09/11/2022
Caro Ernesto,
ti mando questo articolo che ho scritto per Città del Messico per avviare un dialogo con te sulla teoria dell’architettura.
Ciao. Franco Purini
UNA NUOVA AVANGUARDIA. Note sulla condizione attuale dell’architettura.
Franco Purini
L’architettura dell’età della globalizzazione, l’età caratterizzata da un sistema geopolitico che sembra avviarsi al tramonto, è oggi dominante. Quasi tutte le riviste di architettura, tra le quali alcune tra le più prestigiose, che in anni recenti hanno svolto un importante ruolo nel leggere con attenzione e senza intenzioni propagandistiche le opere presenti nelle loro pagine; molti architetti e tanti storici e critici; un grande numero di semplici osservatori dell’architettura e anche un folto gruppo di suoi fruitori considerano la stagione del costruire come un periodo esaltante, avanzato, capace di rendere presente il futuro. Tutto ciò che non è classificabile come architettura della globalizzazione è ritenuto tradizionale, arretrato, non in grado di esprimere valori contemporanei e di raggiungere obbiettivi importanti. Da molti anni mi sono reso conto che questa opinione sull’architettura globale non corrisponde a quella che si ritiene una realtà innovativa, profetica, dotata di straordinari significati. Ciò che è stato realizzato nelle città e nelle metropoli nell’ultimo trentennio assomiglia molto all’architettura dell’Eclettismo, che negli ultimi anni dell’Ottocento, e fino ai primi del secolo successivo, ha trasformato tutte le città dell’Occidente e alcune dell’Oriente dando ad esse un’identità ibrida come in un esperanto, un mosaico incoerente di frammenti linguistici diversi. Da qui opere ibride, casuali, gratuite, prive di una loro necessità, espressa dall’idea Albertiana, che in una vera architettura non deve aggiungersi o togliere alcun elemento. Credo, quindi, che la vera avanguardia attuale non sia quella dell’architettura globale ma una concezione del costruire totalmente alternativa. Questa convinzione mi è stata suggerita da una constatazione che ritengo non sia possibile considerare inesatta o che sia solo il frutto di una concezione soggettiva. Tale convinzione consiste nel credere che l’architettura, nei suoi princìpi primi, che tra breve esporrò, e nei valori autentici che essi producono, siano invarianti. In breve, questi princìpi sono gli stessi da quando le comunità umane sono sorte. L’architettura condivide infatti la stessa nascita della preistoria. L’invarianza dei princìpi primi, però, si confronta contestualmente con i cambiamenti sociali, culturali, produttivi, tecnici che si susseguono costantemente nel tempo. Da ciò una contraddizione endemica del costruire, che ha un determinante e continuo effetto positivo. Per un verso i princìpi primi esprimono sempre una stessa azione umana, che serve a definire l’abitare in tutta la sua ampiezza; per l’altro i modi di dare utilità, consistenza strutturale e forma agli interventi sul paesaggio-territorio-ambiente, la città e l’architettura cambiano costantemente. È un compito essenziale per l’architetto tenere presente questa dualità concettuale conferendo ad essa una rappresentazione unitaria che sia una mediazione concreta e insieme poetica tra queste due condizioni.
Sulle avanguardie è utile soffermarsi brevemente per definirne alcuni aspetti. Va chiarito prima di tutto che esse sono altrettante rivoluzioni, che mettono in discussione saperi, convinzioni, modi di procedere, tipi di scritture, scoperte e affermazioni di visioni inedite. Inoltre, e ciò non deve sorprenderci, esse traggono dal passato elementi determinanti assieme a elementi nuovi. L’Umanesimo e il Rinascimento sono state rivoluzioni rispetto al Medio Evo, che a sua volta aveva vissuto il Gotico come una reazione al mondo classico. Il Manierismo trasformò il Rinascimento favorendo la nascita del barocco, che ebbe una continuazione nel Rococò. Il Neoclassicismo si era configurato come un’ennesima avanguardia che nell’età illuminista rivoluzionerà le arti. A suo modo anche l’Eclettismo rappresentò una avanguardia, travolta prima dall’Art Nouveau, che aprì la strada al Modernismo, e poi dalle varie avanguardie del Novecento. In sintesi, si può affermare che queste rivoluzioni seriali sono state altrettante avanguardie nutrite in gran parte dalla ripresa di visioni precedenti riportate spesso in una forma reinventata, come accade al movimento al quale dettero vita il gruppo dei Five Architects negli Anni Settanta, che aveva riscoperto il linguaggio architettonico tra il razionalismo, la scrittura spaziale di Le Corbusier e De Stijl.
