Il milieu di riferimento
Il redigere un testo come questo ha in sé un portato di reminiscenze che, inevitabilmente, porta al tirare le somme di un capitolo, ancora aperto, ma che ha oramai dei contorni definiti e netti.
In fondo, quest’anno, il Premio Piranesi, è diventato maggiorenne. O meglio: in quest’anno così travagliato e vessato, in particolar modo da questo contagio ingestibile che tanto le nostre vite sta cambiando, abbiamo, faticosamente, organizzato la diciottesima edizione.
Mi rendo perfettamente conto di quante cose siano mutate nel frattempo e di quanto siano cambiati i protagonisti di queste vicende, ma le motivazioni ed il contesto in cui tutto questo nacque sono limpidissimi nei miei ricordi.
Non si può prescindere dalla descrizione di una situazione particolare che ha portato a tutto questo, e tutto questo ruota attorno alla figura di Pier Federico Caliari.
Sul finire del secolo scorso Chicco, come è da tutti conosciuto, è ancora un giovane professore a contratto del Politecnico di Milano dove insegna Museografia. La sua energia, il suo carisma, la sua curiosità ed i suoi talenti lo avevano portato a creare attorno a sé un consesso di persone, composto principalmente da collaboratori e studenti, che poteva già essere considerata una piccola scuola.
In quegli anni si assisteva al fermento culturale che si respirava fra una nuova generazione di studenti universitari – soprattutto quelli che tornavano dai primi programmi Erasmus – che stava vivendo in maniera totalizzante la conquista della scuola da parte del digitale e del disegno automatico e, soprattutto, l’affermazione del web come strumento di conoscenza alternativo ai libri ed alle riviste.
Era chiaro come tutto stesse cambiando per sempre.
All’interno di questa rivoluzione, Chicco Caliari, stava offrendo ai suoi ragazzi una nicchia didattica fatta di grande continuità fra docenti e studenti fondata su di un programma culturale molto ricco e sul coinvolgimento reciproco. Tutto questo contribuiva, in un mondo dove ancora la maggior parte dei corsi degli ultimi anni era opzionale, alla creazione di un gruppo di lavoro, a suo modo, selezionato.
L’appoggio di alcuni docenti strutturati, come Giandomenico Salotti nel primo quinquennio degli anni Novanta, ed Ernesto D’Alfonso a cavallo del Millennio, permettevano all’attività didattica e di ricerca del gruppo (composto tutto da assistenti volontari) di svilupparsi anche in fecondi percorsi di laurea.
Ad un certo momento, e precisamente nel 1998, la ricerca del gruppo si rivolge sostanzialmente in due direzioni: da una parte, verso l’architettura e la museografia per l’archeologia come sperimentazione di trasformazioni su impianto stabile e dall’altra verso le forme dell’effimero, intese come performances comunicazionali riferite alla breve durata. L’influenza di realizzazioni come il Teatro di Sagunto di Giorgio Grassi o il Museo di Arte Romana di Merida di Rafael Moneo avevano dato in qualche modo una direzione preferenziale, assieme al volume dello stesso Grassi, Architettura lingua morta, principale riferimento teorico, al primo tema. Il secondo invece si basava su una ricerca di natura più artistica, basata su referenzialità neoplasticiste, ma sempre collocata in ambito archeologico.
In effetti l’indagine dei possibili effetti della conoscenza dell’antico all’interno del progetto di architettura contemporaneo costituiva il nucleo centrale dell’investigazione che sottendeva ogni nostra ricerca, andando peraltro a colmare la lacuna della quasi totale assenza di padronanza della storia, del disegno e della sintassi classica da parte degli studenti di allora. Era evidente, come il problema si interfacciasse e avesse a che fare con quel nervo scoperto che è la messa in discussione di una serie di prassi che la Modernità ha, molto rapidamente, imposto e in qualche modo consolidato. Erano quindi queste le premesse che preparavano il terreno per la nascita di quanto ci muoviamo a raccontare.

