Il manifesto
Nel manifesto del futurismo pubblicato nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti racchiude una lettura profetica del cambiamento in atto nell’epoca in cui stava vivendo. Si capisce da subito che il poeta attinge dalla sua esperienza di vita in concreto attraverso la narrazione di un fatto che si dimostra come un’epifania; “il primo incidente automobilistico della storia della letteratura” come lo definisce Banham. Questo momento lascia Marinetti talmente abbagliato e folgorato dalla macchina e dalla sua estetica velocizzante e rivoluzionaria da essere utilizzato come incipit per il suo Manifesto.
Il mondo attorno a lui stava subendo cambiamenti radicali e Banham contestualizza l’ambiente in cui Marinette crebbe:
Questi fatti non potevano che richiedere un’estetica e una visione nuova della realtà. Talmente nuova da essere racchiusa nell’etimo “futuro”. Il movimento di cui Marinetti si pone alla guida viene chiamato da lui stesso Futurismo. Limite fondamentale di questo gruppo è la scadenza: dieci anni. Marinetti fissa così la durata dell’attività del gruppo che dovrà dunque riuscire a raggiungere gli obiettivi fissati nel manifesto in questo lasso di tempo. Ciò che i componenti del gruppo si pongono come scopo finale è l’affermazione di una serie di atteggiamenti mentali che permettano alla società e all’uomo di apprezzare l’estetica della macchina in qualità di componente indissolubile dell’avvenire. La macchina significa ovviamente efficienza ma soprattutto sviluppo. Lo sviluppo in campo industriale era ormai qualcosa di affermato già nel diciannovesimo secolo. L’industria aveva cambiato radicalmente il sistema produttivo. Ora andava invece cambiato il sistema percettivo. Marinetti aveva colto come macchina e movimento fossero qualcosa di unito e che avevano già prodotto una grande influenza nell’arte, basti pensare al cinema. Non è da escludere che anche la fotografia, anticipazione di quella ripetibilità meccanica dell’arte che Walter Benjamin segna quale grande cambio nella storia dell’arte, iniziasse negli anni di Marinetti a svolgere la sua azione rivoluzionaria sull’estetica.
La concatenazione di immagini meccaniche era dunque un fatto nuovo che suggeriva dinamismo e anche caos. Fu proprio il caos romantico del futurismo a divenire un motore contenente un’infinita quantità di energia potenziale. Marinetti intendeva utilizzare questo motore per spazzar via l’accademismo, la staticità propria del neo-classicismo, rompere con il passato e dare spazio al cambiamento. A titolo esemplificativo si può citare la volontà di sacrificare le convenzioni più radicate, quale quella dello spazio, messa in discussione perfino nella tipografia. Lo spazio come verità sacrificabile da il via allo smembramento della figura in pittura e scultura. Gli effetti sono notevoli.
Il manifesto tecnico della scultura futurista
Attraverso una cadenza quasi militaresca e una “programmaticità meccanicista”, il gruppo pubblica manifesti per tutte le arti. L’11 aprile 1910 viene dato alle stampe il Manifesto Tecnico della Pittura Futurista con la firma di Giacomo Balla. Il Manifesto Tecnico della Scultura Futurista fu pubblicato l’11 aprile 1912 ad opera di Umberto Boccioni. Questo è di certo uno dei più significativi in quanto racchiude tutte le specifiche necessarie per la nuova scultura. Egli ha chiari gli obiettivi, afferma che il fine ultimo dei cambiamento è “l’emozione plastica” e aspira a racchiudere “l’ambiente dentro la figura”. Si lancia contro la “statua chiusa” e illustra “l’intersecamento di piani” come nuovo metodo di lavoro atto a raggiungere la scultura d’ambiente.
La scultura deve quindi far vivere gli oggetti rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio, poiché nessuno può più dubitare che un oggetto finisca dove un altro comincia […]
Nella sua più amplia analisi del futurismo e del suo sviluppo, Banham tratta esaustivamente il viaggio a Parigi del gruppo futurista milanese, avvenuto nel 1910-1911, in quanto ritiene che sia questo il punto di svolta. L’incontro tra i cubisti di Parigi, in particolare quelli afferenti alla Ecole de Puteaux, fu per i futuristi decisivo. Banham sostiene infatti che sebbene:
L’interesse per lo smembramento delle forme era del tutto loro (dei futuristi); fu il metodo per ottenerlo che essi acquisirono a Parigi. Il loro interesse per i corpi in movimento era ugualmente loro, fu una convenzione per rappresentare il movimento che essi appresero dai Cubisti.
Nel testo viene citato il dipinto di Marcel Duchamp “Macinino da caffè” quale opera esemplificativa di questa scomposizione del movimento. I futuristi rimasero profondamente segnati da questo viaggio, e lo dimostra “Cane al guinzaglio” di Balla, ma ancor di più se ne trova traccia in Boccioni.
