Molti fatti urbani e molti spazi della città sono usati oggi per fini diversi da quelli per cui furono concepiti e realizzati. Anche il semplice abitare una casa cambia continuamente, perché mutevole è il rapporto fra i comportamenti e le loro modalità di espressione e figurazione, che si evolvono con l’evolversi dello stile di vita.
La vita stessa genera quindi un continuo processo di adattamento, che comincia nel momento stesso in cui ci si insedia in un luogo e lo si abita. Adattamento che è il rapporto fra scenari e azioni, equilibrio incessantemente variabile dove vengono messi in gioco elementi spaziali e non-spaziali, che potremmo chiamare di senso, di riconoscibilità o di competenza. Rapporto reciproco, dove gli spazi si adattano ai comportamenti e viceversa. Ogni spazio suggerisce alcune azioni e ne contrasta altre. E spazi un tempo vitali possono rapidamente cadere in una condizione di obsolescenza, perché le aspettative sono cambiate rispetto alle possibilità offerte da altri spazi.
Proprio per il fatto che non c’è uno stringente rapporto di causa-effetto fra spazi e comportamenti, l’adattamento è un campo poetico, di sorprese creative. Nelle nostre città inventiamo continuamente nuove declinazioni dello scenario urbano. A maggior ragione nella condizione della città europea contemporanea, che ha raggiunto il suo limite di estensione e deve reinventare il suo patrimonio costruito, adattando al presente una spaziatura abitabile non più in grado di supportare l’attuale stile di vita. E lo spazio pubblico, con i suoi conflitti fra attori diversi e le sue complessità, rappresenta un luogo ideale di questa sperimentazione con poche risorse. Osservare dei prototipi è il modo migliore per proseguire la ricerca su questi temi così complessi e la conferma ci è arrivata dai contributi arrivati alla nostra rivista, nei quali diversi interventi di trasformazione alla piccola scala di spazi della città vengono analizzati a fondo. Si tratta di una casistica estesa di situazioni urbane che vanno dal tentativo di stabilizzare l’informale, garantendo al maggior numero possibile di persone le condizioni di abitabilità, alla città consolidata, dove interessa più il modo d’uso di uno scenario che sembra essere immutabile. Casi ricchi e casi poveri, ovviamente ognuno con il suo linguaggio particolare. Il suo habitus. Com’è emerso chiaramente nell’ultima Biennale di Architettura di Venezia, in particolare nel mondo occidentale, con poche risorse e un territorio saturo, nel quale si guarda con attenzione al proliferare di microazioni rigenerative degli spazi di vita, fisiche o meno. Dove il ruolo dell’architettura degli interni, ma applicata soprattutto all’esterno, diventa cruciale.
Mi sembra dunque utile, per proseguire, precisare ulteriormente il campo della nostra indagine e la faccio proponendo una riflessione su due termini della ricerca di Lynch. All’interno dell’adattamento preferisco parlare di manipolabilità, che potrebbe essere definita come il grado in cui un luogo può esser modificato in breve tempo e con poche risorse nel suo uso e nella sua forma, in modo semplice ed evolutivo, per garantirne una stabilità nel futuro. E d’altro canto di reversiblità, ossia la misura di una apertura al cambiamento, della presenza di condizioni che consentano un intervento immediato per cambiare l’habitus di un luogo ed evitare quindi la chiusura verso scenari futuri. La domanda è: in base a questi due concetti, su cosa si deve orientare il cambiamento delle nostre città?
Allegato.
LABORATORIO MEDITERRANEO. Emanuela Nan
Nei tempi della crisi post-globalizzazione il rapporto tra i concetti di spazio, cultura e movimento si fa sempre più mutevole, le nuove concezioni dimensionali e temporali richiedono spazi in grado di adattarsi velocemente, assorbendo e facendosi assorbire dalle persone che le vivono e le percorrono. La distinzione tra città e territorio va perdendosi mentre si sviluppano e definiscono nuovi dispositivi e logiche che s’insinuano, intrecciano e sovrappongono, inglobando osmoticamente le strutture e i sistemi preesistenti reinterpretandoli ed addizionandoli di nuovi significati. La nuova realtà territoriale e geografica si fonda, così, sempre più su sinergie relazionali, rispetto a cui, il o i riferimenti non possono più essere ricercati in ambiti e spazi univocamente determinabili e fissati, ma in una dimensione molto più complessa e caleidoscopica di reti o meglio d’intrecci di maglie di dispositivi variabili.
La strutturazione e definizione di ciascun ambito e spazio, di per se, e del sul ruolo nel sistema complessivo va dunque letta nell’individuazione e comprensione delle ondulazioni della convivialità, convergenza e simultaneità delle diverse valenze spaziali e temporali multilivello che questo assume.
L’imporsi, inoltre, di fronte alla generale crisi economica, di una nuova e crescente sensibilità responsabile ha favorito e promosso azioni di riconversione, recupero, rinaturalizzazione, rispetto a cui l’idea d’innovazione si è declinata e si declina sempre più in commistione, ibridazione e moltiplicazione, facendo emergere spazialità sempre più eterotopiche e eterocroniche ad un tempo.
Lo spazio pubblico si declina così sempre più al plurale in piattaforme rispetto a cui, attraverso la propria scelta autonoma, ciascun utente può in ogni momento non solo modificare, ma addirittura tracciare e definire, a proprio uso e consumo, secondo le proprie personali e intime aspirazioni e inquietudini, attraverso il proprio agire e sentire, nuove geografie.
In questo contesto culturale le città mediterranee, grazie alla combinazione di:
– una straordinaria intensità e durata dei flussi (movimenti di esseri umani e scambi di beni e informazioni)
– la frequenza dei contatti
– la dotazione di dispositivi di contatto e di comprensione interculturale, accumulati e stratificati nel tempo in gran numero e varietà di ambienti di grande spessore,
si dimostrano oggi ambiti dotati di una stratificata e caleidoscopica complessità, sia reale che immaginifica, consolidata da secoli di storia e moltiplicata dal sogno promosso dall’industria del turismo di massa.
Le città mediterranee, così fortemente connotate, si riconoscono come quelle che James Clifford ha definito “zone di contatto”, ambiti dove vi è una proliferazione di spazialità ibride evolutesi nell’equilibrio di peculiarità delle parti e complementarietà del tutto.
D’altra parte lo stesso Mediterraneo, nel suo insieme, costituisce negli equilibri globali una “zona di contatto” rivelandosi come uno straordinario laboratorio per lo studio dei fenomeni e delle dinamiche di definizione dei territori urbani odierni.
Bibliografia
J. Clifford, On the Edges of Anthropology, Chicago, Prickly Paradigm Press, 2003
M. Gausa Navarro, Open. Espacio Tiempo Informaciòn”, ACTAR, Barcellona, 2010