Si è dunque smarrita quell’idea di scuola e di università che è stata alla base delle lotte e dei movimenti della seconda metà del Novecento, e che costituiva e costituisce uno dei fondamenti della Costituzione repubblicana. Ha anche una lunga tradizione storica in altri paesi a noi vicini o lontani. Ancor oggi rappresenta un’alternativa, e come tale va riproposta. È l’idea che scuola e università non abbiano una funzione linearmente e strumentalmente definibile. Sono ambiti di costruzione e diffusione delle culture e dei saperi. Sono terreno di un’acculturazione di massa secondo linee plurali e non convenzionali. Sono luoghi di confronto tra componenti ed espressioni diverse della società, con lo scopo di rielaborarne e regolarne tensioni e conflitti. Sono spazi di crescita civile di un popolo e di costruzione di coscienza. Hanno l’obiettivo di attenuare le disuguaglianze da sempre costitutive del corpo sociale, riportandole a nuove dialettiche e riprendendo una lunga tradizione di lotte per una pedagogia popolare. Devono promuovere l’elaborazione di un pensiero critico, lo spirito creativo, la ricerca scientifica, l’avanzamento tecnico, stabilendo tra essi un sistema di rapporti. Insomma, è l’idea per la quale la scuola può e deve essere il cuore della vita culturale e sociale di un paese, la strada maestra per la costruzione di una democrazia effettiva. Ma la democrazia ha molte facce: è necessario essere consapevoli del fatto che il sistema dell’istruzione è anche un apparato esteso di potere e di controllo, soggetto a influenze sia da fuori che da dentro. Da dentro, potere e controllo assumono forme non frontali ma invisibili, perché si esercitano attraverso le relazioni tra persone. Anche quelle relazioni vanno liberate, attraverso il dialogo e il conflitto, ridando agli studenti nuova centralità e riconvertendoli in soggetti.
Ma queste speranze sono state da tempo affossate e tradite. Siamo nel mezzo di una sconfitta epocale, che altre volte in passato è stata drammaticamente vissuta. Eppure, nulla come una grande sconfitta serve a riproporre i problemi e ad aguzzare l’ingegno. «Là dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva»[1]. È difficile dire oggi come un sistema di idee possa tradursi in comportamento e in prospettive reali. Un’alternativa richiede tempi lunghi, ma è necessario da subito scegliere e agire. Vi sono due presupposti perché un’iniziativa si renda possibile. Il primo (per noi nelle due scuole di architettura del Politecnico) è che si ristabilisca una solidarietà tra docenti, un rispetto personale e insieme un rapporto politico, che si sono da tempo perduti. In passato e in altre circostanze si è riusciti ad averli, attenuando i contrasti. Va ricostruita un’unità su obiettivi condivisi, scuola per scuola, situazione per situazione. Va realizzato, dentro la scuola, un coinvolgimento dei singoli che manca da tempo, e che è alla base di uno scoramento profondo e diffuso. Ma sono operazioni che richiedono volontà dichiarate.
Il secondo presupposto è che si ristabilisca un rapporto tra generazioni e tra persone che ricoprono ruoli diversi: tra docenti che per età stanno uscendo dalla scuola e altri più giovani; tra docenti e studenti; tra docenti «strutturati» e «precari». I rapporti tra generazioni cambiano nel tempo e non si ripetono uguali: non possono essere gli stessi che noi abbiamo vissuto. V’è, tra noi e i più giovani, disparità di esperienze e difficoltà a comunicare e a capire. È una difficoltà che si pone oltre la familiarità personale di molti coi giovani. È probabile che in questa fase, per istituire di nuovo uno scambio, la responsabilità maggiore stia dalla parte dei docenti. Ma è sicuro che la politica si riaffaccerà al mondo degli studenti in forme altre da quelle a noi note e in modi e in tempi che non è dato prevedere. Sarà un processo di emancipazione che avrà i giovani al centro, ma che non coinvolgerà solo loro. Un movimento di opposizione al corso degli eventi può nascere solo da una saldatura di interessi e da una condivisione di punti di vista, capace di coinvolgere categorie di persone con ruoli funzionali diversi, ma anche ceti sociali diversi. Non il mito di un movimento che nasce spontaneo dal basso; ma l’idea di un mosaico di iniziative, situazione per situazione, da costruire con pazienza, da ricomporre tra loro, da aggregare dentro e fuori l’università.
Bisogna che le università, e al loro interno le scuole, ricostruiscano relazioni tra loro e trovino strumenti per una nuova circolazione di idee. Vale anche per noi e per le scuole di architettura. Bisogna reinventare quello che è stato l’aspetto migliore della nostra esperienza storica: e cioè il rapporto difficile tra la ricerca nel campo della cultura, da un lato, e l’elaborazione e l’azione politica, dall’altro. Perché le scuole di architettura italiane tornino ad avere prospettive, è necessario che promuovano una politica comune e che dal loro interno nasca un disegno, che sia insieme di ridimensionamento e di riqualificazione. È un disegno che deve contemplare la riduzione forte del numero sia delle sedi che dei laureati; deve prevedere una differenziazione delle scuole per ruoli e per impostazioni; deve immaginare un rapporto nuovo con i territori e i loro problemi; deve evitare con tutte le forze il ritorno a modelli professionali; deve indicare una linea per rafforzare gli aspetti tecnici dell’insegnamento, e insieme per riportarli a una dimensione di riflessione e di pensiero. È una strada difficile, ma la sola che possa contrastare la politica autoritaria e repressiva che incombe, la sua violenza, l’arretramento che reca con sé. Una politica cui gli errori compiuti offrono troppe giustificazioni e troppi appigli.
Così va non corretto, ma cambiato in modo profondo il sistema delle valutazioni. Vanno mantenute a livello nazionale, ma moltiplicando le commissioni. Vanno in parte sottratte alla corporazione, introducendo membri esterni. Soprattutto, vanno reintrodotti criteri critici di respiro, negando la falsa obiettività del «merito» e della «misurazione». Alla logica competitiva del merito bisogna sostituirne un’altra di carattere solidale, considerando nel suo insieme il corpo docente e la possibilità di articolarlo per competenze e qualità. Va messa al centro la storia culturale complessiva dei concorrenti, non isolandone le pubblicazioni o badando alla carriera trascorsa. Vanno insieme individuati strumenti normativi che pongano argine alle clientele. Infine, va smontata una macchina gigantesca, inutile e costosissima, che costituisce uno spreco senza senso in un’epoca di tagli selvaggi della spesa pubblica. La dovizia eccezionale dei mezzi coincide con l’insensatezza dei risultati. Le scelte dentro l’università possono essere fatte, oltre che in modo semplice, anche in modo povero.
[1] Friedrich Hölderlin, Patmos. Al langravio di Homburg, inno del 1802; in F. Hölderlin, Tutte le liriche, ediz. in 3 voll. tradotta e commentata a cura di Luigi Reitani, con uno scritto di Andrea Zanzotto, Mondadori, Milano, 2013, vol. I, p. 358. Il verso è citato anche in Martin Heidegger, La questione della tecnica, conferenza del 1953, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976, p. 22.