Smart è una parola magica, che anteposta a qualsiasi oggetto, utensile, luogo, dischiude immediatamente un orizzonte di infinite possibilità, trasformando il semplice, il limitato in una sorta di coltellino svizzero multitools con cui affrontare le complessità della vita. Così, oltre al telefono e alla tv, anche la città si “smartifica”, diventa “facile”, connessa, intelligente… nel generale plauso delle genti e dei proprietari degli algoritmi di gestione e controllo dell’ormai vasto, e in ulteriore rapida espansione, universo dell’IOT , l’Internet delle Cose. Ma procediamo con ordine.
Comincia negli anni ’90 ad essere associato alla città il concetto di “smartness”, per definire un ambiente urbano intelligente, ovvero, capace di offrire una gestione rapida ed efficace delle risorse urbane, tramite le tecnologie disponibili nell’ambito dell’ICT, cioè dell’informatica e delle comunicazioni digitali. Nel 2008 la multinazionale Siemens ci offre, in una pubblicazione del suo centro studi, una prima e chiara definizione in questo senso di “smart home” e “smart city”: “L’obiettivo di questo modello di città è quello di ottimizzare la gestione e il controllo delle risorse per mezzo di sistemi informatici autonomi”[1].
Questo modello ha dato origine a quelle che potremmo definire “smart city di fondazione”, cioè agglomerati urbani progettati e realizzati da zero in forma di sistema urbano interconnesso, dotato di una rete di rilevatori e di sensori che forniscono una quantità sterminata di dati relativi ad ogni momento della vita urbana, destinati a quei “sistemi informatici autonomi” di cui parla Siemens. A questa categoria appartengono Songdo sorta dal nulla a sudovest di Seul o Masdar nei pressi di Abu Dhabi e altre esperienze di fondazione di sobborghi e cittadine in India e in Cina. Organizzazioni urbane totalizzanti, in cui il disegno, l’immagine, le modalità d’uso dello spazio e delle risorse sono asservite ad una “governance algoritmica” come definita da Bernard Stiegler[2]. I comandi sono posti in una sorta di “cabina di pilotaggio – o più precisamente su ordine della colletta di dati, di algoritmi interpretativi o monitoraggio di apparecchi visivamente disponibili. Il controllo di questa “cabina di pilotaggio” incarna il modello prescrittivo della smart city”[3]
In queste città smart, il cittadino vive in una dimensione “user friendly”, “priva di attrito” per dirla con Bill Gates, in cui si trasla la logica delle interfacce digitali allo spazio di vita, secondo un modello di organizzazione urbana fondata su una semplificazione prescrittiva dei comportamenti, delle azioni, del vivere, collocata fuori dalla dimensione politica pubblica e partecipativa: “la smart city riduce l’esperienza del luogo”[4]
È immediatamente percepibile, in queste “smart city” di fondazione, l’incubo orwelliano del “totalitarismo digitale”; esse costituiscono tuttavia prototipi, modellini operanti per il processo di “smartificazione” della città esistente, basato su questa “facilitazione” nell’uso dello spazio e di “razionalizzazione” nell’uso delle risorse. Un esempio ricorrente e di semplice comprensione di soluzioni smart per la città storica, è costituito dalla rete di gestione del traffico urbano avviato da tempo a Copenaghen e oggi diffuso in molte città, che, tramite sensori distribuiti e algoritmi di controllo, regola tempi, precedenze e percorsi per rendere efficiente il traffico urbano.
