Architettura romana.
Un’evidenza. Da principio. L’architettura romana non si appiattisce sull’architettura greca o ellenistica, pur riconoscendone il valore. E la necessità di studiarla. Come testimonia lo stesso Vitruvio.
L’ originalità consiste nell’irriducibilità al principio greco dell’esposizione alla luce. L’architettura dei romani si nasconde. Si difende dalla luce. È arte degli interni. La definiremo, perciò un’architettura di paesaggi interni. Paesaggi dell’arte. Prodotti dalla collaborazione della mente con la natura tramite le mani. O del pensiero attraverso l’estroversione del pensato ad opera delle mani. Cioè della materia data in natura ed adattata dalla lavorazione, all’essere somatico dell’uomo. Simultaneamente, altresì, all’ essere, l’uomo, pensante. Perciò organizzando i materiali li “porge” ad una pratica mentale il cui il prodotto può rivelare, attraverso analisi e sperimentazioni, qualcosa di specifico relativo a ciascuna delle realtà in sé: la natura, la mente, la mano o meglio il corpo-attore.
Torno all’architettura romana.
Non è la pietra, il materiale. Invece il mattone. Terra bagnata che nell’asciugare s’irrigidisce, “fa presa”. E può sostenere pesi. Perciò, interrata, disposta in fila, il corso, forma strato componendosi l’uno all’altro non solo linearmente ma trasversalmente nello spessore. Il mattone è, quindi, rettangolare e relativamente piatto. Dunque le sue misure 1, 2, ½, sono preziose per la tessitura o per l’incastro. Il mattone è un materiale intrinsecamente tridimensionale. Che si compone o “tesse”, per dirla con Semper, onde costituire una massa di elementi di piccola taglia compatta, il muro. Ho detto della tridimensionalità. Perciò non considererò tanto il vano nel muro, l’arco, ovviamente complemento del muro come rimozione della disgiunzione separatrice. L’indebolimento, infatti, favorisce il crollo. Compare il terzo elemento che contrafforta mentre determina cavità tridimensionale oltre lo spessore: l’abside, la “calotta” generata dall’arco. Disgiunzione, il muro, congiunzione l’arco, opposizione delle “regioni” separate concava l’una , convessa l’altra, opposte come interno ed esterno, la calotta . Compare l’elemento “tipico” dell’architettura romana, il muro absidato. Caratteristico della basilica, come terminale ad oriente, del colonnato interno comprendente la navata coi muri, finestrati, in alto, sopra il tetto dei corpi laterali aperti ala navata centrale dagli archi. Prende corpo basilicale, il paesaggio interno. Né la basilica è il solo tipo. L’altro, più esclusivamente tipico dell’architettura romana, a pianta centrale, è esemplificato dal Pantheon: delimitato dalla circonferenza attorno all’attore, basa la cupola con il foro in cima, unica fonte di luce. Tipo della sala circolare, come l’ ottagona della Domus aurea. Che villa Adriana emula, portandola alla massima complessità e perfezione, nei molti modi del ninfeo o dei padiglioni a pianta centrale: quello della piazza d’oro, del teatro marittimo, della sala dell’accademia. Basilica e ninfeo battesimale, saranno eredità dall’architettura cristiana ben oltre la bizantina. Inoltre la sala ottagona sarà, sede dell’imperatore per antonomasia, d’oriente e d’occidente, insegna d’essere, la sua persona, sacra: san Vitale o la cappella palatina di Aquisgrana o l’ Ostwerk di Essen.
Dopo il rinascimento, villa Adriana, diviene il testo base nello studio dell’architettura. Pirro Ligorio, Borromini e Piranesi hanno legato villa adriana al barocco. E il termine mantiene il connotato di capriccio o licenza di sfrenato libertinismo. Che non merita. Sublime, invece. Esempio magistrale dell’unità: il guscio che ospita l’invaso. In un recente numero ho segnalato lo studio per sezioni del san carlino alle quattro fontane fatto da Rudolf Wittkower. Sottolineando la forza sintetica della struttura che unendo la fondazione con la lanterna, collabora alla distinzione dell’impianto cruciforme nel fondersi in ellisse quadrilobata. Quindi, nella successione delle trabeazioni a cinture successive, dando ritmo verticale alla modellazione sottostante delle nicchie popolate da statue. Le cui superfici murarie traggono dalla stessa plasticità della forma espressione figurativa. Da tale sintesi, penso, prenda avvio la modernità del secondo dopoguerra.
Penso agli autori che siglarono il passaggio del testimonio tra gli anni ’50 e i ‘60.Citati nel n° 7 di arcduecittà, dedicato all memorie degli amici romani negli anni ’60. Nella loro saggi introduttivi all’architettura mi mettevano sotto gli occhi Kahn come interprete dello spirito di quel tempo, che era il loro. Della formazione, della decisione. Ed il mio. Tra politica e arte.