Prima di inoltrarmi nell’argomento al centro di questo scritto credo sia necessario chiarire alcuni aspetti conoscitivi e interpretativi che sono alla base della mia riflessione, che per la natura dell’argomento stesso è piuttosto complessa e accidentata. La prima considerazione che accompagna il mio discorso è l’impossibilità di comprendere la città nella sua estensione tematica. Sono infatti molti i saperi che si confrontano con essa. Ne elencherò alcuni scusandomi perché incorrerò sicuramente in qualche indesiderata omissione. La filosofia, le religioni, la climatologia, la sociologia, l’economia, l’antropologia, la botanica, la medicina, la fisica, la statistica, la politica, l’ingegneria ambientale, la geologia, l’astronomia, la geografia, la legislazione sono alcuni dei saperi sulla città. A questi vanno aggiunti altri come la storia, la letteratura, la poesia, i media senza dimenticare la scienza dei flussi, l’organizzazione dei trasporti, le infrastrutture, il sistema idrografico, l’industria nelle sue varie articolazioni. Pensare di pervenire a una sintesi tra questi saperi è molto lontano dal realizzarsi. Claude Levi-Strauss ha definito la città come “la cosa umana per eccellenza”, ma un suo significato che ne racconti strutture, forme e finalità non mi sembra ancora individuato. Per questo motivo sono convinto che ciò a cui possiamo pervenire è solo una conoscenza parziale e transitoria dell’organismo territoriale e urbano. Da qui l’insuperabile limite all’urbanistica, proiettata su tempi lunghi e all’opposto la positività dell’architettura, che si progetta e si realizza in tempi relativamente brevi. La seconda considerazione consiste nel chiedersi se le città hanno un progetto di esistenza, una costante finalità o se esse evolvono per eventi casuali. Forse entrambi i processi vitali delle città possono fondersi in particolari situazioni temporali. È probabilmente più conveniente non dover scegliere tra le due prospettive, l’intenzione di rendere reale i suoi obbiettivi storici, l’adeguamento a ciò che accade ma rendersi conto dell’interazione tra la volontà urbana di realizzare la visione del proprio futuro e l’incidentalità delle occasioni positive e negative che seguono con continuità la vita della città. La terza considerazione, discendente dalla seconda, consiste nel decifrare il carattere di una città, inteso come una sua categoria costante alla quale la storia, la letteratura e le arti permettono di avvicinarsi anche se tale categoria rimarrà in gran parte inspiegabile. Questa riflessione tende nel suo insieme a una sintesi che se non ci è dato formulare consente a noi di intuire la presenza di un’area di significati. Si tratta di un indizio che a suo modo ci rivela qualcosa di importante e di duraturo. Forse solo il progetto urbano, espresso da architetture sintonizzate con la città, può darci qualche segnale sul futuro che vada oltre questo misterioso e felice avvertimento.
Per quanto riguarda l’architettura della globalizzazione è necessario elencare alcuni caratteri che la rendono riconoscibile. Il primo è un neo funzionalismo radicale, che privilegia l’analisi degli usi che le singole parti dell’edificio devono accogliere. La preminenza della funzione sugli altri elementi di una architettura è un’eredità della Bauhaus gropiusiana, che secondo me è stata una scelta, tra materialismo e praticità, non proprio positiva. Il secondo carattere è una concezione totalizzante della tecnologia, un termine che ha oscurato quello, più proprio, di tecnica, che da sempre preferisco. La differenza tra le due parole consiste nel fatto che la prima, la più recente, afferma un primato conoscitivo considerato come una sorta di sapere misterico che solo pochi conoscono, mentre la seconda indica le modalità ordinative, organizzative e le azioni concrete del costruire con le quali si ottiene il risultato che ci si aspetta. Il contenuto della tecnologia, se quanto ho detto è corretto, sarebbe allora l’esistenza di un plusvalore che il discorso sulla tecnica produce rispetto alla tecnica stessa. La tecnologia è quindi una tecnica aumentata, se così si può dire, uno stato superiore della dimensione concreta del fare. Il terzo carattere dell’architettura globale è la scomparsa nel costruire della fondamentale relazione tra città e architettura che comporta le due ulteriori cancellazioni del rapporto tra analisi urbana e progetto architettonico e della relazione primaria tra tipologia e morfologia. In breve, gli studi urbani sono ormai quasi del tutto assenti nelle Facoltà di Architettura ma anche nella professione. Strettamente legato al precedente carattere è la negazione di luoghi a favore di una disseminazione casuale di edifici. I luoghi sono il risultato della dialettica tra sito e storia, sono archivi della memoria, ambiti narrativi di vicende insediative, esiti di interpretazioni complesse e spesso formalmente prestigiose del suolo in una sua trasformazione plastica che è sempre compresa e interpretata soggettivamente. Il quinto carattere si riconosce nell’eccessiva importanza della comunicazione nell’architettura. Il paesaggio, la città e gli edifici seriali o speciali che essa ospita hanno sempre comunicato qualcosa ma ciò che esprimevano, quasi in un messaggio parlato, era contenuto in limiti appropriati che non coinvolgevano la totalità e l’unicità dell’opera. L’età dei mass media ha cambiato profondamente l’idea di edificio come un’entità che non dialoga più con altre architetture ma è soprattutto di un messaggio che riguarda o il consumo o la celebrazione di un’industria di cui diventa una vistosa pubblicità urbana. Ogni edificio vuole presentarsi oggi come un’entità del tutto diversa dalle altre perché coinvolta in una competizione il cui risultato deve essere l’assolutezza della propria identità. Un esempio rivelatore dell’intenzionalità comunicativa dell’architettura è la veduta di Londra dal Tamigi verso la Cattedrale di Saint Paul di Christopher Wren, la cui preziosa monumentalità è sopraffatta da una selva di grattacieli i quali, dietro di essa, propongono lo sgradevole spettacolo