluta e con la dismisura imposta dalla Legge 167.
Per quanto detto ciò che è legale è quindi emblema del negativo, mentre l’illegale delle borgate è il luogo di un approssimativo seppure vivibile spontaneismo. Questa architetture senza architetti riesce, quasi casualmente, ad avere un rapporto organico con il territorio dando vita, si può dire malgrado la realtà di queste nuove entità urbane, a produrre luoghi marginali ma almeno riconoscibili, lontani dall’impositiva concentrazione abitativa dei grandi quartieri. Questo paradosso è un ambito problematico che anni dopo si cercherà di affrontare con le diciotto centralità metropolitane proposte dal Piano Regolatore del 2008, che avrebbero dovuto superare questa dualità in un tessuto urbano armonico, altrettante polarizzazioni funzionali e spaziali rimaste pressoché tutte nella carta, come peraltro era già avvenuto per l’Asse Attrezzato del 1962. Comprendere le ragioni della crisi costante di un’idea futura di Roma è per quanto detto un interrogativo urgente al quale la Capitale dovrebbe al più presto rispondere. Ricordando che l’architettura non è solo “sostanza di cose sperate”, come ha scritto Edoardo Persico, ma soprattutto la realizzazione di quanto ci si è augurati di realizzare con l’obiettivo di continuare e modificare l’abitare in forme più libere, aperte, accoglienti.


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