Se volessimo cercare però di capire quali elementi della vita urbana, oltre alla faccenda del traffico di immediata e semplice comprensione, sono coinvolti nel processo di “smartificazione” delle città, incontreremmo subito qualche difficoltà a rendere il tutto chiaro e comprensibile. L’idea di “smart city” cioè di uno spazio governato da “sistemi informatici autonomi”, riferito al processo di smartificazione urbana dell’esistente, ci dice che nella “città intelligente” è l’intero corpo dei problemi urbani che può essere affrontato su un piano tecno/economico, in cui ad un problema corrisponde sempre una e una sola “buona” soluzione. Soluzione affidata alla computazionalità algoritmica, basata su una massa sterminata di dati raccolti ovunque si svolga la vita urbana, tramite sensori, rilevatori, dispositivi individuali, IOT e soprattutto smartphone, media ed estensione fisica dei nostri corpi. Possiamo dire che l’impianto generale del “territorio digitale” si fonda su “di un tessuto urbano che rigurgita informazioni senza sosta e in cui ogni banale, singolo metro quadro di marciapiede produce una tale quantità di dati su chi vi passa e sulle attività che vi si svolgono, da non sapere esattamente come impiegarli.”[5]
La “smart city” funziona se l’apparato di governo si sposta dal piano politico a quello della tecnica computazionale e il tutto viene affidato, come un qualsiasi appalto per asfaltare una strada, a consulenti specializzati nell’analisi e nell’elaborazione, costruttori e gelosi detentori dell’algoritmo, tramite cui si completa la privatizzazione non solo nella gestione di servizi e infrastrutture, ma dell’intero processo di decisione. La “governance algoritmica” pertanto “è un governo che pretende di poter funzionare in modalità pilota automatico, vale a dire, senza pilota né pensieri. In breve, lo stesso installa una società automatica – tale per cui in essa si sviluppa una performatività tecnologica computazionale, la quale a sua volta si pretende totalmente automatizzata”[6]. A partire dalla pervasività dell’apparato di rilevamento dei dati attraverso l’Internet delle Cose, che penetra nel nostro intimo e perlustra le nostre abitudini e i nostri sentimenti, sino al livello del datamining, ovvero l’escavazione, l’ordinamento intelligente dei dati in continua evoluzione, la loro messa a disposizione per il computo che genera automaticamente azioni e scelte, movimenti e produzioni, questo universo smart rappresenta “la più tangibile e concreta manifestazione del nostro desiderio di misurare e controllare il mondo”.[7]
Ma “la pretesa della “conoscenza perfetta” è incompatibile con il disordine di tutti i sistemi di elaborazione delle informazioni conosciuti, degli individui e delle istituzioni che ne fanno uso”[8], nonché “appare illusoria l’idea che esiste una sola e unica soluzione ai problemi della città.(…)”[9]
Deve far riflettere il fatto che uno dei “prodotti smart” più venduto dai “padroni” degli algoritmi alle amministrazioni urbane, è rappresentato dal complesso dei software per la sicurezza urbana di tipo “predittivo”, ovvero orientati alla precognizione probabilistica dell’evento criminoso. Essa viene effettuata con algoritmi, che sulla base della raccolta dei dati relativi alla vita urbana – dalle statistiche sui crimini e loro distribuzione territoriale, all’insieme di pratiche urbane, relazioni di quartiere, comportamenti, abitudini…etnie -, elaborano mappe probabilistiche e predittive sulla possibilità che si verifichino eventi criminosi e sui soggetti che possono attuarli. Software di questo tipo sono stati acquistati da importanti città Americane – Atlanta, Chicago…- e, nonostante violino diritti, pratichino discriminazioni, rivelandosi in realtà del tutto inaffidabili sul piano della prevenzione vera, sono assolutamente legali e rappresentano pezzi forti dei “pacchetti smatrness” di colossi industriali come IBM.
La sistematica diffusione delle piattaforme della cosiddetta “share economy” – da Uber ad Air B’n’B, generatori di grandi quantità di dati urbani – ci semplifica la vita di “utilizzatori” e “clienti” della macchina urbana. Questa facilitazione offerta da una tecnologia “user friendly”, di cui si nutre la retorica della “smart city”, occultano gli effetti di quel “capitalismo 24/7”[10] che segna i tempi delle nostre città e della nostra vita, in un’accelerazione che ci vede, 24/7, al contempo produttori e clienti nel processo di valorizzazione del nuovo “capitale documediale”[11] costituito dai dati e dai documenti registrati dalla rete.
Il possesso, la distribuzione, l’organizzazione dei dati, alla base della “smartification”, non è nelle mani pubbliche, ma in quelle di grandi organizzazioni private; così pure gli algoritmi, le logiche di calcolo, di proiezione, di previsione, sono elaborati secondo schemi che appartengono alla “economia delle soluzioni” (Accenture) o alla “economia dei risultati” (Deloitte)[12], criteri che proiettano fuori dalla politica le scelte di governo della città. “Questo modello si basa sulla mercificazione delle soluzioni a problemi politici e sociali, sull’arruolamento di investitori come banche e altri organi finanziari (…) e sull’utilizzo di tecniche di analisi dei dati e misure per valutare il raggiungimento di specifici obiettivi e risultati, con interventi mirati a indirizzare il processo verso questi ultimi”[13].