In un pomeriggio, allo Studium Urbis
E poi la scintilla. Scintilla accesa nella città d’elezione delle nostre riflessioni, Roma, durante una riunione presso lo Studium Urbis di Alla Ceen, docente della Pennsylvania State University e Fondatore. Presenti oltre a lui, Caliari, Piero Meogrossi, Architetto della Soprintendenza Archeologica di Roma e Romolo Martemucci, Dean di architettura del programma romano della Penn State University. Fu in quell’occasione che nacque l’idea di proporre un workshop di progettazione – allora l’offerta era decisamente minore di oggi – in area archeologica. In una sola riunione nacque il Seminario Internazionale di Museografia Villa Adriana – Premio di Architettura e Archeologia Giambattista Piranesi. Un nome eccessivamente lungo, poi ridotto al semplice Premio Piranesi, oggi Piranesi Prix de Rome. Ma se la nascita è stata in qualche modo fulminea e priva di ostacoli, la storia del Premio registrerà una evoluzione continua e complessa fino a diventare un punto di riferimento internazionale per gli studi accademici sul tema disciplinare dell’architettura per archeologia, che prende corpo e statuto proprio nel quadro delle diciotto edizioni del premio dal 2003 ad oggi.
Il modello di riferimento era quello esperito per più di duecento anni dai Pensionnaires del Prix de Rome che, dopo aver vinto il Prix, avevano la possibilità di trascorrere un lungo periodo di apprendistato sul “suolo classico”, fra rilievi e progetti, prima di rientrare in patria per diventare architetti dell’élite. Quindi un processo che prevedeva una formazione basata principalmente sull’esperienza diretta dei monumenti e delle rovine in situ.
Il riferimento alla tradizione accademica dell’École de Beaux Arts stava diventando strutturale. “(…) Le borse di studio che davano accesso al soggiorno sul “suolo classico”, e che presto si trasformava in Grand Tour, erano annuali e davano accesso ad un processo euristico di formazione di altissimo livello: […] per circa due secoli gli architetti pensionnaires dell’Accademia di Francia a Roma interrogarono per compito statutario i monumenti antichi della città attraverso il rilievo (envois), con occhio acutamente filologico, oppure con passione ricostruttiva, nutrendo di questi lieviti basilari la loro futura produzione in patria e costituendo al contempo negli archivi dell’Ecole des Beaux-Arts di Parigi quella che si potrebbe definire, con linguaggio informatico, una straordinaria banca-dati, un repertorio pressoché infinito di edifici, opere d’arte, dettagli decorativi ormai pienamente storicizzati.”1
Il reclutamento degli studenti aveva come principale bacino la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e la Penn State University di Roma. Seguite a breve dall’Università Federico II di Napoli e dalla Sapienza di Roma.
Il nocciolo dello studio del seminario fu ben presto individuato nella necessità di una ricucitura del dialogo fra Architettura ed Archeologia. Un dialogo da tempo interrotto e che vedeva (vede?) gli esponenti delle due discipline impegnati esclusivamente sul proprio specifico disciplinare senza interessi teoretici da condividere. Noi all’epoca consideravamo il confronto con gli archeologi un obbiettivo non procrastinabile per la conoscenza dei documenti e per il rigore scientifico della ricerca, ma, al tempo stesso, ritenevamo che fossero gli architetti quelli in grado, attraverso il testo del progetto, di interpretare e rielaborare il palinsesto, visto a partire da un’ottica comunque ancora totalmente inquadrata in una prospettiva modernista.
