Dalla teoria delle carte locali alle mappe per sistemi discreti, dalla descrizione alla narrazione della città antica.
Nella sua multiforme espressione cartografica dello spazio e del tempo, l’Atlante di Roma Antica di Carandini costruisce la sua narrazione della città, degli attori, delle scenografie e degli eventi, nella forma di un racconto in grado di assumere i tratti soggettivi del lettore, assecondandone la curiosità e l’interesse attraverso quei diversi approcci «in volo e in picchiata»1. Ma, soprattutto, è un racconto che pone le sue basi nella descrizione scientifica della città e della sua evoluzione, ancorandosi fortemente alla disciplina della topografia cui viene applicata, come una lente rifrangente, l’archeologia e tutti quegli elementi del mondo romano antico che ad oggi sono stati scavati, interpretati e ridisegnati. La rappresentazione delle rovine e dei siti, infatti, assume lo schema del Sistema Informativo Archeologico di Roma Antica; l’Atlante ne riprende la struttura logica, sviluppandosi nelle due già citate dimensioni spaziale e temporale, attraverso le cosiddette «Unità Topografiche» e le «articolazioni cronologiche»2. Le Unità Topografiche costituiscono gli atomi del paesaggio antico; ogni unità si definisce infatti come «un elemento in sé finito» e identifica una ricostruzione o un indizio di una componente della città, indipendentemente dalla sua dimensione, dalla funzione o dal suo carattere più o meno monumentale. Alcune Unità sono più semplici e coincidono con un singolo monumento (per esempio, la Colonna Traiana) oppure sono più complesse e rappresentano una vera e propria architettura (per esempio, la Basilica Ulpia o il Foro di Traiano)3. Ognuna di queste unità è caratterizzata da un codice che ne permette la lettura trasversale all’interno dell’opera, dalla sezione Tavole a quella Indici, fino ai rimandi nella sezione Testi e a quella Immagini. In particolare, viene consentita la localizzazione della stessa Unità – e quindi del riconoscimento delle sue variabili e costanti nel tempo – attraverso il confronto con tavole afferenti periodi diversi. I «periodi» sono solo alcune delle articolazioni cronologiche cui il Sistema Informativo Archeologico si riferisce, insieme alle «fasi», ai «gruppi di attività/ambienti», alle «attività» e alle «unità stratigrafiche».
Proprio nel tema della temporalità risiede l’elemento più caratterizzante dell’opera di Carandini rispetto agli altri atlanti, e alle altre mappe topografiche in generale. Considerando gli omeomorfismi descritti e riconosciuti dalla teoria delle carte locali, ad ogni superficie può essere associato un ricoprimento che trova relazione in una trascrizione euclidea della stessa. È in questo modo possibile mettere in relazione una porzione della superficie terrestre con la sua rispettiva carta locale che, insieme alle sue adiacenti, costituisce quello che anche nell’universo matematico e topologico prende il nome di atlante. La trascrizione della temporalità prende definitivamente forma sulla carta nel momento in cui una stessa unità topografica – specificamente identificata attraverso il suo codice – viene riportata dalla relazione di omeomorfismo su differenti layer riferiti a epoche diverse, cioè su differenti livelli di strati storici. Da un lato, quindi, la disciplina archeologica costruisce quel set di informazioni che permette di collocare su una ideale linea del tempo i singoli monumenti e le parti di città. Dall’altro lato, la disciplina topografica e le sue leggi sono in grado di restituire spazialità diverse riferite a tempi differenti, semplicemente grazie alla collocazione reciproca delle unità topografiche su carte locali cronologicamente definite.
La riproduzione di questo processo all’interno delle tavole carandiniane permette l’elaborazione di mappe per elementi discreti, attraverso le quali prendono vita le vicende della città antica. Dalla descrizione dei luoghi, e dalla loro osservazione sulle carte, si passa alla narrazione degli stessi. Così come alcune unità topografiche compaiono in più di uno di questi strati storici della città – configurandosi punti di riferimento e costanti tra epoche differenti –, altre non subiscono la stessa sorte. Alla variazione delle unità topografiche tra una tavola e l’altra, corrispondono infatti i processi di mutazione della città; questi possono procedere per addizione – e progressiva articolazione del tessuto – oppure per sottrazione – come cancellazione e sostituzione di elementi.
Alla prima direzione, quella additiva, può essere emblematicamente ascritto il complesso dei Fori Imperiali4 che viene accresciuto in decadi e secoli successivi da Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e infine Traiano; a sua volta, lo stesso sistema si innesta sulla sponda nord del Foro Romano, già oggetto di molto mutazioni in linea coi cambiamenti amministrativi e governativi della città. Un altro caso esemplare è quello del Campo Marzio5: dal momento della fondazione si arricchisce di gens in gens fino a costituire un densissimo panorama di architetture ed elementi notevoli, visibili oggi attraverso alcuni lacerti di città, come le colonne del Tempio di Adriano in Piazza di Pietra, o attraverso l’eterna persistenza di alcuni monumenti, come il Pantheon.