di una sonora e continua discordia architettonica. Un insieme di torri quasi sempre bizzarre, anti-tipologiche, ugualmente spettacolari producono un insieme caotico, estraneo alla città, dove gli edifici combattono l’uno contro l’altro per affermare la loro presenza. Se si confronta questa veduta con quella, di più di due secoli fa, del Canaletto, si comprende bene quanto si sia definitivamente perduto. Nessuna relazione lega in un insieme coerente i grattacieli, fantasmi celibi, si potrebbe dire. Il sesto carattere consiste in una negazione radicale del rapporto tra tettonica e architettura, che è il luogo nativo di un autentico linguaggio architettonico. Il settimo si identifica nel non considerare più come un valore la forma urbis, in quanto rappresentante visibile della città, narrazione costante, individuale e collettiva, della sua vicenda umana. Attraverso una distribuzione delle architetture, che non segue più gli orientamenti impliciti e espliciti, evidenti o misteriosi dell’evoluzione della città intesa nelle sue varie e intrecciate fasi temporali, si rifiuta di fatto l’esistenza della città stessa come racconto incessante della comunità che l’abita. Le nuove parti urbane o quelle ricostruite nelle aree abbandonate o soggette recentemente a demolizioni non sono solidali tra loro ma coinvolte da un conflitto permanente. La forma urbis è l’espressione dell’antica cultura romana della morfologia di una città ma è anche qualcosa di più. Mentre la parola morfologia, coniata da Johann Wolfgang Goethe in relazione alle scienze naturali e poi adottata dagli architetti, descrive strutturalmente la città, l’antica dizione forma urbis ne rivela l’essenza, i simboli che la animano, la sua mitizzazione, i suoi lati nascosti, le regole armoniche o dissonanti che la generano. La città globale non è più una vera realtà urbana ma l’accostamento di autonome zolle edilizie le quali, invece di costruire un’armonica unità insediativa, si fronteggiano ostentando la propria inconfondibilità con le altre in un gioco, più che rischioso, inutile, sgradevole, effimero.
I princìpi primi che costituiscono l’essenza dell’architettura, dal suo apparire assieme alle prime comunità umane fino a oggi, sono stati negli ultimi anni, come ho già detto, accantonati come un’eredità considerata ormai da dimenticare. L’architettura della globalizzazione li ha, in pratica, cancellati. Il primo di questi princìpi è il rapporto organico tra paesaggio-territorio-ambiente, le città e le architetture. L’abitare è l’ambito che comprende queste tre scale di intervento. Un ambito non solo fisico ma anche narrativo, denso di memorie, nel quale avviene una sublimazione misteriosa dei suoi contenuti fisici, i quali acquistano una dimensione mitologica e un’essenza che procede dalla utilitas alla comprensione intellettuale e infine alla sfera dello spirito. Il secondo principio primo è la relazione, armonica o dissonante, tra tettonica e architettura, una dialettica tra carichi e sostegni, come afferma il filosofo Arthur Schopenhauer, che è uno spazio concettuale ed esclusivo dell’architettura, il solo dal quale può nascere il linguaggio autentico del costruire. Il terzo principio è la creazione o il rinnovamento dei luoghi da parte dell’architettura. Il luogo è l’esito del rapporto tra il sito e la storia, un rapporto profondo e, usando un aggettivo amato da Le Corbusier, indicibile. I luoghi sono i nodi centrali dell’abitare, nei quali i suoi significati si esaltano totalizzando ed elevando il valore di ciò che li circonda. Dai luoghi emana infatti un’energia artistica che trasfigura il costruito idealizzandolo, donando inoltre ad esso una permanenza costante nel tempo. Il quarto principio prescrive che ogni scelta progettuale deve corrispondere a una necessità superiore. L’essenza di un’architettura è nello stesso tempo il fine, da rendere evidente, del pensarla senza alcuna aggiunta o sottrazione e insieme il risultato di un processo compositivo nel quale tale necessità si esprime nell’esporre l’idea di Mies van der Rohe che “il meno è il più”. Nell’architettura la necessità non coinvolge solo il piano economico e quello costruttivo, limitando ad esempio qualsiasi aggiunta inutile all’edificio, ma afferma che un’opera architettonica sia soltanto ciò che essa deve essere. La necessità è quindi, in prima istanza, una finalità superiore. Il quinto principio riguarda il dovere che un edificio ha di rappresentare l’istituzione che esso accoglie, come ci ha ricordato, e continua a ricordarci, Louis Isadore Kahn. Da qui un’idea della tipologia non tanto come una categoria classificatoria, ma come espressione del significato architettonico che una particolare attività umana che si compie in un edificio. In breve, un’architettura si comprende attraverso tre letture. La prima è di natura pratica, riguardando usi e modalità costruttive; la seconda è un’interpretazione intellettuale attraverso la quale si può constatare quale sia il suo contributo nello spazio urbano e il suo valore secondo la comunità che ne hanno desiderato la presenza nella città; la terza è il suo significato spirituale. Un valore che non si riesce a comprendere ma il quale, una volta che sappiamo della sua esistenza, anche se rimarrà incomprensibile, sarà per noi un dono straordinario. La bellezza di un’architettura consiste proprio nella coscienza che essa è con noi, come un dono prezioso, anche se è difficile, se non impossibile, decifrarla del tutto. Un’ultima considerazione su quanto detto in questo paragrafo. Come è un dovere, ormai da tutti o quasi condiviso, conservare la biodiversità, è altrettanto necessario che i linguaggi architettonici siano in sintonia con la cultura dei loro Paesi, che danno vita alla globalizzazione. Una condizione, per inciso, che credo abbia esaurito il suo ciclo primario o forse la sua fase finale. Occorre infatti che la storia dei luoghi riprenda a rendere più vive e autenticamente espressive le architetture, da tempo un tramite misterioso e umanamente poetico tra il passato e il futuro. Un tramite che vive e vivrà sempre nel presente.
