Creare identità. La questione è urgente e parrebbe cosa buona e giusta.
Lo sterminio di suolo manifestato in orizzonti generici, conurbazioni senza nome, luoghi senza luogo, dovrebbe gridarne la necessità. “Ci sono tre elementi: strade, edifici e natura […] Uno qualunque dei tre può avere la meglio: certe volte a perdersi è la strada, che serpeggia in deviazioni incomprensibili; certe volte non si vedono edifici, solo natura; poi, altrettanto imprevedibilmente, ci si trova circondati solo da edifici. In certi punti spaventosi tutti e tre sono contemporaneamente assenti.” (Rem Koolhaas, La Città Generica, in Junkspace.Per un ripensamento radicale dello spazio urbano. Quodlibet, Macerata, 2006)
Invece di manifestare un lamento (dalla base), la ricerca dell’identità perduta, talvolta persino mai avuta, rivela una strategia di mercato (dal vertice): un sottosuolo su cui incrementare il consenso, le risorse, il profitto.
Si crea così una realtà seducente anche se fittizia, una caratterizzazione controllata, manipolata, esasperata: magari inventata a tavolino. “[…] constituir y hacer respetar una cierta unidad de espíritu que haga viable una experiencia de lo urbano como una cultura homogénea y unificada, susceptible de generar y movilizar afectos identitarios especificos.” (Manuel Delgado, La ciudad mentirosa. Fraude y miseria del “modelo Barcelona”. La Catarata, Madrid, 2007)
Nascono la città della moda, quella del gusto. La città della memoria e quella del futuro. Al pari dei prodotti da supermercato, le città -le metropoli come le province- si sfidano a colpi di pubblicità, slogan, manifesti. Simboli di una curva di valori flettente, con il risultato contrario, di tendere all’uniformità ben prima dell’infinito.
Quella che vorrebbe sembrare la sconfitta della Città Generica, altro non è che la manifestazione della sua evoluzione logica. Quando la dispersione urbana diminuisce il peso dei centri storici sulle praterie periferiche, il carattere specifico, per resistere in borsa, va venduto all’inverosimile, fino a perderne la specificità stessa.
L’iper-genericità imperante, scade nell’accentuazione caricaturale di un’identità urbana alleggerita, vaga e onnipresente.
Che diventa marchio, un brand.
Il governo della città si trasforma in SpA. Attrarre city-users diventa qualcosa in più che l’obiettivo di un gioco di ruolo: motivo di sopravvivenza, fondo di sviluppo, unica alternativa possibile d’evoluzione funzionale. Il paradosso: vendere l’immagine della città per poterla mantenere in vita. Per poter sviluppare le infrastrutture, per poterla trasformare e rinnovare, colmare le lacune, rispondere ai servizi.
L’architettura prende parte del gioco e diventa generatrice di identità brand new, letteralmente nuove di zecca, quindi di patrimonio e di ricchezza. Il manufatto urbano, da opera d’arte collettiva, diviene museo di solisti, in un concerto stonato di esasperazioni e incongruenze.
Funzionò a Bilbao, il rischio è che non funzioni più, o almeno che non basti. Il fenomeno infatti si è globalizzato rapidamente, generando il paradosso di un’ omologazione formale e funzionale della città. Una proliferazione di eventi, monumenti, servizi tra loro multipli, copie di copie: che davvero dell’identità urbana non sia rimasto che un logo?