La volta scorsa ho accennato a due questioni fondative per l’architettura, la sospensione simbolica del tempo, che inaugura lo spazio antropico della città indispensabile alla cronaca ed alla storia, ed il diverbio tra storia e archeologia. Storia, preliminarmente è questione di gesta umane. Archeologia di fatti urbani.
Alla fine, una storia della città non esiste in senso proprio. Preferisco dire biografia della città, nella quale l’invecchiamento e la dismissione delle parti si accompagna solitamente alle riparazioni e sostituzioni della manutenzione, è quindi vicenda di rimozioni. Non lascia tracce apparenti, salvo detectarle attraverso una ricerca specialistica attrezzata di strumenti adeguati.
Cosicché è piuttosto la coppia inscindibile biografia urbana/metabolismo urbano a qualificare le mutazioni in quella sequenza temporale simbolicamente tenuta in sospeso che caratterizza il tempo della città e la scansione dei suoi momenti eccezionali, gli evi secolari della sua “biografia”.
Si tratta allora di pensare la genesi, o meglio la produzione/riproduzione della città. Ciò vuol dire pensare all’implicazione tra gesta umane, che motivano e sostengono il lavoro di produzione/riproduzione della città, e fatti urbani, che ne celebrano al futuro il costo, concependo e mettendo in opera il progetto di uno stile del presente. Bisogna pensare, perciò, un modo di manifestare il progetto nel presente in icone relative a praticabili, che, in architettura, sono impronte che impegnano il suolo e, come sostengono a ragione i progettisti del paesaggio (lanscape urbanism), lo sfruttano (e manomettono) intensamente e vastamente col rischio di comprometterlo come ecositema della vita vegetale e animale. Non proseguo, ma questo è il problema che abbiamo evidenziato.
Abbiamo riassunto lo studio che riguarda l’opera sociale dell’architettura, quella che attua l’azione di generazione/rigenerazione della città, nelle quattro parole scelte come insegna delle nostre sezioni che intendono riguardare i temi dell’architettura (morfologia urbana e tipologia edilizia nei termini della scuola) d’oggi: ospite, habitus, landmark, set.
Inizio dalla coppia Ospite-Habitus, che motiva l’architettura come “spaziatura” per abitare quella che cadendo sotto gli occhi di tutti (e soprattutto i piedi) genera il sensus communis come intendimento dei comportamenti dell’abitare quella spaziatura come suo quadro “topografico” e antropico.
Premetto che ospite ed habitus sono genetici, ma è chiaro che essi indicano l’implicazione del modo dello spaziamento per poter esservi accolti e manifestare i propri comportamenti (habitus). È infatti l’ospite che genera il rapporto d’ospitalità da parte di chi ospita, colui che giunge o nasce. E, aggiungo, lo introduce ai caratteri del sito e dei modi di adattarvisi secondo lo stile proprio del luogo. Che è purtuttavia sempre in “evoluzione” (conservazione/mutamento), ma non senza interferenze e resistenze e persistenze delle preesistente più o meno architettonicamente strutturate, posto che frequentare ed abitare presuppongono una nozione del sito ed una azione di reciproco adattamento che l’architettura come sapere del sito o “istruzione” del sito per abitarlo ha conformato.
Insomma, “sapere come” adattarsi ed adattare, fino ad agire per adattare costruendo una “spaziatura” abitabile, sono le attitudini reciproche che mettono in esercizio l’architettura come sapere nelle sue cose e sapere teorico, sempre a disposizione per adattarsi e adattare il mondo. Si tratta di un sapere innato, cioè di una “competenza” nei termini di Chomsky. Penso che a questo pensasse la Choay quando ha parlato della competenza di abitare/costruire.
Dunque tra Landmark ed habitus l’ospite esercita la sua competenza di adattarsi al set.
Ora, poiché ho parlato di democrazia, occorre che si tenga conto dei due termini che si confrontano, ospite e set, innanzitutto nell’ignoranza del dove/come nei confronti della competenza di adattarsi e del senso comune e del consenso che detengono. Bisogna poi considerare il potere di approvare e legittimare i modi in cui si esercita questa competenza, i cui vincoli sono più cogenti di quelli connessi alla parola, cioè all’esercizio della sua competenza.
Habitus come stile della adattabilità nel comportamento e legittimazione come consenso non sono che una tensione alla composizione dei contrari, non la certezza di un principio esclusivo dell’uno o dell’altro. Certo la globalizzazione non aiuta, non facilita il compito, ma dà una cornice alla tensione di cercare adeguata alla natura del problema. D’altra parte la nazione o la città, nelle sue forme locali non può andare oltre ai limiti cui è giunta nel passato, remoto o prossimo. Dunque, avanti con l’intento democratico di trovare una composizione degli opposti. Ma attenzione, in questo l’architettura, come saper della competenza all’adattamento, svolge un compito non servile né all’economia, né alla sociologia e soprattutto non al giure che di entrambe è lo sbocco attivo nella disciplina dello “spazio” per il tempo urbano.
Non può, dunque, ridursi né alla economia del profitto, né all’aristocrazia “estetica” del desiderio, né alla esibizione del virtuosismo, che pure non occorre reprimere, e ne vedremo il perché. Ma non se ne può accontentare.
Per questo abbiamo aggiunto no-profit a profit, per indirizzare l’attenzione agli interventi sulla città che accompagnano come pre-legali e non finanziariamente redditizi le macrostrutture che generano città oggi, contemporaneamente legali e miranti esclusivamente al profitto, così escludendo tutte le forme ingenue di adattamento al mondo. Così abbiamo avvicinato il compito d’oggi dell’architettura. Perciò abbiamo cercato nello “stile” del volto, l’anima di un progetto d’adattamento al mondo e nell’attenzione ai microinterventi urbani (pattern language) un segno ingenuo dell’esercizio di questo adattamento. In questo spirito abbiamo, infine, pensato alla potenza del virtuale per l’immaginario, oggi assistito dal computer nel progettare i set. Ad una ricerca su di esso come esercizio di disciplina dell’architettura.
Per ora intenzioni e aperture. Ricerca. Sappiamo che gli sbocchi, se ve ne saranno, porteranno inevitabilemente le aperture che ci aspettiamo. Ma sappiamo altresì che, per quella contro prassi che accompagna le conquiste perseguite ed attinte, potranno sboccare in autopunizioni distruttive come pena per la hubris che ogni ricerca, come atto di vera libertà, sfida.
Con questo spirito perseguiamo la ricerca.
E ringraziamo in anticipo tutti quanti partecipano a questa impresa.