Con l’eclisse, che spero non sia definitiva, dei princìpi primi si è perduto il significato dell’abitare che ho sintetizzato in un passo del paragrafo precedente. Alla diffusa convinzione che l’architettura attuale sia molto avanzata per mezzo soprattutto del digitale, oggi considerato non solo un sapere mitizzato ma una vera e propria religione, va secondo me sostituito un orientamento militante che riaffermi la presenza dei princìpi primi e assieme a essi il valore umano dell’abitare espresso da una bellezza dell’architettura che non sia né l’eleganza, ovvero il risultato di una buona esecuzione, la ricchezza e la nobiltà dei materiali né gli esiti formali, gratuiti o casuali, tratti da altre arti ma soprattutto dall’industrial design. Come ho già detto la vera bellezza dell’architettura è una forma assoluta raggiunta all’interno della dialettica tra la struttura e il suo essere coerente con la modellazione plastica del volume e con la giusta consistenza dei materiali. Il tutto risolto in una composizione che sia consapevole di sé e al contempo portatrice di contenuti misteriosi i quali, anche se incomprensibili, ci emozionano. Riproporre i princìpi primi e la totalità dell’abitare inteso come un grande testo poetico sulle comunità umane, carico nel presente di memorie e di proiezioni nel futuro, è un atto rivoluzionario il quale, sovvertendo l’attuale soggezione dell’architettura alle logiche del mercato, riveli ancora una volta che cosa deve essere per noi il costruire. Ripeto che questa posizione non è rivolta al passato ma è un impegno rivolto al futuro quanto mai urgente. A chi pensa che ciò che sto proponendo riflette un’idea tradizionalista dell’architettura voglio chiarire che è una mia convinzione, elaborata da molti anni, che occorra oggi una nuova avanguardia che riaffermi la verità dell’architettura, la sua autentica ratio, la vitruviana ragion d’essere contro l’attuale deriva che nega i reali fondamenti del costruire a favore di velleitarie sperimentazioni, del tutto autoreferenziali. Come in ogni attività creativa è necessario che un autore abbia un linguaggio personale, riconoscibile, autografico, ma esso deve fondersi su basi condivise espresse da selezioni genetiche tra gli elementi di un’architettura. In breve, un’architettura deve inventarsi un proprio lessico ma al contempo deve farsi comprendere dal maggior numero di persone che conosceranno o abiteranno una sua opera.
Un aspetto dell’architettura della globalizzazione che riguarda l’insegnamento si riconosce nel non considerare più il sapere relativo al costruire un’entità unitaria. Tale sapere è ritenuto da qualche decennio un insieme di discipline separate, autonome, specialistiche. Ciò ha frammentato l’idea di architettura togliendo ad essa la sua vera essenza. Contemporaneamente non si crede più al costruire come un’arte che esprime la natura e il senso dell’abitare. La bellezza di cui ha parlato Vitruvio è cambiata spesso nel corso della storia dell’architettura. La bellezza degli edifici del Rinascimento non è quella del Barocco come non è quella del Neoclassicismo. La modernità ha riconfermato il concetto di bello attraverso la molteplicità dei suoi aspetti attraversata da una enigmatica concettualità, così come era stato modificato dal Romanticismo, che aveva aggiunto a ciò che era considerato bello il suo contrario. Attualmente la bellezza, ovvero la forma architettonica, ha assunto nuovi aspetti, ma il suo scaturire dalla grammatica e dalla sintassi del costruire è ancora il suo ambito nativo. La bellezza dell’architettura, come ho già detto, non deve ridursi semplicemente al ben fatto tecnicamente, alle capacità comunicativamente mediatiche e alla correttezza logica ma è qualcosa di cui si riconosce la presenza e al contempo di inaccessibile, una realtà duplice che ci introduce in una condizione di sorpresa, di attesa di scoperte promesse, di armonia con il mondo, di potenziale comprensione della sfera del trascendente e dell’atemporale. Una bellezza che è inoltre in grado di rigenerarsi e per questo capace di essere attuale stagione dopo stagione. Le architetture di Palladio sono una prova insuperabile di questo essere il costruire, quando è ciò che vuole veramente essere, al di là del tempo.
