Les bijoux discrets[1]
Appunti per una resistenza architettonica
L’opera di architettura è futile o utile?
Annose critiche all’architettura iconica, se asservita al capitale, mi sembrano spostare il problema e confondere le acque. La decadenza della ricerca formale entro logiche commerciali e mercantili non deve essere interpretata come il destino ineluttabile in cui è costretta l’opera di architettura. D’altra parte, spazi e oggetti non figurativi non possono essere l’univoca risposta all’accumulazione e alle acrobazie finanziarie, anzi rischiano di perdersi nelle aporie dell’utopia.
Credo che la forma sia neutra. Non è determinata da significati a priori. La sua autonomia non le consente di essere il referente di un’ideologia. Per questa ragione può essere usata. E, come può essere usata dal mercato, può essere usata come forma di resistenza al mercato. Forma, sintassi, astrazione sono a disposizione. Così come altre strategie progettuali. Non vedo perché debbano essere esclusiva di un degenerato spettacolo, nell’interpretazione debordiana[2], con scopi accumulativi. L’autonomia dell’architettura può essere usata laddove serve, è utile, laddove le dinamiche trasformative violente e rapaci della finanza globale distruggono territori e comunità.
Già esistono modalità di resistenza nell’urbano: penso a pratiche conservative (spesso tendenti a fenomeni di gentrification), occupatorie (occupy movement, MST e MTST, tactical urbanism… che devono purtroppo scontare una certa fragilità e temporaneità), progetti di micro-colonizzazione (micro-urbanism, agopuntura urbana, weak! architecture), progetti non-figurativi (weak city, stop city…). L’argomento è cruciale. Come enunciato perentoriamente nel numero 25 della rivista Log da François Roche[3], che lancia un appello al fine di stimolare il mondo del progetto sui temi della resilienza e della resistenza. E come da me rilevato nel numero prova della rivista ArcDueCittà, in cui definivo la contrapposizione apparente tra urban profit e urban not-for-profit, condizioni in realtà compresenti, anzi reciprocamente attive nelle dinamiche trasformative urbane contemporanee.
Rispetto alle esperienze citate, credo che, nell’affrontare il tema della resistenza alle aberrazioni indotte da certe forze dominanti o impellenti, il mondo del progetto non possa prescindere dall’uso di forma, sintassi e astrazione. Urge la ricerca e la sperimentazione di nuove forme architettoniche e urbane, basate sulla istallazione puntuale di oggetti costruiti (opere d’arte abitabili), a formare costellazioni, strutture formalizzate che siano presidi sia contro la distruzione creatrice definita da Harvey[4] sia contro l’informe e invivibile inurbamento spontaneo delle grandi masse in cerca di fortuna. Penso a punti (opere) di resistenza che, contro l’omologazione, la standardizzazione e l’appiattimento di ogni differenza e diversità che sta distruggendo la città contemporanea, consentano trasformazioni graduali e condivise, nelle quali le comunità possano riconoscersi e anzi contribuiscano a realizzare, in una logica di mutua difesa. Impendendo che queste stesse comunità vengano brutalmente sfrattate, che i loro insediamenti vengano rasi al suolo per consentire l’edificazione di quartieri modello costruiti e compravenduti a debito.
Les bijoux indiscrets di tafuriana memoria, letti nichilisticamente come futili, devono essere invece bijoux discrets, utili perché separati, distinti e discontinui ma al contempo esistenti e resistenti. Immagino una (f)utile (r)esistenza che permette all’architetto di operare al di fuori dell’onirismo dell’utopia e del mercantilismo della speculazione. Penso a opere di architettura che resistono, nella loro fisicità ed iconicità, separatezza e discontinuità, alla degenerazione trasformativa urbana e all’urgenza dell’inurbamento di massa, per far sì che la metropoli contemporanea torni ad essere luogo ospitale.
Per tornare alla domanda iniziale, futile e utile non si trovano quindi in contraddizione. Usare il futile in modo utile può sfocare il senso comune in cui si sono irrigidite queste parole, verso nuove possibilità di significato, pensiero e d’azione, per il bene comune. L’opera di architettura… futile e utile.
Ringrazio Elisa Cristiana Cattaneo, Ernesto d’Alfonso e Peter Eisenman per l’aiuto nella definizione di questo tema.
Note:
- Les bijoux indiscrets è il primo romanzo di Denis Diderot, pubblicato nel 1748. Manfredo Tafuri ha utilizzato lo stesso titolo per il suo saggio che apre il catalogo della mostra Five Architects NY, Officina Edizioni, tenuta a Napoli nel 1976.
- Guy Debord, La Société du spectacle, Èditions Buchet-Chastel, Parigi, 1967. Disponibile on-line tradotto in italiano al link: http://fc.retecivica.milano.it/~roberto.dicorato/Debord/indice.html
- François Roche (guest editor), LOG#25 Reclaim Resistance/Resilience, New York, Summer 2012.
- Si vedano sia David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2012 sia David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011.
6 comments
Domenico Prisco says:
Ott 11, 2012
D’accordissimo, c’è bisogno di innovazione e di ricerca architettonica, di nuove forme e concetti attorno alle quali girino, però attenzione a non “lasciarsi prendere la mano” se tutti costruissimo “opere d’arte abitabili” non si correrebbe il rischio di far perdere quella identità propria alle città!!?……mi riferisco al cosiddetto “Genius Loci” che molti progettisti ignorano totalmente piazzando in un qualsiasi posto l’oggetto di Design che non ha nulla a che fare con la cultura del luogo…….l’eterna lotta tra continuità storica delle forme ed evoluzione e rottura col passato …che poi mai vera rottura è!
