Un ateneo, in quanto istituzione, dovrebbe avere una politica culturale unitaria, che non coincide con i suoi corsi di insegnamento e le sue ricerche interne. Un ateneo non consiste in una somma di attività didattiche e di ricerca da coordinare sul piano organizzativo e della gestione. Deve portare a sintesi gli apporti particolari; deve dibattere dei propri orientamenti, del proprio ruolo sociale, dello stato generale degli studi, delle contraddizioni tra culture, senza darli per impliciti o scontati: nascono infatti da un’esperienza storica lontana e appartengono a una realtà in movimento, e tra le due dimensioni è importante elaborare nessi. L’università, in ultima analisi e in modo indipendente dai suoi campi di conoscenza, ha il mandato di suscitare e alimentare lo spirito critico, non solo promuovendo in ambiti particolari ciò che viene definito innovazione, ma ricollocando i saperi e le tecniche dentro un orizzonte comune, per indagarne le differenze, i contrasti, le sovrapposizioni, e alla fine per discuterne i significati. L’università ha una funzione pedagogica e di elaborazione rispetto all’intera società, anche se per introversione e particolarismo tende a scordarlo. Ciò significa che ha un’anima politica, perché deve muovere dalla consapevolezza di una storia per indicare prospettive e tracciare progetti. In questi progetti, utile e inutile s’intrecciano sino a divenire complementari.
Le attività del Politecnico ruotano intorno a una questione che riguarda la sua stessa ragione d’esistenza: ed è la questione della cultura politecnica, che ha radici storiche e lunga tradizione, ma che si è diversificata nel tempo secondo i paesi e secondo i contesti. Sono molte le scuole politecniche d’Europa, e ciascuna ha assunto suoi caratteri. La tecnica, dalla rivoluzione industriale in poi, ha instaurato progressivamente il proprio dominio e s’è imposta nel particolare delle vite, sino ad avvolgerle in modo inavvertito. Ha lentamente dispiegato la propria potenza. Ha suscitato in un pubblico vasto stupore e insieme assuefazione, dando nuova forma al quotidiano e alle persone. Ma ha anche ridotto il pensiero a rappresentazione unilaterale, subordinata all’occasione, allo scopo, all’esito. La cultura politecnica, da fine del Settecento in poi, è stata un tentativo di risposta, ricollocando e riorganizzando i saperi settoriali.
In questo quadro, il «pensiero calcolante» sarebbe quello che vive al servizio della circostanza e ad essa si riduce, rincorrendola e adattandosi, chiudendo ogni volta l’esperienza e prendendo nuove direzioni. Insegue una meta. La sua ossessione è il risultato. Il «pensiero meditante» sarebbe quello che si apre alle cose, per indagare non sulla loro immediatezza e il loro apparire, ma sulle loro radici, la loro opacità, alla fine il loro mistero. Accetta tempi più lenti e procede con impianto consequenziale più saldo. L’interesse che lo muove è meno diretto e meno specifico[1].
Il Politecnico di Milano, diversamente da altre scuole d’origine analoga, è rimasto per lo più appiattito sul «pensiero calcolante» e chiuso nella dimensione dell’utile, anche per la forza dei legami con il mondo della produzione e delle tecniche applicate. È un ateneo in cui sono ricorrenti gli scambi di conoscenze e di persone tra un mondo e l’altro: professori che insegnano provenendo dalla sfera dell’economia, altri che intrattengono con essa rapporti stretti, altri che abbandonano l’università perché «chiamati» a incarichi esterni.
Impostare una politica culturale, vuol dire per il Politecnico non solo, ma soprattutto rompere questo asse e la sua esclusività, attraverso un quadro di iniziative di carattere diverso nel quale coinvolgere l’ateneo intero. L’occasione nel 2013 del 150° anniversario dalla fondazione, è andata per gran parte perduta, perché da un lato ridotta a toni celebrativi e di pubblicità, chiusa nella volontà di auto accreditarsi all’esterno e nell’autocompiacimento, dall’altro circoscritta allo specifico delle attività specialistiche che si svolgono all’interno. Ma sarebbe stato importante tornare a riflettere sulle ragioni, le utilità, i limiti della cultura politecnica, e insieme sulle sue possibili ridefinizioni e aperture. Vorrebbe dire accettare processi di contaminazione con modi di pensiero differenti, e accettare che essi abbiano dignità e presenza anche nell’insegnamento.
