In un testo memorabile di ARC[1], la rivista dei dottorati italiani di ricerca in composizione architettonica che raccoglieva gli studi più impegnati di teorie e progetto, Franco Purini sottolineava l’esistenza di una delegittimazione radicale dell’architettura che poneva l’ esigenza non più rinviabile, di un riposizionamento della disciplina. Si riferiva nello specifico ad:
-. una delegittimazione “sociale” nella capacità previsionale;
-. una delegittimazione, da parte della filosofia, del suo ruolo di centro di elaborazione teorica sull’architettura, impotente ad affrontare il problema concettuale di costruire definitivamente privilegiato;
-. una delegittimazione, da parte dell’urbanistica che la svuota dei suoi contenuti operativi mentre rivede i suoi limiti storici appropriandosi degli ambiti a essa deputati;
-. una delegittimazione, da parte della ecologia che la mette sotto accusa come pericolo.
In sintesi segnalava un disagio attuale dell’architettura per l’emergere dell’ idea del progetto come pericolo in una società sempre più esigente, sempre più orientata al controllo di qualsiasi intenzione trasformativa e ormai decisa al ritiro delle deleghe prima rilasciate alle singole professioni.
La diagnosi mi appariva calzante. E dopo più di dici anni ancora mi appare tale, almeno per l’architettura in Italia. Ritengo però che se gli architetti subiscono la situazione; essa è sintomo di un più profondo disagio che investe nel complesso l’intera società. Al quale si deve dare la massima attenzione.
Non si può però affrontare la causa della delegittimazione che sia timore del futuro o pessimismo sulla natura umana e sugli effetti della sua azione. Ma la delegittimazione stessa. E la motivazione radicale del costruire stesso. Non il problema teorico del suo concetto. Il fatto di costruire non è esaurito dal suo concetto.
Il saper costruire o saper fare non deriva dal pensiero puro, ma dall’esercizio del pensare nel fare.
Un saper costruire è bensì presupposto nel costruire ma come facoltà o, come sostiene F. Choay, come “competenza”, nell’accezione di Chomsky per la lingua, ma altro da essa.
L’esercizio del costruire, porta con sé un “quanto” di saper fare e ma soprattutto, simultaneamente, l’istituzione nell’ambiente locale di determinazioni logiche alle quali i comportamenti delle persone non possono sottrarsi.
Da un lato arte, scienza e tecnica sono solidali ed inscindibili nell’atto di costruire che diviene sapere.
Dall’altro nel contesto locale s’instaura una “logica” di relazioni: attrazioni, repulsioni, “giuste distanze”. Che generano direzioni di movimento : a raggio (attrazione), a circolo intorno repulsione alla giusta distanza.
È in questione, invece, il rapporto con la parola ed il suo “modo” di presentare alla mente i segni del pensiero. Perché, come si è detto, altro è il modo dei manufatti di presentare alla mente il pensato ed i suoi concetti. Giacchè si rivolgono al corpo e ne reclamano una interazione “somatica” cioè un comportamento, prima che un significato verbalmente dicibile. Questa interazione somatica è sapiente anche se priva di parole adeguate. Su questa sapienza preverbale che istruisce le lingue mi preme portare l’attenzione.
Sulla sapienza generata da una competenza “altra” da quella di “parlare”.
Piuttosto che sul costruire, è sulla istituzione di una logica somatica recepita dai corpi che la lingua può esprimere la sua forma di concettualizzazione e stabilire una interazione fertile (non necessariamente) per entrambe; soprattutto se mantenuta nell’alterità irrevocabile con l’altra.
Nel proporre all’attenzione questa facoltà degli uomini mi preme sottolinearne l’esercizio nell’esplorazione dei siti naturali e di quelli urbani.
Mi preme altresì evidenziare, per la rilevanza architettonica cioè per l’esercizio della competenza di edificare, lo specifico chiarimento che l’attenzione alla costruzione porta al sapere della percezione ed in particolare alla sinergia che l’esercizio della percezione comporta tra tattilità visibilità o tra massa e volume “prossimi” e “linee” (e superfici) lontane. Cioè tra “tattilmente” misurabile e “visivamente” incommensurabile.
Per l’apprendimento e l’insegnamento di tale sinergia somatica, oltre che per la estroversione della logica prossemica locale, la costruzione architettonica, e la città, che ne è il prodotto, sono insostituibili. Dunque per capire l’ambiente locale ed agire in esso.
Tale insostituibilità legittima a-priori l’esercizio della costruzione architettonica.
La legittimazione dell’architettura deriva dal sapere di questa interazione che si estroverte nella mappatura manufatta o costruita che “fa” città, cioè abitabilità sociale o interazione somatica manifesta nei comportamenti del senso comune.
I quali non conseguono alle leggi “scritte” ma alla prossemica somatica che deriva dall’atto tetico del “posizionare” e “fondare” una “fabbrica” che genera un’attrazione centripeto/centrifuga ed una repulsione che induce la circolazione ad una giusta distanza.
Una prossemica sapiente dell’accordo tra tastare l’intorno immediato e interagire con l’intorno più lontano e inaccessibile. Cioè tra commensurabile ed incommensurabile. Il cui principio discende dallo scambio simbolico tra corpo e cosa (albero o megalite) che conferisce alla cosa la relazione spaziotemporale con gli intorni prossimi e remoti.
Una volta posta questa ovvietà che coincide con la legittimazione originaria si possono affrontare i problemi della delegittimazione.
Piuttosto che procedere ad affrontarli, mi preme segnalare il rapporto tra idealismo quattrocentesco, invenzione del disegno d’architettura, e sperimentazione costruttiva, e figurativa, seicentesca, la fabbrica barocca. Evidenziare l’esercizio della competenza somatica di abitare/costruire e del sapere che ne deriva perché ciò che è stato chiamato barocco, come antiilluminsta, deve essere invece considerato il versante somatico della ricerca illuminista.
Vista così l’architettura “barocca” si può considerare implemento del sapere somatico moderno e premessa dello sviluppo artistico moderno, almeno nella ricerca plastica della modellazione che si vale oggi dei programmi informatici e della visualizzazione tridimensionale a schermo.
Post scriptum.
Nel portare questo contributo alla discussione sull’architettura oggi, porto l’istanza della mia riflessione. Non voglio però che appaia esclusivo. Piuttosto che inneschi una discussione.
Perciò considero questo contributo “reazione” alle istanze che i più giovani hanno sollevato a premessa di una propria dichiarazione a tesi.
Si tratta dei più recenti contributi che vengono da Roma e da Milano col titolo: “APPUNTI DI CRITICA DELL’ARCHITETTURA per un manifesto a tesi.” (Marta Burrai, Giada Domenici, Giovanni Pernazza, Alessandra Tenchini, Pietro Zampettie) e “Ipotesi di uno scenario al futuro” (Lorena Antea Caruana).
[1] n° 2 luglio 1997 pag.22.