Se un principio di urbanità è chiaramente leggibile all’interno della città consolidata attraverso la costituzione di uno specifico rapporto tra spazio aperto e tessuto costruito, in cui il primo è l’elemento di connessione e conformazione del secondo attraverso strade, piazze, ecc., i quali erano i luoghi, dal carattere collettivo riconoscibile e condivisibile, dove si svolgevano i rapporti sociali più importanti, oggi, contrariamente nel paesaggio della città diffusa questo viene meno, poiché le stesse regole di connessione non sono più sufficienti a definire un principio insediativo che non sia debolee marginale,risultatodiunprocessodiaccumulazioneeframmentazione.
La perdita di valore dello spazio aperto è infatti evidente, non solo nella costruzione di grandi figure territoriali, ma soprattutto nella definizione di figure minori che dovrebbero invece comporre il sistema di connessione del tessuto urbano e di conseguenza di un differente principio di urbanità.
La definizione di strategie compositive, che rispecchino un modo dell’abitare il territorio e la città mutato, diventa perciò un tema cruciale di riflessione sul progetto urbano, sia rispetto all’esistente, che ai futuri sviluppi edilizi. Se da un alto è necessario porre l’accento su un’operazione di protezione dello spazio agricolo residuale attraverso la ricostituzione di grandi figure a scala territoriale, come baluardo di difesa verso l’espansione edilizia, dall’altro è necessario ripensare a modalità differenti per ricomporre i frammenti di spazi a scala minore, al fine di creare una permeabilità diffusa molteplice, attraverso sia il ridisegno di luoghi esistenti, che la progettazione di nuovi oggetti architettonici (residenziali o terziari) e dello spazio aperto ad essi connesso.
Osservando all’interno di questa seconda categoria di spazi aperti è possibile ritrovare sia luoghi abbandonati o marginali, già da tempo definiti come terrain vague da Ignasi de Sola Morales, in attesa di un nuovo indirizzo architettonico, sia spazi funzionalmente attivi intesi come prodotto del costruito propri della città diffusa, quali parcheggi, spazi verdi generici, retri degli edifici, ecc..: spazi spazzatura, wasteful spaces, come li definisce A.Berger, o junkspace , come li definisce invece R. Koolhaas. Questi sono spazi aperti residuali ma densi, risultato di una precisa condizione normativa che assicura il funzionamento del tessuto edilizio diffuso, ma non la qualità formale delle relazioni spaziali, rendendoli solo potenzialmente efficaci, ma in concreto non strutturanti del tessuto urbano.
Entrambi questi spazi presentano un carattere comune legato al loro essere interstiziale e di scarto, residui di qualcosa d’altro. R. Smithson nella famosa passeggiata a Pessaic descrisse nitidamente questi luoghi come spazi interstiziali, ambivalenti, paragonandoli ad uno specchio: “in uno stato primitivo, un panorama zero, e contemporaneamente in fuga verso il futuro disfacimento. Uscito dal cantiere si trova in un nuovo territorio, un parcheggio dove si vendono macchine usate che divide in due la città: uno specchio in cui non si comprende la parte dove si trova. La realtà della città comincia a perdersi all’infinito nel suo doppio riflesso, due rappresentazioni di se stessa.” (F. Careri, Walkscape, pag. 119)
Come lo specchio infatti questi esprimono un’ambiguità formale, tra interno ed esterno, tra ciò che appartiene ad uno spazio adiacente e la superficie stessa, più ampiamente tra pubblico e privato. Al contempo ne esprimono una temporale legata all’inevitabile e alla rapida trasformazione. Questi luoghi vivono del qui e ora, senza né passato né futuro, carichi dell’inaspettato, ed esprimono un’ambiguità psicologica individuata da un disorientamento, estraniante e angosciante, ma anche da forte senso di apertura e di scoperta (G. Teyssot, Soglie e Pieghe, in Casabella n. 561).
Da un lato, questi sono spazi vuoti che sembrano senza significato, perché non modellati, dall’altro sembrano vuoti poiché non rientrano nei nostri occhi e nelle nostre mappe mentali, perché sono spazi di qualcun altro . Loose space, come li definisce E. Farini, ossia spazi non “imbrigliati”, però con infinite possibilità d’uso e significato, spazi vitali perché le persone li riempiono e li modellano. Spazi incompleti, multiformi, imprevedibili nel tempo e nello spazio, e soprattutto non appartenenti al paesaggio descrivibile dallo sguardo, ma attraversabili.