Avviandomi alla conclusione di queste considerazioni penso che un architetto debba inventarsi un linguaggio personale, una sua scrittura, prima di progettare. Va considerata però una importante contraddizione. Individuato uno stile personale, usando un termine che non si usa più, il lessico che ci si è dati deve essere, come ho già detto, ma come purtroppo non si vuole accettare, comprensibile per tutti o, in modo più realistico, per molti. Questa contraddizione è vitale, positiva, rendendo l’opera non solo parlante invece che muta, seguendo una considerazione di Paul Valery, ma che canta, generando così un’armonia che è una forma della bellezza. Per fare il nostro mestiere occorre inoltre una costanza nella ricerca, più precisamente un’ossessione, che ovviamente va disciplinata, controllata, in qualche caso anche accelerata, nonché una concezione dell’architettura come una rappresentazione cosmica. Infine, i riferimenti che si scelgono non dovranno essere citati, vale a dire riportati nei propri progetti così come sono. Essi devono essere vissuti come precedenti sui quali fare un lavoro interpretativo trasformandoli in enunciati propri.
L’urgente esigenza di una nuova avanguardia che ricostruisca l’unità dell’architettura contro la sua attuale e dannosa separazione in più saperi richiede una riflessione teorica e operativa su vari problemi. Dobbiamo cercare di eliminare progressivamente l’omologazione dei linguaggi architettonici riscoprendo la feconda diversità e la coinvolgente autonomia delle singole culture del costruire, le quali devono senz’altro interagire anche includendo in loro l’influenza di lessici diversi ma restando sempre coscienti della propria identità. Occorre poi aumentare la sperimentazione senza imitare meccanicamente orientamenti lontani da quelli consueti. È anche necessario domandarsi che cosa sia oggi la durata in architettura, una concezione valida nel corso di millenni ma attualmente considerata una nozione superata, sostituita da un avvicendamento sempre più rapido di architetture sulle stesse parti di città o di modificazioni altrettanto continue e radicali di edifici anche di notevole qualità. Inoltre, va senza dubbio contenuto il dilagare sempre più imponente delle immagini che finisce con il loro auto-consumarsi dando così vita a una problematica età dell’effimero. L’idea che l’architettura abbia una lunga durata è intrinseca alla natura del costruire anche se un edificio può avere una vita breve. In sintesi, la durata è un aspetto concettuale del costruire stesso che può non corrispondere a una vera continuità di un’architettura che può essere distrutta o demolita. Resta così, quasi sempre autentica la possibilità di ciascuna opera architettonica di conservarsi nel tempo, ovviamente ricorrendo alle necessarie manutenzioni. Infine, non si può non riformulare un elenco ragionato sui linguaggi nei quali la creatività è un elemento centrale. In effetti non è più chiaro cosa siano le arti, la cui moltiplicazione è oggi impressionante, così come le forme letterarie o il cinema. Il tutto in dualità come il materiale e l’ideale, il reale e il virtuale, il complesso e il semplice, l’esistente e l’inesistente, il vero e l’inverosimile. Un ulteriore aspetto al quale l’avanguardia di cui sto delineando il campo problematico potrebbe dare un significato nuovo è quello della morfologia. Essa è stata sostituita nella città moderna da un’informalità che non per questo è priva di valori strutturali, di rapporti con il paesaggio, di relazioni fondative, di espressioni artistiche. Valori che oggi non sono riconosciuti o del tutto dimenticati, anche se essi, nella città sono ancora presenti e operanti. Occorre per questo riscrivere la tematica morfologica alla luce dei nuovi e numerosi caratteri che stanno definendo le città attuali a partire dalla geografia artificiale delle infrastrutture. Forse è la psicogeografia, creata a partire da un’intuizione di Sigmund Freud descritta nel libro Il disagio della civiltà, e da un’altra del situazionista Guy Debord presente nel suo manifesto La società dello spettacolo, che con le sue derive può mostrarci l’invisibile urbano, la forma dell’informe, il lato segreto e inaccessibile dell’abitare.
Ho già accennato che non sono contrario alla sperimentazione, così come credo alla rivoluzione digitale, che però mi sembra procedere in modo così veloce da non consentire di abituarsi ai cambiamenti che essa produce. Non divido il passato dal presente e dal futuro ma ritengo che queste tre declinazioni del tempo debbano convivere. Ricordando Pier Paolo Pasolini sono per il “progresso” e non tanto per lo “sviluppo”. Penso anche che senza una tensione utopica e un’attitudine visionaria non si faccia un buon tratto di strada. Tornando al digitale, ho compreso da qualche anno che la diffusione del BIM (Building Information Modeling) sia non tanto un agile strumento, come ci si aspetterebbe ma un rito sacerdotale che costringe il progetto in una gabbia di soluzioni consolidate. Nell’universo digitale il comporre non sembra più un atto che discende dall’immaginazione del suo autore ma dal nucleo delle nozioni che il BIM propone. Il tutto nella implicita convinzione che oggi sia il virtuale il vero reale, mentre questo non è che il suo simulacro. Inoltre, che oggi abbia vinto l’omologazione linguistica causata da un discutibile esperanto non è una semplice opinione ma una realtà quanto mai evidente. Vivere la contraddizione tra la permanenza plurimillenaria dei princìpi primi dell’architettura con le mutevoli condizioni nelle quali essi vengono confermati è una scelta innovativa, avanzata e urgente la quale, oltre a una necessaria correzione del materialismo efficientista proprio del neofunzionalismo imperante e alla riduzione della dimensione ambientale ai suoi soli aspetti che stiamo vivendo notevoli e preoccupanti momenti critici, richiede chiarezza logica, una grande fiducia e un notevole coraggio. L’architettura come “sostanza di cose sperate”, ricordando Edoardo Persico, sicuramente sarà in grado di conservare, rinnovare e donare un’anima del nuovo all’abitare. Ciò che ho detto è rivolto sia a persone come me che stanno per concludere il proprio viaggio nell’architettura, sia, soprattutto, ai giovani architetti e agli studenti. Spetterà a loro decidere se costruire il loro percorso nell’architettura della globalizzazione o tornare alle origini, laddove l’energia creativa, la concezione della forma nascente, la totalità rivelatrice del progetto, sono ancora in grado di illuminare l’abitare e il suo futuro.