Quanto a me. Penso al tempo dell’Inghilterra, degli anni ‘50. Penso che, in Europa fu la prima a vincere la guerra resistendo alla furia germanica. E favorì il passaggio del testimone all’America che la vinse insieme a lei ed alla Russia. E penso che nel passaggio l’aver saputo integrare gli ebrei, sia stato cruciale. Dico di Gropius e del Bauhaus. Anzi di Mies van der Rohe, il maestro della modernità. E, soprattutto andando oltre, penso al dopo. Alla scuola di Warburg, di Wittkower e di Rowe. Ai loro studi. Cui Eisenman ha dato le ali.
Non dimentico l’entusiasmo per la città di quegli anni. Penso a Lynch e all’eredità di Wright, L’autore degli anni dieci “incoronato” dagli europei maestro della modernità. Ma non dimentico la lezione di Roma che ricordò la misura dell’uomo nell’età della macchina; a Lynch stesso. E a Louis Kahn. L’architetto che sigla gli anni sessanta del XX secolo. Testimone della fecondità in America dell’insegnamento beaux arts. Da villa Adriana, studiata con passione, vinto il Rome prize 1950 dell’accademia americana, erede del prestigioso premio della Francia illuminista, l’autore americano trasse lo spunto del nuovo stile che inaugurò appunto, penso, lo spirito del secondo dpoguerra. Che espose nel Salk Institute, dismissione del purismo miesiano. Abbandonati il ferro ed il vetro espone la materia nella modalità più antica: il mattone e il calcestruzzo di cemento armato allo stato grezzo. Il materiale privo di rivestimento organizzato nell’ordine costruttivo che ne fa segno esemplare. Per cui la materia modellata e disposta a formare il monolito artificiale o “guscio” di un vano abitato, privo di funzione, non di forma segna l’abbandono dell’International style.Prima di qualunque funzione, vi è il problema del tempo umano.
L’ordine costruttivo che conosce il come della costruzione vi incorpora il tempo della natura. Non quello dell’uomo. La funzione non precede. Istituita dalla costruzione stessa è problema del monumento, il segno architettonico stesso. L’ignoranza del come e perchè della istituzione che pure ne è conseguita. Tale è il suo problema. Assimila il primitivo alla nascita ed alla ignoranza socratica. Il primitivo non è del passato ma del presente. È problema primario della specie umana. Interrogazione sull’essere del proprio tempo. Uso il termine di De Carli, il teorico di Stile, la rivista di Ponti perché rivela nel primitivo, trova la condizione originaria. Ho citato De Carli perché sapiente di tale condizione propria alla nascita. Ricordo con lui Enrico Baj perché riducendo al materiale l’espressione, non vide il brutale ma il primitivo che è primario. In sintonia con l’ebreo estone formatosi in America come architetto. Il quale soleva dire, «Amo gli inizi. Gli inizi mi riempiono di meraviglia. Io credo che sia l’inizio a garantire il proseguimento.» Intendo l’ inizio come Il problema della nascita, della modernità annunciata da Wagner allo scoccare del secolo scorso nel rifiutare la parola ri_nascita cara a Semper. Amo gli inizi. Dice Kahn intendendo, penso, la scoperta artistica dello stile. Attualizzazione archetipa del primitivo nel primario. Vengo quindi al modo in cui l’architetto americano fece proprio il principio sintetico dell’architettura romana: l’unità della massa che “offre” all’attore abitante non tanto e solo l’ interno da abitare, ma il paesaggio dell’arte. L’ordine, che sigla la funzione primaria del materiale_segno, organizzandolo per il compito esemplificato e adempiuto, d’essere Monumento, il segno architettonico stesso nel nome antico. Nomina l’ “appello” alla mente perchè giudichi della “proprietà” dello spazio costruito al tempo ospitato. Il tempo umano, il problema. Bensì coesteso al tempo naturale, ma non identico. Così come lo spazio disponibile ai corpi, penso, costruito intenzionalmente per il tempo umano, non psicologico. Né soggettivo. Invece, intuito dalla mente di qualcuno e verificato nel mondo. Istituzione sociale. Non legale. Dell’arte e della tecnica. Per quanto d’ intelligenza dell’uomo per il mondo, hanno saputo esporre e comunicare. Forse per questo la capitale del Bangladesh ha accolto come “primario” il monolito artificiale che la materia stessa nell’ irrigidirsi divenendo struttura ospitante l’ invaso incluso, fece sede del parlamento bengalese. Calcestruzzo armato dall’anima di ferro. Brutale. Forse. Se non che la cura del disegno a partire dai giganteschi fori circolari o triangolari nel pieno del muro e l’articolazione dei metri nel ritmo degli alzati insorgenti dalla pianta, conferiscono un’agilità alle masse che la parola tradisce. Occulta la sapienza del canone. Ciò che, come misura e numero, conferisce armonia alla materia, necessaria per avere un segno del tempo umano. Sono tornato all’attualità dell’archeologia romana, per il progetto d’architettura moderna. Mira della ricerca del prof. Caliari. Il quale, proprio come progettista d’ interni, ha studiato villa Adriana.