Federico says:
Ott 11, 2012
Mi ricordo quando Peter Eisenman nella presentazione della ristampa dell’Architettura della Città di Aldo Rossi definiva Milano e i suoi processi di costruzione selvaggia a Repubblica-Garibaldi con l’appellativo di “Late-Capital”.
Bisogna secondo me interrogarci su come sia possibile che un’area così grande e di enorme potenziale sia stata così aspramente brutalizzata.
Concordo in pieno sulla necessità di innovazione e ricerca, ma mi interrogo su dove sarebbe meglio concentrare gli sforzi, in un periodo dove è meglio fare poche cose ma buone, poichè per farne tante e buone non ci sono risorse.
Non è forse in luoghi e in scenari come questi citati in precedenza che andava costruita un’architettura Discreta per l’appunto?
Mi viene da pensare come forse dovremmo cercare e portare l’Utile nella pratica costruttiva ordinaria, dove penso sia più importante la vita vissuta, gli spazi, il calore di un camino e la direzione di una finestra, anche magari venendo meno a innovazione formale, per mettere invece le forze compositive nella definizione dei Nostri Monumenti, che possono invece peccare in comodità e utilità, risultando anche Futili, ma che rappresentano le idee più alte di un popolo e della sua storia.
Anni fa si costruiva il Duomo e la casa del Fascio.
Ora si cerca di grattare il cielo con un antenna posticcia.
Facciamoci delle domande e riprendiamo in mano la matita.
Daniele Mondiali says:
Ott 11, 2012
Penso che futile e utile intesi come estetica formale e funzione vadano considerati come doppiamente futili e/o doppiamente utili se il discorso viene ridotto ai minimi termini.
Ipotizziamo che la città sia il contenitore di fenomeni che ne determinano il mutamento. Paragonandola ad un essere vivente, essa, subisce un’evoluzione interna come se fosse composta da cellule, ossia entità organiche separate, incluse in un macro organismo che cresce e si modifica dal suo interno in maniera logica, autonoma e naturale.
In questo senso ogni architettura diventa una singola cellula, un evento che deve essere coordinato con altri perchè l’organismo funzioni ma mantenere la sua autonomia. L’insieme di queste entità concorre alla creazione di un “habitat” che non è solo quello domestico o del singolo manufatto architettonico ma di un connubio di persone, relazioni e spazi chiamato città.
Tornando al discorso iniziale la funzione appare quindi utile in quanto ogni spazio costruito,senza funzione ossia, inanimato rappresenta una perdita e un tumore per la città. La funzione intesa in senso stretto è futile in quanto è l’uso che viene fatto dello spazio che la determina non le categorie catastali e le ossessioni urbanistiche di regolamentazione.
Se parliamo di estetica invece “l’inutilità” data dalla sua natura effimera e dalla sua opinabilità è evidente ma il valore di questo “futile” va oltre il calcolo utilitaristico e il profitto al metro quadro.La percezione di uno spazio, sia esso interno o esterno, sono fattore determinante per la socialità e diventati spesso momento e motore di cambiamento, rinnovamento e recupero urbano di “luoghi senza scopo”.
Questo connubio di utile e futile è forse l’essenza stessa e la definizione di architettura.
Caterina Maria Carla Bona says:
Ott 11, 2012
“Niente e qualcosa”, l’architettura secondo Steven Holl in Parallax (citazione di John Cage, creatore della musica fatta col silenzio – il capolavoro “4’33””). L’architettura che non è edilizia. L’architettura che è fatta di spazio prima, e di metri quadri poi. Però sono proprio i metri quadri, il più delle volte, ad ostacolare le sperimentazioni che fanno ormai degli altri, e non del Belpaese, i territori dell’avanguardia architettonica: più innovativi, più contemporanei, più liberi. Normative obsolete e stratificate che condannano il nuovo, sommate ad un atteggiamento normativo e mentale altrettanto obsoleto nei confronti dell’intervento sul patrimonio esistente, forniscono una fotografia tristemente attuale del panorama contemporaneo. Resa per di più sfocata dal “Dio mercato”. “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile scatenare un tornado in Texas?”: altrove, questo sta succedendo. Piccoli organismi contemporanei stanno colonizzando contesti storici, endogeni od esogeni, poco importa: non è la forma che conta, ma il messaggio. Il virus sta dilagando. E’ una forma di resistenza sì, ma resistenza alla stasi diffusa, e che diviene quindi dinamica di movimento, in primo luogo della mente creativa che ha a disposizione, e che si ricava, degli “spazi della terzietà” su cui intervenire. E allora sì alle nuove costellazioni di micro-interventi coraggiosi, sì alla sintassi, ma resta in forse l’astrazione, che può solo farsi azione concreta in un contesto da “scongelare” come quello attuale.
chiara toscani says:
Ott 11, 2012
Interessante il concetto di opera d’arte abitabile, vale certamente un’ulteriore approfondimento, contiene due principi interressanti:un principio etico che è contenuto nella ricerca un messaggio condivisibile e dotato di ideale elevato; e il principio primario dell’abitare che riporta al quotidiano l’architettura.
E’ necessario tuttavia approfondire (o semplicemente dedicare più spazio all’argomento) come questa interessantissima intuizione circa la doppia natura dell’oggetto abbia poi la capacità di supportare questa resistenza. Quali strategie spaziali?
Non mi dimenticherei quindi di concetrarmi non solo sulla figura della rete, ma anche sul punto/dispositivo stesso.
Progetto Archimpura says:
Ott 11, 2012
Concordo con il pensiero finale; forse una soluzione praticabile è una sorta di “oltrearchitettura”, capace di muoversi in maniera più elastica attraverso le categorie di utile/futile. Ma i bijoux discrets del caso dovrebbero agire da volano, stimolare reazioni, lasciando liberi gli utenti di svilupparne i contenuti.