All’uscita dalla scuola, l’esperienza comune alla generazione sessantottina o presessantottina era quella di un mutamento radicale che coinvolgeva la figura stessa dell’architetto, la professione scelta.
Per chi non andò verso la toeria del’architettura, tra i quali il giovane architetto Amedeo Fago, aveva davanti agli occhi, come situazione italiana, il momento in cui la città si mostrava trionfalmente egemone sulla campagna, si scopriva industriale e, trionfalmente in crescita.
La crisi era in questo stesso, che rappresentava il successo dal punto di vista economico e sociale. Nel cambiamento radicale qualcuno soffriva. Del cambiamento stesso.
Potremo vedere nella esperienza di questo giovane architetto, entrambi, la vitale partecipazione al cambiamento ed il vissuto soffrire del disagio.
Si potrebbe vedere nelle vicissitudini degli affetti, negli amori falliti, nella perdita irrevocabile dei genitori, la causa. Altresì, però, la coscienza di una novità “straniante” che reclama l’abbandono dei costumi atavici concorre prepotentemente alla insorgenza del disagio: la rivoluzione industriale e la società dei consumi, o la mediatizzazione insorgente vieppiù invasiva dei comportamenti. Anch’esse determinavano disagio trasformando la naturale irrequietezza dell’età. Donde la rilevanza della psicoanalisi.
Per restare fermi all’esperienza di Amedeo, l’architetto, si orientò immediatamente all’industria romana per eccellenza, il cinema. Per l’architetto, la scenografia. Che sposta l’attenzione sul carattere della scena, nel quale emerge l’aspetto visivo, ma che fonda il suo essere nella tettonica del praticabile, il palcoscenico, come dimostra il teatro palladiano di Vicenza.
Dunque è l’immagine dello spazio praticabile pubblico che emerge. Cioè la figura della città quale emerge dalle vie e piazze come dimostrano i disegni qui riproposti nelle figure canoniche di pianta, sezione, alzato.
Il momeno realistico del cinema è infatti la costruzione del palcoscenico e della scena che propone agli occhi. Senza di essa gli attori non avrebbero campo d’azione.
E, quel che più conta, in tale costruzione la proprietà dell’immagine come conveniente all’azione è dominante, dunque il carattere. Si può dire che il cinema esalti proprio la ricerca sul carattere. Il talento dello scenografo è nella capacità di scoprire e definire il carattere specifico. Amedeo lo aveva rivelato fin dalla prima volta che aveva indicato al fratello, un casale romano come sfondo adatto al western italiano.
Ora, scoperto nel Romanzo di Morel la “macchina” del cinema (la metafora) aveva fatto la scenografia dello spazio che all’azione di tale macchina occorreva per “catturare” cinematograficamente il tempo vissuto da attori e riprodurlo nello spazio proprio ricorrentemente cosicchè uno “spettatore” capitato accidentalmente nel campo di tale ricorrente azione possa prenderne atto.
Dunque l’insorgenza della idea stessa di una “cattura del tempo” come idea specifico dell’industria cinematografica nel produrre il film, si verificava appartenente alla scenografia. Anzi al carattere del “praticabile” esposto dalla scena presentata.
Qualcosa di concreto, come appunto campo d’azione degli attori. Il cui essere visivo, nulla toglie all’essere praticabile da loro. Sottolineo questo aspetto del visivo come praticabile, perché è il “concetto” del politecnico come proprietà del luogo urbano socialmente praticato da chiunque. Ovviamente il tempo catturato si ripete , restando unico ogni volta. Anzi il problema di questa ripetizione che resta unica ogni volta benchè si ripeta, diviene tale il problema. Non voglio però anticipare ed appiattire.Già tanto ho appiatito e omologato. I quaranta anni che decorsero dal momento in cui, uscito di casa a passeggio, Amedeo vide un cartello su di un portone nella via di Roma che percorreva, ed in cui scoprì la fabbrica in cui “tutti” gli atelier d’arte potevano convivere interagendo e offrendo al pubblico del quartiere, globalmente inteso come cittadinanza virtuale onnicomprensiva, ore di interazione condivisa, (com’è consumata la parola cultura) furono vissuti al vero , nell’irripetibilità di ogni volta .
Quelle che ora ci occorre rievocare per dire che avvennero. Non nell’allora della memoria, ma per l’ora che stiamo vivendo come “replica” non eguale. Presente che vale la pena di memorizzare come quello d’allora


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