14/12/’22
Caro Franco,
mi preme procedere nel dialogo. Grazie.
Ho pensato di rispondere formulando domande su tre temi.
TRE DOMANDE PER UNA NUOVA AVANGUARDIA. Di Franco. 09/11/’22. Dalla risposta del 13 /12
Ernesto d’Alfonso
Occorre ripensare di nuovo la modernità. Cioè l’oggi.
Occorre motivare il titolo: Sostanza di cose sperate. perché?
Intitola, penso, un “manifesto” alla vecchia maniera!
Quanto a me, Ho cercato di caratterizzare il titolo così:
Sostanza di cose e cose sperate. Un binomio! Il possibile al mondo, perché lo si è saputo conoscere. Sperare di conseguirlo perché si crede occorra, non tanto e solo a noi.
Soprattutto, sperare di poterlo conoscere. Davvero. Di nuovo.
Davvero di nuovo, mi costrinse a pensare l’architettura in una prospettiva inedita almeno per me, quella della modernità. Del cambio di paradigma cui ci costringe la nozione degli spazitempi anumani particellari, dei campi energetici, delle onde. Di cui ci riferisce la scienza, dotandoci di tecnologie e relativi strumenti, oggi indispensabili alla vita. Di cui non possiamo più fare a meno ignoranti o sapienti che siamo. Cfr il telefono cellulare. Insomma, con il modo anumano d’essere dello spazio dobbiamo confrontarci e pensare a fondo il tempospazio che incorporiamo.
Annoto in aggiunta che continuità e discontinuità entrarono in una contesa drammatica. Ho cercato a mio modo di affrontare il conflitto. A suo tempo te ne accorgesti e facesti la critica al primo numero di Arc alla fine del secolo scorso alla tua maniera. Che ho apprezzato e nello stesso tempo respinto.
Oggi mi pare cambiata aria. Anche tu vedi l’impossibilità dell’assenza di storia. Benché il ricambio delle generazioni reclami che il passato non pregiudichi il loro futuro. Giovinezza e vecchiaia. Verità d’essere gli uomini che siamo. Se però le azioni che facciamo, non contano nulla, cosa resta? Anche i più giovani capiscono che ciò che fanno deve contare! Ne sono venute altre due domande: cos’è la novità irriducibile al passato di ciò che chiamiamo “modernità”, cosa ne abbiamo capito? Cosa vuole dire rifiuto della storia, nell’impossibilità di rifiutare la storia?
Quanto a me qui sta la “necessità” di “ripensare cosa vuol dire “modernità” ovviamente di ieri e d’oggi. Un modo della modernità che il secolo scorso non ha saputo vedere. E che è entrata in crisi allo scadere del secondo millennio
Dunque, ripensare la modernità vuole anche dire ripensare la storia. Anche questo appartiene alla prima domanda. La storia è il m odo in cui di tempo in tempo ogni generazione ha pensato la propria modernità.
2° domanda. Procede dall’idea di umanesimo critico che si è delineata nella temperie del Novecento e del terzo millennio. Scontro irriducibile tra novità, utopia e continuità che sembra congenita alla storia. Dunque, cosa rifiutare? Può essere una scelta “non rifiutare”? certamente no! Invece scegliere tra incessante ricerca dell’utopia o culto della storia? La scelta tra quest’ultime due opzioni è non vera! Tale si è dimostrata nel trentennio scorso! Un vicolo cieco fomentatore di discordie futili! tra Renzi, Conte e Letta, siamo nelle mani di Meloni. Che si mostra attenta a non sbagliare in Europa, secondo l’esempio preclaro di chi sapeva non sbagliare, Draghi dico. E governerà, se sarà prudente, forse, 50 anni! Ahimè! Se ha senso dirlo. Forse non c’entra. In ogni caso, non vi è strada scegliendo tra apparenze opposte.