Siamo quindi stati noi per primi a cercare gli archeologi, che invece almeno in una fase iniziale, hanno mostrato freddezza nei confronti delle seduzioni prospettate degli architetti, anche in ragione dei reiterati insuccessi del modello modernista rapportato all’archeologia. Tuttavia, in seconda battuta, riuscimmo ad individuare in una triangolazione disciplinare la cerniera su cui saggiare questo comune terreno di confronto, attraverso l’introduzione della Museografia. Una disciplina, quella del mostrare, che si rivelava come l’unica in grado di tenere assieme il mondo degli architetti con quello degli archeologi, come il campo di azione dove il dispiegamento dei differenti giochi linguistici poteva coesistere, concedendo aperture e misurati scambi sul comune obbiettivo della comunicazione culturale.
La scelta di Villa Adriana come sede del Seminario e luogo eletto all’applicazione delle nostre indagini progettuali è stata consequenziale, dettata, fondamentalmente, dal suo essere intimamente un paradigma, una lezione declinabile eppure perpetua.
Come chiarisce in un suo denso articolo Ernesto D’Alfonso: “[…] Villa Adriana appartiene alla temporalità odierna ed alle forme urbane d’oggi. Come presente dell’archeologia. Appartiene alla metropoli regionale entro la rete delle città del mondo. Ne è uno dei luoghi multiscala. Referente entro il tempo dei flussi turistici, di una prossimità diacronica con il passato remoto. Che per di più rimanda ad una interrogazione radicale sulla tipologia architettonica. Al cui progetto suggerisce procedimenti compositivi a partire dalla costruzione grandiosa e ardita, o monumentale […]” e ancora “[…] procedimenti antichi di costruzione interiore basati sulla mappatura mentale di una architettura esistente. Dove ciò che conta per l’architetto è riscoprire l’esercizio di mappatura mentale come progetto e disciplina per il progetto.”2
Oggetto di continua teoresi attraverso i secoli per architetti come Kahn, Le Corbusier, De Carlo, ma anche come Raffaello, Pirro Ligorio, Palladio o Piranesi, il ruolo di grande meta della cultura architettura assunto dalla Villa è ampiamente documentato e fissato su pubblicazioni, incisioni, progetti ed architetture realizzate. Questo ci ha indotto a ritenerla altrettanto valida per le stesse finalità rivolte agli studenti. Il suo carattere fondativo e le sue aperture transdisciplinari sono evidenti e ancora oggetto di numerosissime indagini, consentendoci di ampliare le nostre proposte progettuali alle differenti scale del progetto. Le analisi, infatti, coinvolgono le infrastrutture che servono la Villa, come la via Tiburtina o il fiume Aniene utilizzate come vie preferenziali di connessione con Roma e per il trasporto dei materiali, ma anche i numerosi acquedotti già presenti nel territorio per l’approvvigionamento di quell’acqua così indispensabile sia per il funzionamento di un complesso che, a pieno regime, vedeva la presenza contemporanea di più di 2000 persone, sia per l’impianto scenografico che tanto caratterizza il sito.
Ovviamente viene coinvolta anche la dimensione del paesaggio il quale, fin dalla fondazione della residenza adrianea, è stato modellato ed adattato alle necessità progettuali degli architetti imperiali prima, e dai Gesuiti poi fra il XVII ed il XIX secolo, con l’impianto del gigantesco uliveto ancora oggi sovrapposto all’archeologia e che costituisce la trapuntatura del sedime della villa e del suo territorio.
Sotto questo punto di vista è la pianta di Villa Adriana che determina un punto di svolta monumentale e crea quello iato non più risarcibile con il passato.