Infatti, da punto di vista sociologico, il termine interstizio ha un preciso significato “Il termine fu utilizzato da Karl Marx per qualificare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalista, poiché sottratte alla legge del profitto: baratti vendite in perdita, produzioni autarchiche … L’interstizio è uno spazio di relazioni umane che pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso”. (N. Bourriaud, Estetica Relazionale, pag. 15)
A questo fine sono Interessanti azioni artistiche, radicali e di partecipazione (community garden, park-ing day, ecc..) legati a questi luoghi, che hanno messo in discussione i principi figurativi e semantici degli spazi aperti, per riportare nuovi indicazioni sulla temporalità e spazialità del loro uso: “ […] a minimum of new actions, “the singualr practices” aforementioned, found with increasing frequency in today’s urban enviroment. They reveal the existence of a world rich in inventive-modes lifestyles, reinvent our daily lives, and reoccupy urban space with new uses. Walking, gardening, recycling, and playing underlie thousands of actions that we can undertake. Walking means occupying urban world in an appropriate manner, re-stablished social relationships. Gardening means caring for urban ground thinking about our society’s waste. Recycling means taking possession of physical and social city in unexpected and creative ways.” (M.Zardini, A new urban take over, testo pubblicato in What we can do with the city, pag. 16) Queste caratteristiche sembrano richiamare un antecedente architettonico di grande interesse, definibile come un invariante architettonico-urbano: il poché.
Questi spazi potrebbero essere difatti assimilati a dei contemporanei poché urbani da sviluppare progettualmente per il loro potenziale connettivo. Di certo non è pensabile considerare questo termine unicamente nella sua valenza figurativa, ma piuttosto il suo utilizzo dovrà essere ampliato verso una strategia architettonica. Questo “tropo” architettonico non è più legato unicamente ad una problematica spaziale e figurativa, secondo la lettura di L. Kahn, R. Venturi e C. Rowe, ma ad una strategia del vuoto, come la intende Koolhaas.
Se si osserva il territorio lombardo, in particolar modo all’interno della fascia del territorio nord-milanese, si può riconoscere come i tessuti urbani si siano sviluppati attorno ad un nucleo “storico” compatto, prima attraverso parti unitarie, quartieri degli anni ‘60-‘70, legati ancora ad un’immagine edilizia afferente alla città moderna e successivamente attraverso primi interventi di completamento di lotti adiacenti ai tessuti compatti e di estensione di colonie residenziali diffuse, definite da una maglia geometrica tracciata dalle strade di connessione e lottizzazione del territorio. Ciò non ha permesso la definizione di nuove figure urbane di spazio di aperto pubblico o semipubblico, piuttosto la polverizzazione di ogni forma di spazio aperto connettivo.
Recentemente però, rispetto a questa disarmante estensione di tessuti totalmente indifferenziati, si è rilevato lo sviluppo di nuovi tessuti edilizi più compatti e densi, placche (cluster) urbane (cfr. A. Lanzani) residenziali, terziari e industriali, dalle differenti strutture e dimensioni, disposti spesso ai margini dell’edificato o nelle zone più disponibili. All’interno della loro struttura insediativa è possibile rilevare tre elementi spaziali ricorrenti: la strada come infrastruttura di connessione; lo spazio parcheggio e lo spazio connettivo “collettivo” trattato a verde o a pavimentato, i quali fungono come una sorta di sequenza di agganciamento al contesto e di avvicinamento.
Questi sono riconoscibili come spazi ambivalenti e interstiziali, prodotto stesso dell’opera edilizia, che inducono ad essere a ripensati come luoghi adatti a sviluppare almeno in parte un nuovo principio di urbanità. Risorsa spaziale , sia in un’ottica di un nuovo progetto di suolo, che ne ricostituisca i bordi e la superficie, sia nella riconfigurazione di nuovi interventi, secondo logiche e pratiche compositive adatte: “Ciò porterebbe a realizzare un’articolazione dello spazio che non potrà più seguire innanzitutto né una tradizionale distinzione tra pubblico e privato, né una consueta occupazione del suolo ma una “urbanizzazione del privato”. L’importanza di quest’ultimo (lo spazio pubblico) non consiste, di certo, nell’essere più o meno vasto, quantitativamente dominante o protagonista simbolico, ma nel porre in relazione tra loro gli spazi privati rendendoli a loro volta patrimonio collettivo. Conferire carattere urbano, pubblico agli edifici e ai luoghi che senza sarebbero soltanto privati. Urbanizzare il privato, questo è il concetto: assorbirlo, cioè nella sfera del pubblico.[…] La periferia delle città metropolitana, vero centro, paradossalmente, della vita futura della città, sarà fatta di questi spazi che, senza retorica della rappresentatività formale, diventeranno i luoghi di interesse comune. Questo è il compito dei progettisti pubblici nella moderna progettazione della città fare di questi luoghi intermedi né pubblici né privati ma esattamente l’opposto, spazia non sterili […] Spazi di pertinenza ambigua sono oggi i più significativi nella vita sociale quotidiana, in quanto diverse tribù urbane possono usarli e appropriarsene in modo variabile” (E. de Sola Morales, Città Tagliate, Lotus Quaderns).