La seconda direzione, di cancellazione e sostituzione di elementi, è invece ben interpretata dalle vicende della Domus Aurea di Nerone che assume i tratti della programmatica distruzione, operazione caratterizzante del processo di damnatio memoriae. Attraverso quanto riportato in alcune tavole della III e IV regione6, infatti, è possibile ricostruire e raccontare la complessa storia della villa neroniana. E così come essa nasce dall’integrazione di elementi e componenti della città, giuntati dall’immaginario del giovanissimo imperatore e trasformate in forma architettonica, così il suo lascito verrà riconosciuto in un insieme di elementi apparentemente disaggregati, eppure riconoscibili, come esito finale della damnatio.
L’Atlante di mappe per elementi discreti proposto dall’opera di Carandini definisce un modello di codificazione diverso da quello elaborato un secolo prima, ma sempre in ambito archeologico, da Rodolfo Lanciani. Il paradigma incarnato dalla sua Forma Urbis Romae è infatti quello del palinsesto, rappresentato e concretizzato in tutte le sue compresenze e in tutte le sue sovrapposizioni. La visione proposta da Lanciani è quella di una contemporanea visione dei diversi tempi della città, che prende forma in una mappa in cui gli elementi si compenetrano e sovrappongono secondo le loro naturali giaciture. All’interno delle tavole che riportano la Roma che era insieme a quella che è, l’elemento di denuncia della temporalità è il colore: nero per la città antica, rosso per i tracciati moderni. Ne risulta un’intricata tessitura di strade, monumenti, isolati, fabbricati e spiazzi che si espandono senza soluzione di continuità raccogliendo sui diversi layer elementi diacronici eppure compresenti. Più che un’intenzione analitica, nell’opera sembra riconoscersi una vocazione epifanica ed euristica, di progressivo disvelamento di quel macro-tema che si fa sempre più strada nel dibattito culturale coevo a Lanciani e alle sue ricerche: la coesistenza sopra (e sotto) la stessa superficie urbana di due città, antica e moderna, e il rapporto generato dalla conservazione dell’una rispetto allo sviluppo dell’altra. In tale modalità di rappresentazione del palinsesto archeologico è sottesa, insieme alla descrizione delle rovine, la riflessione su esse stesse e sul loro ruolo tanto nella città quanto nel nostro pensiero.
Il processo messo in atto dall’Atlante di Roma Antica di Carandini, operando per scomposizione in elementi discreti e per successiva ricomposizione, porta a un tipo diverso di conclusione. Così come la scomposizione di un gesto catturato da una ripresa filmica in una sequenza di fotogrammi mostra profili prima invisibili, allo stesso modo la scomposizione del palinsesto archeologico pone una particolare e precisa attenzione su ognuna delle unità che lo compongono, in quanto ciascuna a suo modo presente ed evidente in un determinato strato storico. Il fatto che la scomposizione avvenga grazie allo strumento topografico, sulla dimensione spaziale, e che la ricomposizione derivi dalla coscienza (e conoscenza) della temporalità evidenzia la potenza di tale gesto nel suo trasformare ciò che è rappresentazione in narrazione, ciò che è descrizione in racconto. Infatti, poiché la fase ri-compositiva si svolge sul piano mentale e conoscitivo, essa è in grado di condurre non solo a una nuova configurazione dell’oggetto analizzato – l’archeologia e i suoi diversi strati – ma anche alla possibilità di nuove elaborazioni e nuove considerazioni sullo stesso. L’Atlante si configura come uno strumento di grande respiro, capace non solo di educare e informare, ma anche di predisporre campi di ricerca e attivare nuove riflessioni sul tema archeologico e sulla città storica in senso ampio
(1) Proprio il contributo introduttivo all’intera opera, a firma di Andrea Carandini, prende il nome di “Roma in volo e in picchiata”, in A. Carandini (a cura di), Atlante di Roma Antica. Biografia e ritratti della città, Electa, Milano 2012, vol.1 “Testi e Immagini”, pp. 15-43
(2) A. Carandini (a cura di), Atlante di Roma Antica. Biografia e ritratti della città, Electa, Milano 2012, vol.1 “Testi e Immagini”, pp. 46-47.
(3) A. Carandini (a cura di), Atlante di Roma Antica. Biografia e ritratti della città, Electa, Milano 2012, vol.2 “Tavole e indici”, Tav. 40.
(4) Ivi, Tav. 14, 15, 19, 21, 30, 40.
(5) Ivi, Tav. 208, 214, 222, 232.
(6) Ivi, Tav. 104, 110, 118.