“[…] Villa Adriana, invece, fa tesoro di tutto quanto era stato iniziato e fatto fino a quel tempo e da quel momento in avanti si pone come nuovo modo di immaginare l’architettura e l’uso della storia. […] Questa pianta non è la pianta di un edificio o di una città, è l’incastro continuo, sistematico, metabolizzato, è quasi un tessuto cerebrale. Tutti gli altri imperatori si erano fatti costruire dei meravigliosi spazi: piazze, colonnati. Qui non c’è niente che funzioni secondo una logica, è tutto un sistema di incastri. L’innovazione fondamentale di questa struttura è che le funzioni sono isolate. È un’operazione modernissima, nel senso più profondo della parola: le funzioni non sono integrate, mescolate, ma sono tutte leggibili e tutte divise.”3
Tutto questo in un contesto tipologicamente indecifrabile che, di fatto, annulla il rapporto forma/funzione e legittima l’impulso progettuale come processo di rinascita continua attuata sondando le possibilità rigenerative della rovina nelle ipotesi ricostruttive o, più semplicemente, additive. Sviluppi resi possibili dalla distanza temporale ab origine nel passato e insondabili nelle opportunità delle reinterpretazioni. Le edizioni del Premio Piranesi che si sono succedute nei primi anni erano quindi figlie di una fortissima tensione progettuale, ma se è vero che “il Premio Piranesi nasce dallo spirito del Prix de Rome” era inevitabile che gli aspetti legati al rilievo ed alla restituzione fossero se non preminenti, di certo non secondari. Fu proprio a fronte di queste necessità che un gruppo di lavoro, all’inizio coordinato dal Prof. Bini dell’Università di Firenze e guidato sul campo dal Prof. Verdiani con l’aiuto di alcuni giovani collaboratori (mi limito qui a ricordare Filippo Fantini e Sergio Di Tondo per la continuità della ricerca), iniziò per primo un’opera sistematica di rilevamento scientifico digitale. Un lavoro questo sempre effettuato sotto la supervisione della Soprintendenza Archeologica del Lazio e, in particolar modo della Dott.Ssa Adembri, che ancora dirige il sito archeologico.
Negli anni le collaborazioni si sono ampliate, non solo in termini quantitativi coinvolgendo sempre un maggiore numero di università, italiane e straniere, ma anche in termini qualitativi, ampliando le aree di ricerca, sempre più connesse con la didattica.
In questi termini vanno lette l’adesione di referenti oramai partners fissi del Premio, ferme restando le istituzioni presenti fin dalla fondazione, come IUAV di Venezia, Università Politecnica delle Marche, Alma Mater Studiorum – Università Di Bologna o il Politecnico di Torino in Italia e Universitat Politécnica de Valencia, Escuela Tecnica Superior de Arquitectura, University of Architecture and Urbanism Ion Mincu of Bucarest, Faculty of Architecture ed Istanbul Technical University all’estero.

L’Accademia Adrianea e l’invenzione dell’Architettura per l’Archeologia
Tutte queste pulsioni, ricerche e le conseguenti attività di organizzazione, produzione di letteratura e organizzazione di convegni scientifici ad un certo punto cominciavano ad avere bisogno di una sistematizzazione, operazione che ha visto la luce con la nascita, nel 2007 dell’Accademia Adrianea di Architettura ed Archeologia Onlus, un’organizzazione senza scopo di lucro attiva nel settore della ricerca e della formazione sui temi della valorizzazione e riabilitazione dei beni culturali e archeologici, che opera in un ampio quadro di relazioni istituzionali a livello internazionale.
Nel frattempo, inoltre, l’inaspettato, quanto meno nelle sue dimensioni, successo del Premio Piranesi e l’adesione costante di un larghissimo numero di studenti ogni anno, aveva fatto nascere, prima nelle menti degli organizzatori, con in prima fila sempre Caliari, e, successivamente, in maniera attiva, un percorso di Master che permettesse agli studenti, ma, ovviamente, anche ai ricercatori, di proseguire le proprie indagini nell’ambito della progettazione in aree archeologiche.
