Concordo con il secondo aforisma di Franco Purini Il secondo limite è una endemica costrizione a pensare l’innovazione solo in relazione con la tradizione. Anche se questa dialettica è stata ritenuta dalla storiografia più impegnata del Novecento come un carattere fondativo dell’architettura italiana, essa si configura comunque come luogo di compromessi piuttosto discutibili. In effetti l’innovazione risulta diminuita nelle sue potenzialità trasformative dal suo doversi confrontare con ciò che l’ha preceduta, mentre il lascito del passato è al contempo costretto a improprie ibridazioni
E sottolineo il passaggio che segnala la distinzione dell’architettura italiana nel rapporto genetico innovazione/tradizione. Che causa discutibili compromessi e “improprie” ibridazioni.
Può darsi un’ipoteca conservatrice sia riuscita ad affermarsi sulla prospettiva futurista che una brevissima stagione “bruciata” dalla prima guerra mondiale aveva inventato. Ma credo che si debba avviare una stagione d’esercizi per rimeditare i testi e le opere che ci hanno condotto ad un confino.
Non esiste una distinzione italiana se non nello stile del sapere che fa scienza. Una più lunga lena nella idealizzazione che si è misurata sulla realtà del mondo scoprendo, inventando, comunicando . Così “facendo” storia e scienza. Sapendo la inclusione dell’una nell’altra, ma altresì la distinzione. Il sapere è tra cronaca e storia ma nell’illuminazione dell’ora. È scoperta di un’ ora che si affida a Mnemosine, la madre delle muse. Il sapere, insomma, non è avulso, ma il fine dell’arte, la casa_bella non è in una “continuità” causale. La storia non è operante. Non è esito di un processo di manipolazione “del già-fatto” o di evoluzione delle tracce.
Anche se una casa nasce sempre da una casa, il confronto indefesso con ciò che è, da prima o da sempre, sotto gli occhi, senza l’illuminazione di una scoperta o invenzione comunicata, (e, solo in seguito, condivisa), non può apparire di nuovo bello. Solo nell’ora presente ciò che sta, sempre, di nuovo, sotto gli occhi, ripeto, si scopre, si rivela, s’inventa.
La storia non genera, anzi la storia non c’e se non quando è “scritta”.
Con questa scorta di banalità “basamentali” di senso comune aggiungo un breve commento al testo di Daniele Vitale. Porta all’attenzione un lavoro di Terragni-Lingeri non realizzato ma potentemente evocativo che pone sotto il titolo, Monumento, simbolo, aulico. Ed una citazione …..
Nella citazione si fanno due riferimenti, al confronto tra poesia ed arte ed alla intraducibilità della parola in opera d’architettura, onde lo scostamento di una prossimità essenziale consente solo analogie, ma in una irriducibile disuguaglianza di “forme simboliche”. Tale disuguaglianza consiste nella impossibilità che l’ora passata si replichi al passato per cui l’opera è sempre un mausoleo (che si vorrebbe privo di lutto, come nella indimenticabile confessione dell’autobiografia scientifica Rossiana all’ospedale di Slavonsky brod, le ossa spezzate) cioè come pietrificazione dell’ora trascorsa disseccata ossificata. Dunque per sempre presente, come scelta irrevocabile onde chi ne frequenta il dove può agire al presente ed, in esso, rileggere al presente la parola del libro.
Tale è il disegno del Danteum progetto dell’opera architettonica che conferisce un dove alla commedia di dante. Non un teatro immaginario a quelle avventure ideali e morali ma il luogo della replica di un itinerario interiore. Un luogo della memoria, anzi per la memoria, cioè per la costruzione mentale di un percorso “reale” ancorchè immaginario: costruzione di sé stessi in un luogo del mondo. Comunicazione primordiale.
Mi ha stupito il giudizio di Pagano che Vitale riporta …
Lo intendo come un richiamo concreto alla realtà quotidiana, alla competenza ignorante di chiunque, benchè privo dei sussidi del sapere, sia capace di fare. Un richiamo alle risorse della vita
Certo nel corpo le ossa sono inscindibili dal respiro, nel sentire. Ma l’architettura e il sapere costruire sé stessa nella città non hanno respiro se non nel “dove-ora” di un proprio stare, quando può spirarvi il vento per chi ci abiterà secondo lo stile delle sue ore. Ed è richiesto un sapere lo stile che sussiste in quella ossificazione del tempo che è “idealizzazione” (l’arte del pensare). E, per chi la osserva, è sintassi da declinare sempre di nuovo. E, da inventare.
Ma vengo al paradigma inventato da Terragni, al suo Canone dell’ architettura contemporanea.
In proposito mi preme riportare un breve testo, scritto anch’esso qualche anno fa, sull’opera eponima di Terragni, la casa del fascio che consideroo canone di architettura moderna e “mattone” urbano alla scala della città illuminista: da un lato memento dell’ora d’inserzione, nella città di Como, anni ’30, di un nuovo “termine” architettonico. Dall’altro misura “urbana” nella taglia del tessuto urbano esistente ma nella forma dello spazio cellulare plurimo dei telai moderni – sintesi di organismo e simbolismo o di musica pietrificata nelle serie dell’armonia moderna –
Lo riporto come manifesto di una volontà sapiente di confronto con una tradizione, ma sporta al futuro, manifesto dell’ istituzione di presente ora, nei termini di Luis Kahn, che si sovrappone alle altre inaugurando un presente esteso, nei termini di Focillon. Più concretamente sapiente della storia più esplicitamente sapiente della realtà strutturale dell’umanesimo che genera la storia e la scienza mantenendone al presente il senso e il valore.