Il problema di una politica culturale unitaria ovviamente non riguarda solo il Politecnico, ma al suo interno le singole scuole e quelle di architettura. La cultura architettonica sta vivendo una crisi profonda, che è anche del suo dibattito, della sua editoria, del suo insegnamento. La fase viva del periodo tra gli anni sessanta e novanta, basata sull’apertura alla città, sull’aspirazione a una teoria, sul coinvolgimento nella politica, su una ricerca libera nei campi della composizione e della forma, si è esaurita. Rispetto ad essa v’è stata una continuità povera, e tanto meno si sono imboccati nuovi cammini. Le scuole dovrebbero affrontare collettivamente questa involuzione, rompendo la chiusura provinciale che ha visto il confronto arroccarsi nelle singole città. Potrebbero in questo giocare un ruolo importante.
La scuola di Bovisa si è costruita storicamente su un sistema di differenze interne, di carattere ideologico, di posizione, di temi, di modi di intendere il lavoro, di orientamenti nella pratica del progetto. Esse sono state e potrebbero essere un elemento di ricchezza, se non degenerassero troppo spesso in competizione e in difesa di interessi. Solo di rado, durante le presidenze di Antonio Monestiroli e di Angelo Torricelli, si è stati capaci di una politica culturale unitaria, capace di proporre la scuola con un volto esterno e pubblico riconoscibile. Indico a questo riguardo dei punti.
La politica dei rapporti internazionali e nazionali con altri centri di ricerca e altre scuole, sia nella forma degli accordi e degli scambi istituzionali che nella forma dei rapporti con singole persone, è stata nei fatti demandata alle reti delle conoscenze di ciascuno e si è dispersa e seguita a disperdersi in una miriade di iniziative frammentate. Così non è esistito, se non raramente, un insieme di lezioni, dibattiti, seminari, mostre, che appartenessero anziché ai gruppi alla scuola in modo unitario, alimentando il confronto, attraendo studenti, affermando una presenza. Anche sui dottorati a noi legati, che avrebbero dovuto essere luoghi centrali di ricerca e di formazione delle nuove leve, non v’è stata politica unitaria, ma la scelta di disperdersi e di aderire ad altre sedi. Il tentativo di una politica editoriale comune, capace di essere specchio delle dialettiche e delle ricerche interne, è stato dopo pochi anni abbandonato, lasciando l’iniziativa al particulare delle persone e dei gruppi. Sarebbe stato un momento di confronto tra docenti e di comunicazione con gli studenti, ma anche di diffusione del punto di vista e dell’esperienza della scuola.
Fatto sta che la scuola di Architettura civile ha perduto da tempo il suo ruolo e la sua riconoscibilità sia a livello nazionale che dentro il Politecnico. Lo confermano ancora quattro fatti recenti indicativi.
– Non vi sono stati contributi alla ricorrenza del 150° anniversario della fondazione del Politecnico, mentre sull’ateneo, sulla sua storia e sulle sue prospettive si sarebbero potute proporre elaborazioni e dare indicazioni importanti. Tra le poche iniziative di contenuto v’è stato un corso organizzato da due dottorati, uno dei quali della scuola di Bovisa, che ha visto una larga partecipazione di docenti italiani e stranieri ma rimasto del tutto isolato.
– La laurea honoris causa ad Alvaro Siza i Vieira non è stata proposta e conferita dalla scuola di Bovisa, che è stata nel Politecnico il principale centro di ricerca progettuale, e che nel tempo ha avuto rapporti stretti con la cultura e con le università portoghesi. L’iniziativa avrebbe potuto essere più ricca e coinvolgente e quanto meno essere presa dalle due scuole in modo congiunto. Da Bovisa, d’altra parte, non sono venute altre proposte.
– A Milano dal giugno 2011 sono insediati in Comune un sindaco e una giunta che hanno rappresentato una svolta importante, malgrado i loro limiti e le loro difficoltà. Si sarebbe potuto dall’inizio costruire un rapporto fattivo e di collaborazione attraverso il lavoro di docenti e studenti: la scelta avrebbe avuto un forte significato politico, sia contribuendo a orientare le scelte sulla città, sia portando problemi reali nelle prefigurazioni didattiche. Anche su questo l’iniziativa è stata lasciata soprattutto alla Scuola di architettura e società. La scelta del tema di ricerca delle caserme milanesi e del loro recupero, arriva quando la scuola è prossima alla chiusura.
– V’è nella città una rete di istituzioni culturali e professionali in evoluzione, con cui sarebbe possibile stringere relazioni e costruire sinergie. E vi sono le realtà sopravvissute di un tessuto produttivo, che avrebbe potuto probabilmente portare risorse. Anche questo con ricadute importanti nei rapporti con l’ateneo.
Quella che si è venuta determinando, è dunque una condizione di crescente isolamento politico e culturale, e insieme di esclusione miope di interi settori interni alla scuola.
[1] La distinzione tra pensiero calcolante e pensiero meditante è proposta da Martin Heidegger, L’abbandono, trad. di A. Fabris, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1995, 1998, in particolare da p. 28 a quelle seguenti.