La competizione è dunque un principio alla base della «nuova» università, ed è pensata su due livelli: il primo è quello tra le istituzioni scolastiche e universitarie, classificate in base alla capacità di mostrare risultati che si suppongono misurabili e in base al prestigio acquisito. Il secondo livello è quello tra le persone, giudicate e selezionate in base al merito, che anche si suppone misurabile. «Meritocrazia» è parola invalsa nell’uso comune e che dilaga ed imperversa. È il paradigma capace di portare salvezza e di guidare «le riforme». S’è così stabilita una sorta di gara o di confronto di qualità tra istituzioni, e dentro le istituzioni tra individui, con l’obiettivo di stabilire chi primeggia e chi segue con logica scalare. La qualità è definita in base a indici numerici e fattori quantitativi, così che la valutazione assume la forma di un «calcolo». Tutto è calcolabile. Si elaborano degli indicatori e poi le loro mediane e le loro punte. Si fissano delle classi o categorie in cui le attività e le persone devono essere inquadrate, sino a costruire graduatorie. Sia le scuole che gli individui sono inventati e costruiti attraverso metodi di registrazione e campi documentari.
Quali i presupposti? La pretesa è che sia per le università che per i singoli si possono stabilire criteri di giudizio imparziali, cioè al di sopra delle parti e delle opinioni e tendenzialmente obiettivi. «…è però il caso di ricordare che, come ogni attribuzione di valore, la valutazione non è una misurazione scientifica e imparziale di una prestazione, ma un tipo di classificazione che dipende dal “punto di vista”, e dagli interessi, di chi valuta. E quindi anche gli strumenti della valutazione non possono che risentire di questa origine. La cultura quantitativa della valutazione (che si esprime in indici bibliometrici, ranking delle riviste, classifiche delle università ecc.) adotta largamente quella cultura degli algoritmi che oggi domina il mondo della finanza e il mondo della rete. Questa cultura – presentata oggi come necessaria, inevitabile, oggettiva – è naturalmente funzionale agli scopi di chi trae vantaggio dalla classificazione quantitativa e quindi da una gerarchia meramente numerica»[1].
È un’offensiva ideologica, quella cui assistiamo. Si dichiara che è necessario far sì che l’università esca da una situazione in cui il potere è esercitato in modo arbitrario e con criteri clientelari. Si dichiara di voler ripristinare una moralità che è andata perduta, operando con «trasparenza, integrità e professionalità»[2]. Si dichiara che la sola strada praticabile è quella di liberarsi dal carattere discrezionale di giudizi e pareri, stabilendo principi neutri con cui misurare il merito e le prestazioni.
È su questi presupposti che è stata istituita nel 2006 l’Anvur, Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, ente pubblico operante dal 2010 e sottoposto al controllo del Miur (Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca)[3]. Tra i compiti principali che le sono affidati, essa «sovraintende al sistema pubblico nazionale di valutazione della qualità delle università e degli enti di ricerca […]; …valuta l’efficienza e l’efficacia dei programmi pubblici di finanziamento e di incentivazione alle attività di ricerca e innovazione»[4]. Deve dunque verificare i risultati delle politiche statali nei campi della ricerca e dell’insegnamento. Sono varie le sue attività. La Vqr è la Valutazione della Qualità della Ricerca. L’Asn è l’Abilitazione Scientifica Nazionale che devono conquistare tutti coloro che desiderano partecipare a dei concorsi che verranno. L’Ava è il sistema di Autovalutazione, Valutazione Periodica e Accreditamento dei corsi di studio e delle sedi universitarie, e serve a stabilire la qualità, l’efficienza e i risultati degli atenei.
Il valore delle pubblicazioni e delle riviste è stabilito in base a pareri di società scientifiche e di esperti e consultando «referee» anonimi esterni; si basa sul numero delle citazioni e incasella in classi qualitative. L’obiettivo, si dice, è di sottrarre i giudizi di qualità alle istituzioni che devono essere valutate, ma anche alla burocrazia ministeriale, fissando criteri e introducendo punti di vista neutrali. Di questi punti di vista sono depositari i membri di una categoria antica e apparentemente asettica, quella degli «esperti». In realtà si tratta di un’opera di normalizzazione e insieme di occultamento. Le procedure diventano peripezie senza via d’uscita. Non solo viene creata una macchina burocratica gigantesca e dispendiosa, ma dietro di essa e con diverse modalità si riaffacciano l’arbitrio, le pressioni, le politiche clientelari.
