Da lat. casa “capanna”; fr. maison; sp. casa; ted. haus; ingl. house. E’ una costruzione elevata dall’uomo a scopo di abitazione, diversa nel materiale, nelle proporzioni o nella disposizione degli ambienti, nell’ornamento esterno come nell’arredamento interno, a seconda delle epoche e dei popoli e a seconda della classe di abitatori per cui è costruita.
Voce Casa in “Enciclopedia italiana”, 1931
Questo Filosofia della casa di Emanuele Coccia[1] è costituito da una serie di riflessioni su spazi e cose della casa, scandite dai capitoli che attraversano le stanze, gli arredi e le suppellettili della casa (bagni, cucine, camere, corridoi, armadi…) e ricordi e pensieri sulle emozioni, gli affetti, le relazioni umane, i turbamenti che in quella casa hanno abitato (gli amori, i fratelli, gli animali domestici…). Il libro traccia una mappa di pensiero attraverso cui è dispiegata ed esposta la casa, che per l’autore è ”la realtà morale per eccellenza: un artefatto psichico e materiale che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ce lo permetta”[2]. Coccia parte dalla dimensione dell’abitare quotidiano e della vita domestica, innalzando poi la riflessione e il pensiero alle implicazioni psichiche di questo vivere nelle case, nei loro spazi e con le loro cose: “Una casa è questo: un primo e mai definitivo abbozzo di sovrapposizione tra la nostra beatitudine morale e il mondo”.[3]
La memoria corre al Bachelard della Poetica dello spazio, alla rêverie del filosofo francese sull’intimità dello spazio domestico in cui ”ogni angolo in una casa, ogni cantone in una camera, ogni spazio ridotto in cui piace andare a rannicchiarsi, a raccogliersi su se stessi, è per l’immaginazione, una solitudine, vale a dire il germe di una camera, il germe di una casa.” [4] ; “La casa è un corpus di immagini che forniscono all’uomo ragioni o illusioni di stabilità: distinguere tutte queste immagini, dal momento che incessantemente si reimmagina la propria realtà, vorrebbe dire svelare l’anima della casa, sviluppare una vera e propria psicologia della casa.”[5]
La riflessione si sofferma in più punti sul rapporto tra la città e la casa, tra l’adunanza delle case e l’elemento costituivo di quella adunanza stessa, l’abitazione, meglio, la casa. Nell’introduzione è chiaramente espresso l’intento di ritrovare un pensiero sulla casa, coscienti che la filosofia ha sempre privilegiato la città, la polis: “Ma sotto, dentro, dietro la città c’è sempre una casa che ci permette di viverci. La vita che prova a coincidere con lo spazio urbano, è destinata a morire.”[6].
Per avviare il racconto sulla casa, il testo apre con il “trasloco”, il momento in cui la nuova casa comincia ad avvolgere il nuovo abitante che deve sciogliere i legami con i vecchi spazi e la vecchia vita, raccolta negli scatoloni, e ritrovare una nuova intimità, un nuovo legame col mondo e con il proprio io. Perché la casa, ogni casa in cui depositiamo noi stessi per i giorni, non è altro che un dispositivo, “un aggregato di tecniche di adeguazione” tra noi e il mondo, “una piega cosmica che fa coincidere per un attimo psiche e materia, anima e mondo”[7].
Pensare la casa allora significa, da un lato, pensare al riparo, ai miti originari dell’abitare, alla capanna di Laugier, e dall’altro ci connette immediatamente alla dimensione psichica del nostro vivere, a un adattamento al mondo che è anche intimità, cura dell’anima, spirito…[8] Bagni e cucine rappresentano al meglio questa essenza duale in quanto spazi domestici che racchiudono un’alta densità di apparati tecnologici, che ci offrono agio “adeguando” materialmente noi al mondo, offrendo risposte quotidiane alla vita; al contempo si aprono alla nostra dimensione più intima, al corpo, alla cura, al piacere e alla relazione con noi stessi e con gli altri.
Non c’è dubbio “che lo spazio domestico non ha una natura euclidea”[9], che la casa, in quanto involucro, geometria solida, è un luogo assolutamente inabitabile, astratto: sono le cose, gli oggetti che ci ospitano, che intrattengono con il nostro corpo le relazioni, a mediare distanziandoci dalle nude pareti dell’involucro, a dare un senso all’abitare. Una casa esiste solo nel rapporto con i corpi che la vivono e vivere una casa assume i contorni di una conquista paziente, di una modellazione. “Si potrebbe riassumere tutto questo dicendo che l’operazione che sottende ogni abitazione è la metamorfosi dello spazio in luogo.”[10].