In questo modo vide la luce Il Master Itinerante in “Museografia, Architettura e Archeologia, Progettazione Strategica e Gestione Innovativa delle Aree Archeologiche”, istituito sulla base della particolare formula dell’itineranza, con la specificità di avere un insieme di sedi differenti, dove tenere singoli workshop di studio e progettazione. Questa particolare formula non solo permetteva ai partecipanti di non interrompere per un periodo continuativo le proprie attività universitarie, ma creava per l’Accademia la possibilità di moltiplicare le collaborazioni, attive e non di sola facciata, con altre istituzioni, creando i presupposti per poter lavorare in alcuni dei siti archeologici più importanti e straordinari del mondo e dandoci la possibilità di verificare sul campo alcune delle ipotesi di ricerca sviluppate.
I rapporti, in questo modo si sono, negli anni, potuti estendere al Pratt Institute di New York, SAIA – Scuola Archeologica Italiana di Atene, Soprintendenza del Mare di Palermo, Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Roma e Provincia, Staatliche Museen zu Berlin, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung Berlin, David Chipperfield Architects Berlin, Italian Cultural Institute in Berlin, Han Yanling Museum di Xi’An, Grande Biblioteca di Alessandria d’Egitto, Scuola Germanica di Archeologia del Cairo, Castello e Teatro Romano di Sagunto, ecc..
È interessante constatare come, proprio nello stesso anno di nascita del Master organizzato dall’Accademia Adrianea, il 2007, ne nasceva un altro sugli stessi temi, ma con formula ed orientamento fortemente differenziati, promosso ed organizzato dall’Università la Sapienza e co-diretto da Clementina Panella, direttore del Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità e da Lucio Valerio Barbera, preside della Facoltà di Architettura Ludovico Quaroni.
L’interesse per la disciplina si era ormai ridestato.
“In sostanza il Master dell’Adrianea è l’incontro tra l’ideologia settecentesca della bildung classica, (di cui si recupera il forte senso di modernità, la chiara definizione della stessa rispetto all’antichità e la tensione al nocciolo stesso dell’architettura come analisi e ricognizione della testimonianza archeologica), con una fortissima domanda di esperienza alternativa a quella del quinquennio universitario, resa possibile da schemi flessibili e riduzione al minimo della massa burocratica.”4
L’istituzione del Master ha ulteriormente realizzato uno dei presupposti che l’Accademia si era posta: la possibilità di creare un dialogo costruttivo ed efficace fra le discipline dell’Architettura e dell’Archeologia. E questo non si è verificato solo attraverso i workshop di progetto e studi organizzati in tutto il mondo, ma anche attraverso l’istituzione di un workshop, sempre all’interno del percorso di Master, dedicato all’attività di scavo seguito da archeologi professionisti e condotto scientificamente da Benedetta Adembri.
Un’esperienza totalmente impensabile precedentemente, per studenti delle facoltà di architettura.

I Maestri e la legittimazione.
L’aspetto scientifico ha, però, sempre mantenuto, nelle nostre attività, un doppio risvolto orientato verso le strette necessità della didattica come per quelle più propriamente connesse all’architettura costruita ed alla professione, conferendo a quest’ultima anche un ruolo di avallo rispetto alla prima.
Risultava, infatti piuttosto evidente e diffusa tra studenti, tutors e docenti giovani, una forma di disillusione riguardi delle attività progettuali sviluppate all’interno delle aule universitarie e della loro reale possibilità di conferma una volta collocate all’interno del mondo della professione.
Per cercare di uscire da questa tipo di percezione abbiamo individuato come necessario un confronto diretto e tangibile con Maestri che venissero a presentare le loro opere realizzate, da un lato per dimostrare che le ipotesi progettuali che noi offrivamo non fossero solo voli pindarici, ma dall’altro, per sviluppare quell’aura che rapporto diretto con i grandi nomi del panorama internazionale riesce a creare.
Sulla scia di queste considerazioni, dal 2010 è nata la Call per premiare le architetture costruite in aree archeologiche e che viaggia parallelamente al Prix de Rome alla carriera con il quale vengono insigniti gli architetti che si sono particolarmente distinti negli anni con le loro opere.
