Al di là delle loro differenze, che sono a volte notevoli, le scuole di architettura italiane condividono da sempre alcuni limiti di una certa consistenza. Il primo  è la mancanza di una vera e propria architettura didattica, ovvero una struttura del sapere,  del suo incremento,  della sua trasmissione e della sua critica che siano in relazione con un numero molto ridotto di priorità. È chiaro, infatti, che non si potrebbe fare un lavoro  positivo se si volesse dominare un campo tematico troppo esteso e articolato. Occorre per questo scegliere pochi obiettivi, molto selettivi e profondamente legati alla realtà, obiettivi che consentano di utilizzare nel modo migliore le risorse di cui si dispone. Tutto ciò in rapporto con il fatto che una scuola è tale solo se è tendenziosa, anche se la presenza di un forte orientamento disciplinare non deve necessariamente tradursi in un monostilismo dottrinario, cosa che in realtà è molto spesso avvenuta.

Il secondo limite è una endemica costrizione a pensare l’innovazione solo in relazione con la tradizione. Anche se questa dialettica è stata ritenuta dalla storiografia più impegnata del Novecento come un carattere fondativo dell’architettura italiana, essa si configura comunque come luogo di compromessi piuttosto discutibili. In effetti l’innovazione risulta diminuita nelle sue potenzialità trasformative dal suo doversi confrontare con ciò che l’ha preceduta, mentre il lascito del passato è al contempo costretto a improprie ibridazioni.

Il terzo limite, che presentano pressoché tutte le scuole italiane di architettura, è una diffusa incapacità di essere nello stesso tempo autonome ed eteronome, muovendosi in modo consapevole tra specificità e molteplicità, vale a dire tra chiusure necessarie nell’ambito della dimensione linguistica e aperture altrettanto obbligate non tanto verso orizzonti interdisciplinari, quanto verso ciò che potrebbe presentarsi come alternativo fino all’eversione nei confronti di posizioni teoriche consolidate e  dei loro esiti operativi.

Per superare i limiti sinteticamente esposti occorre infine affermare con una convinzione più che decisa e con una certa intransigenza non solo che l’architettura è un’arte, ma che è un’arte la quale possiede un suo particolare modo di essere arte. Un modo che non coincide esattamente con quelli dell’arte pittorica, plastica o installativa. Ricordandosi anche che l’architettura non ha alcun senso fuori da una prospettiva profondamente umanistica o, se si preferisce, neo-umanistica.

 

 

 

Aforismi per Franco Purini 11 marzo 2013. Ernesto d’Alfonso

Preliminarmente richiamo solo due punti che correlo :

L’ architettura è un’arte, la quale possiede un suo particolare modo di essere arte che non coincide esattamente con quelli dell’arte pittorica, plastica o installativa. Come tale non ha alcun senso fuori da una prospettiva profondamente umanistica o, se si preferisce, neo-umanistica.

Le scuole d’architettura non posseggono una vera e propria architettura didattica, ovvero una struttura del sapere,  del suo incremento,  della sua trasmissione e della sua critica che siano in relazione con un numero molto ridotto di priorità.

 

Aforismi

Preciso che negli anni ’70 è stata destrutturata una architettonica dell’insegnamento procedente dalla costruzione, alla scienza dei caratteri distributivi e “stilistici” degli edifici (da cui discendeva la tipologia) all’urbanistica tecnica basata sul disegno urbano (da cui discendeva una morfologia urbana)

Noto che il Politecnico, la scuola in cui mi sono formato ed in cui ho insegnato, derivava questa architettonica da una combinazione di ingegneria civile e architettura. Il cui limite, peraltro non compreso dalla generazione iconoclasta (alla quale io stesso appartengo)  era una interpretazione della innovazione nei termini dello stile e non legato alla superiore grandezza cui corrispondevano i paradigmi di una nuova scala della città da inventare in un dialogo internazionale di sperimentazioni urbane (cfr. futurismo e Sant’Elia).

Aggiungo che da qui è maturata una idea della contemporaneità piuttosto che in competizione col passato, alla ricerca di “continuità”; piuttosto alla ricerca di adeguamento dei tipi antichi,  che alla ricerca di ragioni di mutazioni strutturali capaci di regolare i modi di coesistenza tra nuove formazioni urbane ed enti tipologici multifunzione e multiscala, quindi di “tipi” urbani nuovi entro formazioni nuove inglobanti preesistenze selezionate e irrininuciabili cui conferire nuova funzione storico/simbolica.

In questa temperie la dialettica tra innovazione e tradizione in una connessione inscindibile (altrove non ravvisabile) ritenuta dalla storiografia più impegnata del Novecento come un carattere fondativo dell’architettura italiana, finisce per confinare la ricerca in un culdesac retrospettivo in cui la questione del presente nello scorrimento verso il futuro cioè di una storia da fare e non da contemplare e documentare, resta ignorata.

La storia, come “fare storia”, non  come “documentare storia”, non è più coltivata nelle scuole d’architettura. Con conseguenze esiziali per il progetto. Altrove si parlò di delegittimazione cfr. Arc 2, ma tale delegittimazione  non vale per l’economia, che valendosi di architetti talentosi e dei loro atelier prosegue imperterrita ad innovare o che quando occorre costruisce secondo bisogni senza curarsi delle preesistenze d’arte o paesistiche. Dunque vale solo per la scuola mettendone a repentaglio il valore sociale perché “fare storia” è il suo compito primario come culto umanistico del dialogo tra le generazioni che costruì ed ancora costruisce il sapere.

Cfr. Inattualità del presente in architettura. Una ricerca del tempo. 

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