Nel “perturbante” racconto di Hoffmann: “I muri, secondo le sue istruzioni, furono eretti da muratori senza porte né finestre giusto all’altezza indicata dal committente. (…) A quel punto il consigliere prese a comportarsi in modo strano: camminava avanti e indietro nel giardino e si avvicinava alla casa da ogni direzione finché, grazie a questa complicata triangolazione, ‘trovò’ il posto giusto per la porta e ordinò che venisse aperta nella pietra. Una volta entrato in casa, determinò con lo stesso metodo finestre e tramezzi, decidendone in modo apparentemente spontaneo posizione e misure. La casa a quel punto fu terminata. (…) Il risultato di tutte queste manovre fu uno spettacolo a vedersi – non c’erano due finestre uguali!… All’interno, invece, la casa era arredata in modo da dare un senso di comodità assolutamente particolare”.[11] La città si contrappone, per sua nascita ed essenza, allo spazio selvaggio, alla foresta; essa nasce e cresce con l’affermazione dell’agricoltura, con quella natura addomesticata e resa produttiva, anche di forme e luoghi, dalle comunità umane: la città ne conserva, accumula e commercia i prodotti, li trasforma e produce cibo… Il giardino, luogo modellato, curato e abitato dall’uomo per la vita e per il piacere, esiste solo in funzione della casa di cui rappresenta il necessario completamento: “L’Eden non era una foresta selvaggia. Un giardino di cui l’uomo doveva aver cura, che doveva ‘coltivare e pulire’, presuppone una disposizione ordinata delle piante in aiuole e terrazze. In mezzo alle file degli alberi e alle aiuole dei fiori ci doveva essere il posto per camminare, per sedere e conversare. Probabilmente i frutti degli alberi erano abbastanza variati da soddisfare ogni desiderio umano, o per lo meno adamitico, di varietà; e probabilmente tra le capacità di Adamo non c’era quella di ottenere la fermentazione; tuttavia, se nel giardino veniva prodotto qualcosa di simile al vino, ciò suggerirebbe l’esistenza di brocche e di coppe, che a loro volta sottintendono scorte e credenze, su su fino alle camere, alle dispense e altre cose del genere: di fatto, una casa. Un giardino senza una casa è come un carro senza cavallo.” [12] Allora si può anche dire che “la città è un’emanazione del giardino”[13], ovvero l’antitesi della natura selvatica e il prodotto della natura sottomessa dall’uomo alle sue necessità produttive e sociali.
La città stessa si è poi fatta foresta selvaggia, offrendosi alla mano pesante dell’urbanista. che procede disboscando, aprendo varchi, dando luce e salubrità ai nuovi abitanti della città borghese, cacciando classi e gruppi sociali “pericolosi” nei sobborghi. “Ci vorrebbe un Le Nôtre!” sostiene l’abate Laugier dopo aver assimilato la città d’ancient regime a una foresta. Questa riduzione della città a evento naturale, privo di spessore storico e umano, ha reso teoricamente e operativamente possibile i grands travaux parigini del barone Hausmann, il quale opera come se si trattasse di far luce e nuovo spazio in un’intricata e inospitale foresta.
Il tema del rapporto tra la città e la natura, visto nella chiave di una relazione necessaria all’abitare, al di là dell’aspetto produttivo, si pone qui in tutta la sua complessità, certamente distante da visioni “romantiche”, in cui ci si immagina di tornare a vivere immersi in una natura selvaggia. Appare complesso anche rifarsi estensivamente a soluzioni ingegneristiche che tentano di associare l’abitare in un manufatto urbano per eccellenza – la torre, il grattacielo –, con il bosco. Seguendo tali suggestioni, si deve pensare e riconoscere questo rapporto tra la casa e il giardino, dentro l’orizzonte urbano, a partire dall’idea che è stata “l’ossessione per i giardini che ci ha permesso di organizzare le case in città. I giardini non sono mai l’opposto del tessuto urbano, sono il suo nucleo originario”[14].
La modernità, osserva Emanuele Coccia è “iniziata strappando all’oikos antico la produzione: trasformando la produzione di ricchezza in affare pubblico, politico.”[15]; “ se il lavoro è divenuto assieme il fondamento e il centro della città, la casa – liberatasi della necessità di essere luogo della produzione – è diventata invece il tempio dell’amore, della relazione quotidiana e simbiotica con una persona.”[16]. Sotto questo aspetto l’#iorestoacasa pandemico fa compiere un ulteriore passo verso la crisi della modernità, delle sue città e delle sue case. Ma tutto ciò è iniziato prima. Con il confinamento, in molte case, il lavoro è tornato a contendere spazi e attrezzature all’intimità domestica, ma le città in cui gli spazi urbani si sono svuotati e la funzione relazionale è stata assunta dai dispositivi di rete e importate nello spazio domestico, sono senz’altro antecedenti i vari lockdown della pandemia.