Le città quindi divengono aziende appaltatrici coinvolte e spinte entro logiche competitive nel mercato globale, che spesso si concretizza in mercato finanziario, obbligazionario, di bond (si vedano i SIB, Social Impact Bond, obbligazioni “urbane” legate al raggiungimento di obiettivi amministrativi secondo “l’economia dei risultati”). Questa “volontà di assegnare a ogni cosa un punteggio e inserirlo in una classifica, può esistere solo in un tessuto urbano in grado di raccogliere, analizzare ed elaborare enormi quantità di dati”[14].
La retorica della “smartness” si fonda quindi sulla semplificazione della nostra vita di “clienti” e di “users” della città, sulla delega alla tecnologia della “scelta migliore”, che non mette in discussione le ragioni, ma si orienta verso i migliori risultati… con un occhio ai profitti dell’industria digitale e dei dispensatori di servizi ormai concepiti come merce. Se però allarghiamo il nostro orizzonte da utilizzatori della città ad abitanti dei luoghi, non possiamo non vedere come questa “smatness” ci stia espropriando, non solo di informazioni sulla nostra vita per farne pacchetti da vendere, ma della possibilità di compiere scelte politiche da cui derivare le soluzioni o i percorsi di governo dei problemi urbani. La “governance algoritmica” è coerente con quella “dittatura della mancanza di alternative” che contraddistingue le pratiche economiche neoliberiste per cui servizi urbani, welfare, infrastrutture non sono risposte a bisogni di base e quindi diritti universali, ma i nuovi campi dell’economia materiale e immateriale, nuovi terreni di valorizzazione del capitale obbedienti a criteri di massimizzazione economica, spacciati per razionalità assoluta. La tecnologia, le nuove tecnologie digitali, la loro estrema capacità di interconnessione e le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale con algoritmi di autoapprendimento, offrono un’oggettivizzazione delle scelte e accordano, in questa logica prescrittiva, di espungere il conflitto, cancellato dalla presunta oggettività “dell’economia del risultato”. Depoliticizzazione illusoria e ingannevole, che mira ad annullare il conflitto nelle sue forme vitali e democratiche, di cui la città è il teatro pubblico. Appare sempre più necessario che queste tecnologie “radicali”, nella loro pervasività e nei loro effetti, siano sottoposte ad un controllo pubblico, consapevole e negoziale. Secondo Morozov si tratta di conquistare una “sovranità tecnologica”, “un’idea che si basa sulla capacità dei cittadini di partecipare e aver voce in capitolo su come operano e quali finalità perseguono le infrastrutture tecnologiche che li circondano”[15]. Per cui installiamo pure dispositivi intelligenti per regolare traffico e semafori, ma non deleghiamo ad un algoritmo le scelte su investimenti, qualità e priorità del trasporto pubblico – e di qualsivoglia scelta sui destini delle nostre città e delle nostre vite -; algoritmo operante sulla base di un astratta “economia dei risultati”, totalmente indifferente al diritto di vivere e muoversi negli spazi e luoghi della città, nella pratica di una piena e autentica esperienza urbana.
Adriano Parigi
[1] Cit. in Adam Greenfield, “Tecnologie radicali”, Einaudi, 2017
[2] Cfr. Bernard Stiegler, “La società automatica”, Meltemi, 2019
[3] Richard Sennet, “Costruire e abitare. Etica per la città”, Feltrinelli, 2018, pg. 183
[4] Ibidem, pg. 184
[5] Adam Greenfield, op cit, pg. 53
[6] Bernard Stiegler, op cit, pg. 218
[7] Adam Greenfield, op cit, 61
[8] Ibidem pg. 60
[9] Ibidem pg. 56
[10] Cfr. Jonathan Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015
[11] Cfr. Maurizio Ferraris, Il capitale documediale. Prolegomeni, in M. Ferraris, G. Paini, Ontologia della trasformazione digitale, Rosemberg & Sellier, Torino, 2018
[12] Accenture è probabilmente la più grande società di consulenza aziendale nel campo dell’IA, del clouding e dell’elaborazione digitale; Deloitte è tra le più importanti società di consulenza, di revisione, di audit aziendale al mondo.
[13] Evgeny Morozov, Francesca Bria, “Ripensare la smart city”, Codice edizioni, 2019, pg. 33
[14] Ibidem, pg. 31
[15] Ibidem, pg. 74