L’opportunità di apprendere direttamente dalla voce dei protagonisti il racconto delle logiche progettuali, il sentire dipanare le complessità dell’architettura per l’archeologia, non solo sviluppa fiducia nel progetto per il patrimonio, ma contribuisce a costruisce una panorama sullo stato dell’arte di questo settore della disciplina, tutt’altro che minoritario.
Avere come relatori Moneo, Chipperfield, Eisenman, Campo Baeza, Souto de Moura e molti altri non solo ha corroborato la conferma della bontà delle nostre ipotesi, ma ha anche, inevitabilmente, alzato il livello della riconoscibilità del Premio Piranesi e dell’Accademia Adrianea.
Inoltre, il confronto diretto con i maestri ha, spesso, aiutato a farci aggiustare il tiro sulle nostre indagini anche speculative ed a collocarci all’interno del dibattito con una posizione di prestigio e privilegio, seguendo i risultati iniziati attraverso i workshop didattici.
In questo modo, anche attraverso pubblicazioni di qualità, si è potuto costruire un corpus, un data base, un regesto di opere sul progetto di architettura per il patrimonio archeologico che ritraggono lo stato dell’arte dei rapporti fra architettura, archeologia e museografia, esattamente come abbiamo già visto per gli envois dei pensionnaires del Prix de Rome dell’Accademie Française.
Questa rete di contatti, di conoscenze, di saperi, di capacità è poi stata convogliata in quelle che forse sono state le occasioni più ambiziose organizzate dall’Accademia Adrianea: le Call internazionali di Progettazione, nel 2016 per la riqualificazione di Via dei Fori Imperiali a Roma, nel 2018, per la riqualificazione della Buffer Zone UNESCO di Villa Adriana e quella prevista per il 2020, ma posticipata a causa della pandemia Covid-19 riguardante il riassetto dell’Acropoli di Atene.
In queste occorrenze si è infatti perseguita la ricomposizione fra il mondo accademico e quello professionale richiedendo ai gruppi partecipanti una conduzione biconsolare costituita da un’istituzione universitaria o di ricerca unita ad uno studio di architettura di alto profilo internazionale.
Le proposte presentate dalle compagini che hanno visto coinvolte, fra le altre, università come il Politecnico di Milano, La Sapienza di Roma, la Universität Stuttgart o la Universitat Politecnica de Valencia collaborare con studi come David Chipperfield Architects, Eduardo Souto de Moura, Guillermo Vàsquez Consuegra Arquitectos o ABDR Architetti Associati, hanno riassunto esattamente l’aspirazione che soggiaceva negli obiettivi dell’Accademia Adrianea e, conseguentemente, nei bandi di concorso: una indagine teoretica e speculativa tradotta in progetti di architettura densi e significanti.

La Vera Forma
Il nocciolo progettuale, ha sempre costituito, quindi, il cuore pulsante delle nostre indagini, continuando a ruotare attorno alle questioni legate alla forma e, in particolar modo, a due modi di concepirla, chiariti con precisione nel volume pubblicato nel 2000 La Forma dell’Effimero5 di Pier Federico Caliari: la forma concepita, con atteggiamento aristotelico, come struttura, e quindi in sé, e la forma in relazione allo sfondo con evidenti derivazioni gestaltiche, in cui la sua percezione è necessariamente in rapporto ad un io esterno che la certifica.
I rapporti si estendono, evidentemente a tutta la struttura sintattica che della forma è anche parte attiva della sua genesi, nella fattispecie l’archeologia che qui ne diventa lo scheletro.
Queste indagini si applicano con estrema felicità all’impianto di Villa Adriana che, sebbene soggetto a diverse interpretazioni, lasciano ancora parecchie questioni aperte. Questioni particolarmente solleticate in noi al tempo dalla lettura di numerosi testi, fra i quali uno specifico di Massimiliano Falsitta6 pubblicata nel periodo coevo al testo di Caliari.