Si tratta a ben vedere di un ulteriore passo in avanti rispetto a quanto già accaduto con il superamento del sistema di produzione imperniato sulla fabbrica, intesa quale congegno produttivo, sistema che ha strutturato la città – la Großstadt – e il territorio, investendoli con i suoi tempi e modi del lavoro, con i suoi dispositivi, strumenti e luoghi dell’abitare. E’ nella metropoli moderna che la casa si è venuta connotando come il luogo del non-lavoro. Ma questo rifugio privato vacilla in questa fase di trasformazione del sistema produttivo, che abbandona il modello della produzione di fabbrica per coinvolgere l’intero corpo urbano, sociale e umano nei processi di produzione e valorizzazione.
Produzione immateriale, sovrapposizione e superamento dei tempi di lavoro e di vita – “capitalismo 24/7” –, dimensione biopolitica del lavoro, affermazione della flessibilità e della precarietà, che informano il lavoro, il vivere e la produzione di spazio – dagli spazi di lavoro, allo spazio di relazione, sino allo spazio domestico, ai tempi quotidiani –: tutto ciò frantuma distinzioni e impianti urbani, penetrando nella casa rompendone la familiarità borghese, ma anche la dimensione dell’intimità necessaria alla vita. La “messa al lavoro della vita” comporta una nuova spazializzazione del sistema di produzione delle merci materiali e immateriali, che si sovrappone ai luoghi e li riconfigura, come già aveva fatto il sistema di fabbrica con le sue macchine produttive e territoriali, coinvolgendo la casa e colmando i “vuoti” temporali e spaziali della vita personale. Se il lavoro rientra nelle case, la casa stessa si fa mondo, in primis attraverso i dispositivi informatici, il mondo social digitale, “macchine psicomimetiche” grazie alle quali “la casa ha perso ogni determinazione spaziale e geografica, si è liberata della città, o meglio l’ha interiorizzata, e ha assunto dimensioni planetarie”[17]. Si tratta di capire se questo farsi mondo della casa rappresenta un’apertura, anche alla possibilità di pensare operativamente un abitare per tutti liberato da vincoli di ruolo, classe e genere, capace di riaprire i giochi anche per tutto ciò che non è centro urbano, i luoghi di margine, le “aree interne”, le “non più città” – per dirla con Rem Koolhaas[18] –, oppure segna una ulteriore chiusura, un ritorno alla dimensione del rifugio, iperconnesso virtualmente, ma chiuso alla relazione sociale, e il diffondersi di gentrificazioni, “città-vetrina” più o meno “smart”… fanno pensare a un processo contradditorio, complesso e, per molti aspetti, a un futuro inquietante.
Il libro di Emanuele Coccia è quindi un ampio racconto sulla casa, l’abitare, la città, con una narrazione coinvolgente, che ci offre parole, pensieri, riflessioni per ragionare su questi temi e sul loro modo di porsi nell’attualità, nel discorso pubblico e in quello delle discipline architettoniche e urbane.
[1] Emanuele Coccia, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi, Torino, 2021. L’autore è attualmente professore presso l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Ha all’attivo numerose pubblicazioni tra cui La trasparenza delle immagini. Averroè e l’Averroismo, Milano, Mondadori, 2005, successivamente, con Giorgio Agamben ha pubblicato Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Milano / Vicenza, Neripozza, 2009. Alcuni saggi sono stati pubblicati prima all’estero e quindi tradotti in italiano. Tra questi: La vita sensibile, Il Mulino, Bologna, 2011; Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, Il Mulino, Bologna, 2014; La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna, 2018. Non ancora tradotto in italiano Métamorphoses, Parigi, Rivages, 2020.
[2] Emanuele Coccia, op. cit., pag. 15
[3] Ibidem pag. 15
[4] Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975, pag. 159
[5] Ibidem pag. 45
[6] Emanuele Coccia, op.cit, pag. 6
[7] Ibidem pag. 16
[8] Tornando a Bachelard: “Così, la casa sognata deve avere tutto: deve essere, per largo che sia lo spazio, una capanna, un corpo di colomba, una crisalide. L’intimità ha bisogno del cuore di un nido.” Gaston Bachelard , op. cit., pag. 89
[9] Emanuele Coccia, op.cit. pag. 43
[10] Ibidem pag. 78
[11] E.T.A. Hoffmann, Il consigliere Krespel, in Anthony Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggio sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi, Torino, 2006, pgg 53-54
[12] Joseph Rykwert, La casa di Adamo in Paradiso, Adelphi, Milano, 1972, pag. 15
[13] Emanuele Coccia, op. cit. pag. 107
[14] Ibidem pagg. 107-108
[15] Ibidem pag. 124
[16] Ibidem pag. 25
[17] Ibidem pag. 87
[18] Rem Koolhaas, Testi sulla (non più) città, Quodlibet, Macerata, 2021