Per Banham egli compie una vera rivoluzione nell”opera “Sviluppo di una bottiglia nello spazio”, una rivoluzione che parte da Cézanne e Picasso ma che i due artisti non erano riusciti a portare a compimento. Boccioni unisce la teoria milanese con la pratica parigina: usa il movimento della rotazione come forza generatrice di movimento e ne analizza e scompone gli effetti. Tale movimento non vi è da escludere sia il gesto più suggerito dall’azione della macchina in sè. Quest’operazione, non nuova per l’appunto, viene però sistematicamente impiegata e riesce a svincolare l’opera dalla tendenza ad appiattire propria del cubismo. Per il Banham siamo di fronte ad una conquista poetica che trova le sue origini in Bergson e Einstein: la concezione dello spazio come campo di forza o di influenza che si irradia dal centro geometrico degli oggetti.
Banham, nella sua critica, sottolinea che la dimostrazione dei principi esplicati all’interno del Manifesto si può ritrovare proprio in quest’opera.
L’arte scultorea viene ora pervasa da nuovi stimoli e si tenta di mettere in forma plastica la persistenza retinica dell’immagine, frutto dell’estetica del dinamismo professata da Marinetti.
Boccioni marca molto l’accento sul carattere astratto che devono avere le arti e in particolare la pittura; rifugge la mimesi con la natura e il figurativismo, nonché il romanticismo. Parlando di scultura non tralascia la questione dei materiali e sprona all’uso di materiali più atti alla costruzione quali legno, bronzo, vetro, gesso e qualsiasi altra materia.
Così dei piani trasparenti, dei vetri, delle lastre di metallo, delle luci elettriche esterne o interne potranno indicare i piani, le tendenze, i toni, i semitoni di una uova realtà.
In questa frase si può intravedere una pre-figurazione delle architetture che da lì a qualche anno verranno costruite dagli esponenti del movimento moderno. Se l’architettura rivesta o meno un ruolo dominante nel pensiero di Boccioni diviene inequivocabile quando egli dice:
E questa sistematizzazione delle vibrazioni delle luci e delle compenetrazioni dei piani produrrà la scultura futurista, il cui fondamento sarà architettonico, non soltanto come costruzione di masse, ma in modo che il blocco scultoreo abbia in sé gli elementi architettonici dell’ambiente architettonico in cui vive il soggetto.
Manifesto dell’architettura
Quando si parla della “nuova architettura” si fa riferimento al Manifesto dell’architettura futurista pubblicato l’11 luglio del 1914 a nome di Antonio Sant’Elia. Banham si interroga su chi abbia effettivamente concepito per primo del manifesto firmato da Sant’Elia e ricorda che Marinetti aveva trattato nei suoi scritti largamente del nuovo tipo di città come città antimonumentale propria della democrazia. Ed aveva elogiato la centrale elettrica come apoteosi della tecnica ed esempio dello spirito moderno della metropoli, tumultuosa, piena di automobili, treni e tram. Marinetti aveva anche fatto un elogio dell’estetica della macchina, indicando obiettivi di progetto architettonico (l’estetica corrisponde direttamente all’utile). Concependo perciò la città in un vortice romantico e nichilista, la vedeva come qualcosa che va distrutto e ricostruito periodicamente in quanto dovrà rispondere alle esigenze del suo tempo.
Banham poi riferisce di un altro testo firmato Sant’Elia, ma apparentemente elaborato da Ugo Nebbia, comparso nel maggio del 1914 con il titolo di Messaggio. Nel volume si riporta per intero questo testo del Messaggio che appare allo stesso Banham
di gran lunga più genuino e meno retorico rispetto al Manifesto pubblicato nello stesso anno. Qui sono contenuti i temi fondamentali: la necessità di una nuova casa intesa come gigantesca macchina atta allo svolgersi della vita dell’uomo moderno e che possa contenere tutto ciò che la tecnica avrebbe via via sviluppato a favore dell’abitare moderno; viene poi affrontato il tema dei materiali che quasi coincidono con quelli che Boccioni identifica per la nuova scultura; il rifiuto dell’ornamento; l’affermazione che il problema dell’architettura moderna non si possa risolvere sulla facciata ma che sia una rivoluzione che parte addirittura dalla città e che in secondo luogo cambia gli edifici. Banham, commentando il Messaggio, non manca di osservare la straordinaria carica premonitrice dei contenuti e li paragona ai temi di dibattito dei moderni che stavano in quegli anni rileggendo i razionalisti ottocenteschi quali Choisy e Gaudet. Sant’Elia appare allineato con i suoi contemporanei sebbene non fosse venuto con loro a contatto: lo si potrebbe paragonare a Loos, che aveva contemporaneamente scritto Ornamento e Delitto, ma con il quale non entrò mai in contatto.
Senza dubbio invece i disegni della serie La Città Nuova sono opera di Sant’Elia. Nelle prospettive prodotte dal 1912 al 1914 si notano edifici con superfici lisce, prive di decori, che sormontano una città organizzata su più livelli (fino a 7). Il fatto che i disegni a noi pervenuti siano prevalentemente disegni prospettici anziché piante ed alzati è segno, secondo Banham, del fatto che il disegno prospettico fosse uno strumento di lavoro primario per l’architetto futurista.