“Quello che ci ha sempre interessato di Villa Adriana è che, studiandola in profondità e credendo di aver individuato in essa una regola capace di svelarne la forma, ineluttabilmente questa si infrangeva in una serie di mancate reiterazioni. La regola non era una regola, ma un caso isolato. Quando le geometrie della villa sembrano suggerire spazi di interpretazione, questi poi si rivelano non iscrivibili in un quadro unitario. Chiunque osservi la planimetria di Villa Adriana, non può non chiedersi il perché di quella forma.”7
Il sistema di rapporti fra le differenti fabbriche della villa, comunemente accettato come paratattico, come d’altronde lo è quello dei fori romani, e giacente su alcuni assi principali si limita ad una mera constatazione senza produrre una vera teoria che ne giustifichi la genesi. Le giaciture individuate non hanno proprie ragioni che le giustificano più di possibili, ipotetiche altre. Neppure un loro avvallo dettato dalla topografia sembra essere particolarmente convincente in considerazione dell’appurata modificazione, questa sì, frutto di un’azione progettuale ab origine, del territorio e dell’orografia per l’insediamento adrianeo.
Lo studio meritava approfondimento ed andava rivolto, eminentemente, verso la composizione architettonica intesa come origine del processo ideativo dell’architettura e si stringeva sempre più attorno a temi di pura geometria e di individuazione di giaciture dell’impianto adrianeo, che poi sono la logica sintattica dello stesso.
Questa necessità fu resa ancor più evidente dalla pubblicazione di un libro, catalogo di una mostra allestita presso l’Antiquarium del Canopo nel 2010: Villa Adriana. Una storia mai finita. Novità e prospettive della ricerca. L’analisi formale e strettamente architettonica di Villa Adriana non appariva mai all’interno del volume, né come esplorazione precedente, né come ipotesi di indagine futura. Una mancanza questa che è diretta testimonianza di una condizione in cui la forma architettonica del complesso tiburtino non è mai stata indagata approfonditamente.
Il corpus di letteratura, progetti e, soprattutto, di osservazioni sviluppato attorno a Villa Adriana negli anni dal Premio Piranesi e dall’Accademia Adrianea costituiva una base solidissima su cui fondare queste analisi e molte delle ipotesi vennero sperimentate proprio attraverso la disciplina progettuale. Questo studio, infatti, si è rivelato tutt’altro che interdisciplinare, anzi, totalmente interno all’architettura, senza il confronto o il coinvolgimento delle altre discipline proprio perché relativo all’analisi del processo astratto che genera le geometrie ordinative e la sintassi compositiva, materie che non appartengono né all’archeologia, né alla storia, né alla letteratura.
Si affrontava, frontalmente, la messa in discussione delle teorie che vedevano definire la struttura della villa come composizione pluriassiale paratattica. Una critica che disseziona l’organismo sintattico del complesso, ricostruendolo secondo logiche completamente nuove e che ne stravolgeranno totalmente la tradizione.
Sarà il confronto e l’analisi chirurgica con i casi emblematici dei siti adrianei sui quali il Principe era intervenuto fisicamente (Pergamo, Phylae, Atene), a legittimare queste posizioni, che porteranno l’insieme di queste esperienze a parlare di composizione polare e di “tecnigrafo post-alessandrino”.
Sarà proprio grazie all’attenta osservazione prima dell’Acropoli ateniese e degli studi su di essa condotti da Apòstolos Doxiadis, confermati poi da quelli di Caliari sull’Acropoli di Pergamo in Turchia e sull’Isola di Phylae in Egitto, che il paradigma che guida la lettura di Villa Adriana viene spostato dalla già citata composizione pluriassiale paratattica a quella polare, determinabile come policentrica radiale ipotattica.