Per cominciare, dietro tante difficoltà e problemi, non dico luogo, ma campo d’azione umana. Infatti, questo è vero: costruiamo indefessamente il campo d’azione. Tale è la verità del nostro mestiere e arte. Ma la variazione è necessaria/utile alle accidentalità dell’esistenza, non al pensiero spesso costretto a non poter cambiare posizione di fronte alla realtà se non ne trova motivo. Tale posizione di stallo non si vince senza ricerca. Che forse chiede qualche generazione per trovare risposta. Ecco che entriamo in gioco come professore. Cioè scienziati della ricerca. Del come si persegue. Come fare a non smettere quando capita l’insuccesso apparentemente una disfatta. Come ricominciare. E non rinunciare. Questo è il compito? Ricerca della modernità. Ricerca per una nuova nozione? (prima parte della seconda domanda)
Ho detto campo d’azione invece di luogo. Per restare in sintonia con la domanda “cosa vuol dire modernità”. Come sospendere la storia non tradendone la necessità? Come cercare una strada ignota senza usare punti d’appoggio nel vissuto “del”, “nel” mondo? A noi tocca, penso, lavorare la storia degli autori e dei procedimenti. Verificando nelle opere la fertilità delle concezioni. E viceversa traendo dalle opere nuovi procedimenti che rivelano nuove concezioni. Da questo punto di vista la storia: la differenza/sinergia Brunelleschi/Alberti, la “camera” degli specchi “fotografica” e la geometria analitica. Questo va cercato a Firenze. Ma a Milano si deve cercare il rapporto tra scienza e arte. Nei tre autori Filarete, Bramante, Leonardo che illuminano il XV secolo a Milano va invece cercata l’origine del rapporto tra scienza ed arte. Umanesimo non è rinascimento. Non è Petrarca il padre. Dante, invece. Forse bisogna risalire ad allora per trovare il seme di questo conflitto tormentoso tra novità e continuità tra utopia e storia. Forse la domanda si palesò allora.
La Roma da studiare come città è seicentesca come esposto dalla carta del Nolli, il modello della città “moderna”. Prima di New York. Di Parigi e Londra, Berlino e Pietroburgo. I modelli della città premoderna cui si guardò tra settecento e ottocento. I secoli che inventarono la storia. Contro lo storicismo dei quali, s’inventò la modernità. La rivoluzione che brucia la storia. Si manifesta un altro modo di formulare la domanda: come può essere rivoluzione e storia? Dato che tale è ciò che i nostri occhi hanno visto? Dunque, la rivoluzione del Novecento è “storica”. Figlia della storia. Forse anche l’invenzione del disegno determinò una rivoluzione. Garin disse di una “rivoluzione epistemologica”. Nacque la scienza e l’esperimento con Galileo. Forse sintomo ne fu lo stato della chiesa, e i papi, Farnese e Borgia, (esempio Alessandro VI), il gallicanesimo, l’anglicanesimo, le chiese “nazionali”. Infine, riforma e controriforma. Il modello romano di Sisto V si affermò nel ‘500/’600 e fu documentato dalla carta del Nolli. Divenendo riferimento per la Francia e le altre capitali europee. Finchè Schinkel, non ignaro dei procedimenti di Durand, non impose il classicismo neogreco nel disegnare i “monumenti” della Berlino nei primi decenni dell’Ottocento (distrutti nella seconda guerra e oggi ricostruiti tali e quali in questi decenni d’inizio terzo millennio. Imponendo una domanda sul nesso incredibile rivoluzione, storia, identità.
Che trascina il nostro paese nel vicolo cieco dell’archeologia come condizione di futuro. Con questo terzo aspetto chiudo la seconda domanda.
La terza che si lega al campo d’azione in continua lavorazione per adeguarlo alle esigenze del presente, tra umanesimo e ricerca di prendersi cura della natura tra scienza ed arte sospendendo l’attenzione allo spazio tempo umano, solo metodologicamente intendo.
Quanto a noi architetti, non ha nessun senso sospendere l’attenzione allo spaziotempo umano. Né scienza, né arte possono aver luogo se non nel campo d’azione degli uomini. Dunque, il campo d’azione, ovviamente quello costruito secondo una concezione ed il conseguente processo progettuale, esecutivo, realizzativo, in cui gli strumenti del CAD giocano un ruolo essenziale proprio per questo terzo momento esecutivo. Evidentemente il campo d’azione è, bensì, costituito di edifici, esemplari di tipi edilizi. I quali, però sono diventati troppo sculture e poco strutturati nella città. Insomma, troppo griffati per essere portatori di icone globali (perciò chiamate non luoghi che non sono né ipermercati, né aeroporti) avulse dal doppio contesto circostante, quello “prossimo”, il contesto urbano circostante e il contesto remoto relativo, lo skyline/orizzonte. C’è troppa finanza/imprenditrice che chiede “rappresentazione” di sé e troppa politica che chiede “visibilità”. Non c’è morfologia urbana!
Dunque, la terza domanda riguarda la sintesi: il rapporto organico tra paesaggio/ambiente, città e architetture. Cioè tra tipologia e morfologia, il rapporto chiave locale, senza il quale nessuna opera costruita è, oggi, architettura. Manca loro la quadrirelazione ontologica. Non quella heideggeriana, ma quella architettonica che tutti sappiamo. E che l’opera globale oggi trascura, o meglio coinvolge solo parzialmente, giocando con lo skyline e dimenticando il contesto preesistente.
Come si può orientare concezione e progetto nella giusta direzione?