Come chiusa del Messaggio si trova una frase chiave:
E infine affermo che, come gli antichi trassero ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi – materialmente e spiritualmente artificiali – dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’architettura deve essere la più bella espressione, la sintesi più completa, l’integrazione artistica più efficace.Quando Sant’Elia morì nel 1916 nella battaglia di Monfalcone, morì anche la speranza di un’architettura futurista. L’unico erede dell’architetto comasco fu Mario Chiattone il quale non produsse materiali ascrivibili al movimento dopo la fine della prima guerra mondiale. Di certo l’architettura prodotta da Terragni a Como deve molto all’avanguardismo di Sant’Elia. Fu però l’estero che più si dimostrò recettivo del messaggio futurista in campo artistico e architettonico.
Internazionalizzazione del futurismo
In particolare il circolo nato dalla rivista De Stijl in Olanda può considerarsi, a detta di Banham, un erede del movimento futurista.
L’interesse per Sant’Elia e il movimento futurista nacque in Olanda dopo il 1917, data di fondazione del gruppo, quando Marinetti presentò i disegni del l’architetto italiano prematuramente scomparso. Alcuni componenti di De Stijl avevano subìto il fascino dell’estetica della macchina attraverso la lettura di alcuni scritti di Wright dove si esaltava la macchina in quanto innegabile protagonista di quegli anni ed esortava ad un sapiente utilizzo di essa a vantaggio dell’architetto. Il traghettatore fu soprattutto Berlage, un razionalista, che trasmise i nuovi contenuti wrightiani ai suoi seguaci Oud, Van Thoff, Van Doesburg, Rietveld. Secondo Banham:
La relazione Wright-Berlage riempì un vuoto nello spettro delle teorie architettoniche che andavano dai Futuristi a un estremo, ai Razionalisti e agli Accademici all’altro […]Il movimento si muove con agilità tra l’eredità dei futuristi: idolatra la macchina in quanto mezzo per la liberazione sociale (Van Doesburg), parla della metropoli come il luogo dove vuole albergare lo spirito dell’uomo moderno (Mondrian), parla del cemento armato e del vetro come nuovi materiali dell’architettura moderna (Oud).
Proprio come all’interno del gruppo milanese, anche nel movimento olandese prevale un tentativo di razionalizzazione che si traduce in una cifra di astrattismo. Come suggeriva Boccioni, anche De Stijl boccia qualsiasi tipo di mimesi con la natura e rifugge la figura. Van Doesburg scrisse in più occasioni come la macchina, aiutando la separazione Uomo Natura, acceleri la spiritualizzazione della vita:
Non è la natura che deve prevalere nella vita dell’uomo moderno ma bensì è il suo stesso spirito che deve affermarsi. La supremazia dello spirito si ritrova anche in un testo caposaldo dell’arte astratta, Lo Spirituale nell’arte. Va chiarito che con spirito non si intende in nessun modo stile. Banham illustra ampiamente quanto fosse importante per gli olandesi una spersonalizzazione dell’arte, una anonimia figlia dell’antideterminismo. A dimostrazione di ciò si cita l’apprezzamento da parte di Oud per il cemento armato quale materiale liscio, neutro e anonimo. Nel volume seguono poi frasi che asseriscono come De Stijl vedesse quale proprio fine un forza di cambiamento morale nella vita moderna e nell’artista moderno. Quell’energia potenziale del caos futurista viene ripresa per rivoluzionare tutti i campi; ma viene anche imbrigliata e universalizzata e forse grazie a questa operazione riesce a raggiungere punti così alti.
Oltre al futurismo, Banham afferma che il movimento olandese debba molto anche al cubismo. L’apprezzamento per la linea retta non viene nascosto da Oud:
Ma per me la linea di sviluppo rivelata appare retta;e dovesse dimostrarsi tortuosa, resterò fermo nel mio diritto di considerarla retta. Questa linea è per me essenziale.La lettura che Berlage fa del cubismo è tanto profetica quanto diversa da ciò che veramente accadeva a Parigi:
La necessità di numeri e misure, di pulizia e ordine, di standardizzazione e ripetizione, di perfezione e alta finitura; le proprietà delle strutture del vivere moderno quali , nella sfera delle condizioni sociali la tecnica, i trasporti e l’igiene e, tra le circostanze economiche, i metodi di produzione di massa – tutto ciò trova la sua anticipazione nel cubismo.Anche Van Doesburg esprime la sua lettura architettonica del cubismo:
Attraverso l’analisi della forma naturale, l’inizio della transizione dal naturale allo spirituale, dall’illustrativo al creativo, dal chiuso allo spaziale.Queste affermazioni ci fanno capire che se il Futursimo assurge a ruolo guida nell’estetica e nella spinta, il Cubismo viene preso invece a esempio nella metodologia e nei risvolti pratici dell’azione. Appare interessante, infine, come Banham, vista l’ammirazione per l’ordine contenuta nelle parole di Oud, definisca l’atteggiamento dell’architetto olandese un Classicismo astorico.
Federico Marani