La logica è ad un tempo premiale e punitiva: i migliori hanno da essere favoriti e promossi, e quelli che «sono rimasti indietro» disincentivati o esclusi. Poco importa che competizione e merito, così intesi, risultino a sfavore delle istituzioni e delle persone che muovono da condizioni di svantaggio. All’idea di un sistema universitario nazionale diversificato, perché radicato in una pluralità di territori e di culture, si sostituisce l’idea di un pulviscolo di atenei basati su un’uniformità di scopi e una reciproca concorrenza. All’idea di una nuova dialettica tra università specializzate nei campi tecnico e scientifico, e università a contenuto umanistico e artistico, immaginando che abbiano un sistema di sovrapposizioni e integrazioni, si sostituisce la promozione delle prime e il declino delle seconde, in base a criteri di «rendimento».
Esiste una graduatoria internazionale, non importa se discutibile, in cui le università italiane rimangono indietro, e si tratta di risalire la china. Per risalire la china, si devono individuare le università di eccellenza, e l’eccellenza va finanziata. Si modulano i finanziamenti e le possibilità di reclutamento in base alle graduatorie. Si dice che per fare l’interesse generale, «vanno eliminate le strutture universitarie inefficienti». La distribuzione della qualità e dell’inefficienza è in primo luogo geografica, perché le strutture inefficienti stanno per gran parte nel sud Italia. Non viene il sospetto che esse debbano essere messe nella condizione di migliorare e di operare. Non si considera come uno dei caratteri del sistema universitario italiano sia di avere molti atenei di medio livello, che potrebbero essere incentivati e coordinati, costituendo una rete. Il sistema universitario non è considerato tale, proprio perché si pensa di dover puntare sui casi egregi e di dover punire o cancellare quelli poco meritevoli.
In secondo luogo, qualità e inefficienza sono legate ai settori disciplinari. Vale quello che Gramsci osservava, allorché parlava della tendenza ad abolire ogni tipo di scuola «disinteressata» e «formativa». Le facoltà umanistiche e di campi disciplinari come lettere, filosofia, storia, linguistica, arte, appartengono all’ambito di quegli insegnamenti che non hanno ricadute pratiche immediatamente visibili. I filosofi filosofeggiano, gli storici si occupano di passato, i letterati di letteratura, gli artisti di opere d’arte ecc. Sono scuole che è bene disincentivare, e non a caso hanno visto negli ultimi anni crollare il numero delle iscrizioni.
Ma è una logica che vale anche per architettura. Architettura va ridimensionata, si dice, perché è un peso e una zavorra, non solo da noi, ma alla scala del paese. A che servono gli architetti? Sono troppi e lontani dalle esigenze reali, per vaghezza di preparazione. La loro formazione sarebbe troppo culturale e poco operativa. È una critica per certi versi vera, ed è sicuro che gli architetti sono di gran lunga troppi; non per questo è giustificata l’adozione di un modello professionale come quello che si vorrebbe introdurre. Ma ciò vale anche per altri settori e specialità: esiste ad esempio nel Politecnico un campo disciplinare che ha avuto storicamente rilievo, quello delle matematiche. Non a caso il Dipartimento di matematica è quello che riceve meno commesse esterne e che si trova in fondo alla graduatoria del «merito». Si può sostenere che è bene sia così? che quel Dipartimento ha il diritto di non essere meritevole? che almeno su quel piano, non va messo «in competizione» con altri?
[1] Alessandro Dal Lago, Premessa. La (s)valutazione della ricerca, in «Aut-Aut», n. 360/2013, n. monografico intitolato All’indice. Critica della cultura della valutazione, a cura di Alessandro Dal Lago, Il Saggiatore, Milano, 2013, pp. 3-13.
[2] Anvur, Delibera n. 50 del 21/6/2012, «Modalità di calcolo degli indicatori da utilizzare ai fini della selezione degli aspiranti commissari e della valutazione dei candidato per l’abilitazione scientifica nazionale», dall’art. 2.
[3] L’Anvur è stata istituita con Decreto Legge n. 262 del 3 ottobre 2006, convertito nella Legge n. 286 del 24 novembre 2006.
[4] Dal «Regolamento relativo all’organizzazione e al funzionamento dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur)», articolo 2.