Non nel senso heideggeriano che propone una regressione letteraria. Ma nel senso architettonico che sa la globalità nella località. Cura del “pianeta”, come si dice oggi dietro la Thunbergh, già dimenticata, esige la cura locale che coinvolge le persone, che vivono “solo” il locale cioè dove sono, anche se sono confinate in veicoli, cfr. astronauti. Che se escono, escono in un “posto” circostante all’astronave cui sono fisicamente “legati”. E possono uscire solo perché qualcuno, che sta ben fermo al suo posto, è collegato a chi fa questa passeggiata interplanetaria. Anche per loro che si aspettano di tornare, la terra va curata senza posa da tutti e da ciascuno. Appunto nel rapporto organico nel quale ciascuno dei tre termini paesaggio, città, architettura riferisce come termini della nostra “disciplina” alla relazione “complessa” (quadrilaterale almeno: corpo/cosa manufatta e fondata nel sito e nell’orizzonte – intono prossimo _intorno remoto -).
Spero di non essere stato troppo ermetico!
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Aggiungo tre domande secche che forse preferivi:
1° Quale titolo al manifesto per una nuova avanguardia che si vuole “umanistica” e capace di non guardare a sé stessa ma alla cura del paesaggio/territorio/ambiente?
2° Quale “carattere” deve avere l’architettura che la nuova avanguardia deve saper concepire? Come conciliare le aspirazioni delle due generazioni che si confrontano sinergicamente nella scuola (o lo hanno fatto e si dedicano a pensare tale rapporto) la più giovane, ventenne, e la più vecchia settantenne (o ottantenne)? La prima portatrice di rivoluzione/utopia, la seconda sapiente della necessità della storia.
3° Quale fondamento ontologico, alla teoria architettonica proposta dalla nuova avanguardia? aggiungo se e come riferire il rapporto ambiente_paesaggio, città, opera d’architettura alla relazione quadrupla tra attore, tipi edilizi nel campo d’azione,_città, contesto locale in cui prevale l’esperienza tettonicovisiva, contesto remoto, la cui osservazione è rigorosamente visiva (immagine di skyline)? A partire dall’invenzione del disegno, anche la “veduta” ha valenza tettonica, altrimenti non vi sarebbe meccanica razionale, Essa va calcolata. Da qui il cad premessa al BIM. Anche questo secondo me è tema da sviluppare.
Di passaggio una mia curiosità: perchè usi il termine avanguardia? Ce ne può essere un altro o alla fine è quello giusto?
Ciao.
Ernesto
20/12/2022
Caro Ernesto, augurando buon Natale e buon anno a te e alla tua famiglia ti invio tre brevi risposte alle tue domande. Spero che siano comprensibili, almeno, per ora. Riguardo ai nostri argomenti penso che la modernità abbia negato i misteri ampliando più che notevolmente le visioni scientifiche, che per loro natura non sono verità assolute. Un abbraccio e a presto
Franco
1. Il senso della nuova avanguardia di cui ho parlato nel testo che ti ho inviato è piuttosto diverso da quello che è espresso dalle avanguardie storiche. In breve, tale dizione vuole dire che è necessario non tanto mettersi a capo di un movimento progressista – ciò che voleva significare quella parola-metafora militare – quanto riflettere su come ricostruire qualcosa che si è, per vari motivi, abbandonato. Ricordando Giuseppe Samonà, potrei definire la nuova avanguardia in architettura con le parole l’unità dell’architettonico o, sempre in ambito samonaniano, l’abitare umano come entità fisica. In effetti esso è l’insieme delle strutture fisse che formano il contesto artificiale che consente a una parte unitaria del paesaggio-ambiente-territorio la vita umana. Lavorerò ancora su questo titolo. Credo fermamente che ricomporre teoricamente e in modo operante l’idea di architettura nella sua totalità sia un problema primario.
2. Sono convinto che occorra considerare l’architettura come un aspetto centrale della vita umana, la quale, senza di essa, non esisterebbe. Il costruire ha la funzionalità come fine iniziale, la durata e la stabilità, come una seconda finalità e la bellezza, la terza finalità delle tre specificazioni della ratio vitruviana, come forma della sua idealizzazione. In più l’architettura è non solo l’essenza fisica della memoria della comunità, ma l’ambito concettuale in cui la comunità umana stessa prende coscienza di sé. Senza l’abitare non ci sarebbe la società ma neanche l’individuo da solo. In breve, neanche la storia potrebbe esistere senza l’abitare.
3. Il fondamento ontologico dell’abitare potrebbe consistere, al suo principio, in un elenco progressivo degli elementi che lo compongono. Secondo me si inizia con due elementi, un percorso e un riparo. Da ciò una serie di vie diverse e alcune derivazioni dal ricovero primario. Successivamente l’esigenza di funzioni comuni genera un certo numero di tipologie. Attraverso una ricognizione tassonomica non è difficile pervenire all’elenco che ho appena evocato, che ovviamente sarà molto più lungo. È chiaro che questo ordinamento delle strutture abitative deriva anche dal rapporto, conflittuale e/o concorde, tra individuo e comunità. Tale elenco esprime anche una gerarchia degli elementi nonché la volontà che esso sia descritto nei suoi numerosi aspetti, tra i quali la triplice definizione della parte unitaria del suolo di un abitare. Una parte descritta come paesaggio-territorio-ambiente, seguendo le teorie di Muratori e Caniggia. Da qui la morfologia, parola individuata da Goethe.
Franco Purini