La città contemporanea si trasforma seguendo regole dettate sempre più dal urban profit, dimenticando le riflessioni sullo spazio pubblico come forma di democratizzazione dei luoghi.
Il progetto delle forme urbane è slegato da una visione di città come organismo unitario e spesso i nuovi edifici sono autoreferenziali e rappresentano soltanto le nuove economie politiche e commerciali.
In opposizione a questo l’architettura colta propone punti di vista differenti e nuove forme di spazio sociale, attraverso un’architettura capace di dialogare con la storia e la geografia dei luoghi, e di esprimere l’anima degli uomini che la abitano.
Negli anni settanta, in Francia e poi in Italia, nasceva una rivista per dare voce a questo dibattito, dal titolo esplicito, “Espaces et Sociétés”, diretta da Henry Lefebvre e Anatole Kopp. Arriva in Italia nel 1975, come sua traduzione e nel 1978 assume la propria autonomia sotto la direzione di Giancarlo De Carlo.
Le tematiche affrontate sono molteplici e non seguono una linea prestabilita, ma riguardano un campo, quello della forma dello spazio e le trasformazioni dell’ambiente fisico, procedendo con un esplorazione da diversi punti di vista, differenti ma in realtà fortemente legati: la forma dello spazio, le soluzioni progettuali, di cui viene esplicitato tutto il processo, dalle motivazioni iniziali fino alla reazione e all’usabilità degli utenti, le trasformazioni fisiche nei Paesi del terzo mondo, l’uso delle tecnologie, l’eclettismo, il rapporto tra architettura e vegetazione, le corrispondenze tra arti figurative e ricerca architettonica, l’evoluzione delle tipologie di abitazione, la crisi della città contemporanea, le periferie. Tutti i novantatré numeri sono legati da un unico filo rosso: l’architettura sociale, raccontata non solo dai progettisti e per i progettisti, ma soprattutto per gli utenti, che sono coloro che subiscono maggiormente le trasformazioni fisiche irresponsabili.
Questo ragionamento scaturiva dall’idea che l’architettura moderna fosse autoritaria e che non tenesse conto dei reali bisogni degli uomini. L’ obbiettivo era quello di renderla “sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa”. Per questo si scelse di elaborare una metodologia, quella del progetto–processo che successivamente con l’ILAUD (Laboratorio Internazionale di Architettura e Urbanistica) prenderà il nome di “progettazione tentativa”. I temi che venivano affrontati in questi laboratori erano la partecipazione, il riuso, la lettura del contesto, come strumenti di conoscenza e trasformazione, gli stessi affrontati e diffusi in altre direzioni dalla rivista “Spazio e Società”.
L’architettura viene intesa come partecipata e la progettazione si trasforma in processo democratico alla ricerca di un equilibrio tra obiettivi e stimoli; viene concepita come servizio e impegno civile, ovvero capace di configurare luoghi significativi per lo svolgersi della vita delle persone.
In questo senso la forma dello spazio fisico non è considerata una questione solo degli architetti o degli addetti ai lavori, ma un problema che interessa tutti gli uomini; così anche nella rivista esiste un’apertura nei confronti dei lettori, che sono invitati a controbattere alle questioni poste.
Questo atteggiamento si pone come un metodo dove al centro del progetto di architettura c’è l’uomo, non soltanto come misura dello spazio ma anche figura in movimento che ne fruisce. Fare architettura come strumento e servizio sociale[1], espressione di una conoscenza, l’architettura come soddisfacimento di un bisogno.
Per l’attualità dei contenuti della rivista, all’interno del dottorato di ricerca in progettazione architettonica della Facoltà di Architettura di Palermo, si è scelto di condurre una ricerca sui temi dell’architettura sociale e sull’attività svolta da Giancarlo De Carlo con “«Spazio e Società”.
Fare ricerca guardando al futuro significa riflettere su quale tipo di città scegliamo di proiettarci e questo non può prescindere lo studio retrospettivo di chi, prima di noi, ha cercato di rispondere a queste domande con l’impegno coerente e costante nel porre questioni e nel denunciare il reale, parlando di architettura sempre in termini sociali, nonostante le mode.
È questo il filo rosso che lega tutti i numeri della rivista “Spazio e Società”, un architettura progettata per gli uomini, in cui i futuri fruitori hanno il diritto di prendere parte al processo progettuale, ed è la verifica dell’usabilità ciò che rende un’architettura giusta, non il suo linguaggio o la sua forma più o meno interessante.
[1] Cfr. I. Daidone, Lo Spazio-Funzione nell’Architettura, in S. Giunta, Tracce di un percorso, Edizioni Arianna, Geraci Siculo 2012, pp 59-63.