Magnifico Signor Rettore del Politecnico di Milano,
mi preme portare alla sua attenzione queste note che ho scritto a proposito di illegittimità e delegittimazione in occasione dell’esito del recente concorso d’idoneità all’insegnamento dell’architettura.
Da molto tempo ho preso atto di un problema esistenziale che scuote l’anima degli architetti, fin da un memorabile dibattito pubblico degli anni ‘90 registrato dalla rivista ARC, che si rivolgeva ai dottorati di ricerca di composizione architettonica e urbana a livello nazionale per stabilire un confronto critico sulla ricerca in architettura. Il collega e amico, prof. Purini contestava come ingenuo il tentativo di aprire un dibattito sulla disciplina della composizione architettonica, perché sosteneva essere irrevocabile una delegittimazione radicale della disciplina che imponeva l’esigenza, non più rinviabile, di un riposizionamento della disciplina stessa. Era divenuto insostenibile il disagio profondo dell’architettura per l’emergere dell’idea del progetto come pericolo in una società sempre più esigente, sempre più orientata al controllo di qualsiasi intenzione trasformativa e ormai decisa al ritiro delle deleghe prima rilasciate alle singole professioni.
La diagnosi mi appariva calzante.
Ma ritenevo che se gli architetti subivano la situazione essa era sintomo di un più profondo disagio, che investe nel complesso la nostra società. Cui si doveva reagire. Cosa che ho tentato senza successo.
Oggi, dopo più di dieci anni, la diagnosi, non solo si mantiene attuale, ma, il “disagio” nel senso forte freudiano di perturbazione psicologica profonda si è reso esplicito. E se ne vedono tutte le conseguenze fino allo smarrimento del senso comune relativo al compito sociale dell’architetto e al valore collettivo del sapere che detiene.
Questo disagio si manifesta esemplarmente nell’esito del recente concorso nazionale e nei comportamenti delle commissioni per l’abilitazione all’insegnamento universitario degli architetti, dove il dubbio sui fondamenti e sulla missione sociale della disciplina e degli architetti ha portato i commissari ad assumere comportamenti incoerenti con il loro compito istituzionale ed a far prevalere criteri arbitrari di giudizio su quelli di verifica obiettiva stabiliti dalle norme. Cosa che ha fatto emergere un legittimo risentimento per la discriminazione di chi ha percepito di non appartenere allo “schieramento” promosso dai commissari. Lo testimoniano da più parti prese di posizione pubbliche che giungono a lamentare appunto il fatto che: i criteri di selezione siano stati applicati in maniera deliberata non ai singoli candidati ma ad insiemi di individui appartenenti a “scuole” o più semplicemente a “schieramenti” culturali …. considerati “nemico culturale” da rimuovere come recita un noto documento pubblico.
Simili opinioni incrinano il sentimento di appartenenza alla comunità scientifica di tutti giovani e vecchi indipendentemente dal rango accademico. E manifestano l’insorgere di un sentimento di disunione che produce delegittimazione reciproca di tutti, abilitati e non.
A tale situazione bisognerà trovare rimedio.
Non basta però sostenere il movimento rivendicativo dei diritti lesi dei cittadini. Che per la prima volta assume le dimensioni di un’azione di massa. Non basta, cioè, sostenerlo, come pur dobbiamo fare nelle sedi opportune.
Affinché non si ripetano, occorre affrontare la questione urgente che rende possibili tali illegittimi comportamenti. La questione del disagio di cui precedentemente ho parlato.
E vedo nella recente delibera di sciogliere i dipartimenti contemporaneamente di architettura e ingegneria che si occupavano di composizione e scienza delle costruzioni l’effetto dell’approfondirsi di quel disagio di fronte alla costruzione.
Un disagio che ha radici sociologiche ed ecologiche prima che economiche.
Ed affonda il suo alimento locale in una incomprensione antica ma progredita tra ingegneri e architetti ed in seguito tra architetti, urbanisti e pianificatori ed oggi tra questi e i paesaggisti o gli “industrial designers”.
Questi solchi che si sono aperti tra discipline contigue con molte affinità sono proliferati e progrediti contagiando gli appartenenti ad ogni disciplina in una competizione indiscriminata non più sostenuta dal senso comune che cerca, nella resa dei conti, una legittimazione che non trova più nel consenso.
Per non sfuggire alla responsabilità istituzionale, e nell’interesse di tutti, occorre arrestare questo stato di cose e creare le condizioni per trasformarlo, il conflitto, in un dibattito civile.
Ho rivolto a lei l’espressione di questi pensieri perché, ove li condivida possa agitarne i contenuti a tutti i livelli alla ricerca di soluzioni equilibrate.
Con rispettoso ossequio.
Prof. Arch. Ernesto d’Alfonso
Milano, 3 aprile 2014