“Non un sistema di proposizioni principali chiuse e prive di subordinate, ma al contrario un sistema gerarchico di proposizioni principali che reggono una serie complessa di subordinate, allargando di fatto il senso generale della composizione da sticomitia di aforismi a dialogo a più voci. Fuori di metafora, non si tratta di un sistema di “insiemi” architettonici autonomi e caratterizzati solo da una loro coerenza interna, ma di un sistema compositivo unitario basato sulla disposizione di alcune polarità generative da cui dipendono in un rapporto gerarchico, il posizionamento, l’orientamento e, talvolta, anche la composizione spaziale delle parti architettoniche.”8
Questa nuova lettura, peraltro, non va assolutamente in contrasto con quelle consolidate che vedono la coincidenza degli assi ottici con quelli di percorso, e che, attraverso la loro frantumazione, sviluppano sorprendenti epifanie spaziali.
Rimane intatta la forza delle cerniere architettoniche che ruotano gli assi gerarchizzando i differenti spazi, in pianta, ma anche in alzato, dove gli ambienti di collegamento più conclusi e costretti, mettono a sistema quelli della stasi, più ampli e ariosi, coinvolgendo la quarta dimensione, quella del tempo che regola la percezione dei differenti elementi.
Una fruizione del complesso che rimane senza una vera e propria soluzione della continuità, mantenendo una fluidità che rende ancora più inaspettate le sorprese che i padiglioni, mascherando i loro interni con esterni totalmente dissonanti ed in contrasto, rivelano al visitatore.
Gli assi visuali sono, a volte, rimarcati da sfondati che aprono sui giardini ed il paesaggio.
D’altronde, Caliari scrive e precisa come “(…) tale principio ordinatore sia in stretta relazione con le operazioni mentali elementari proprie della composizione architettonica, che sono da intendersi come riferimento per la decifrazione della sintassi degli elementi presenti nello scacchiere generale. In sostanza, analisi di quelle azioni che il pensiero progettante attiva nel processo di tracciatura delle principali generatrici formali cui soggiace il rapporto tra le parti e tra le parti e il tutto; in particolare, l’individuazione e posizionamento di punti notevoli, nonché la tracciatura di linee d’unione (di due o più punti), di riferimento, di appoggio o di costruzione di un sistema sintattico, su un supporto visivo (lapideo, cartaceo, terreo, cerato, ecc.)”.9
Si vuole intendere dimostrare quindi, che il complesso adrianeo non era frutto di un progetto in itinere che affrontava l’insediamento procedendo con l’espansione dello stesso in maniera episodica e semplicemente paratattica.
Tutt’altro: Villa Adriana nasceva sotto una programmazione ben precisa, fondata su processi compositivi riconoscibili, individuabili e la “mente progettante”, qualunque essa fosse, aveva chiaro un programma ed una metodologia.
Chi scrive, non crede che, alla posa della prima pietra tutta l’area del complesso fosse già completamente tracciata e pensata in profondità. La durata del cantiere, anzi dell’imperatoratore, non poteva essere né prevista, né totalmente pianificata, sia per motivi politici che, necessariamente funzionali legati all’evoluzione delle tecniche e, soprattutto, delle necessità.
Inoltre, come ogni architetto sa bene, un progetto che vede il proprio dipanarsi e svilupparsi attraverso ventuno anni, non può non presentare modifiche o varianti in corso d’opera. Ripensamenti, impedimenti, ritardi, o semplicemente nuove visioni, devono per forza aver deviato un percorso lineare in effetti impensabile.
Il fatto stesso che, come pare, l’Imperatore abbia avuto grande influenza nella definizione dei padiglioni, attraverso le sue volontà ed impressioni, sicuramente figlie delle sue esperienze e viaggi, non può non aver influito e dettato modifiche e modificazioni.
Come, ad esempio, il caso del complesso del Canopo, evidentemente ispirato dalla città omonima, che ospitava il tempio di Serapide, meta di numerosissimi pellegrinaggi grazie alle sue doti taumaturgiche, vicina ad Alessandria d’Egitto e connessa a quest’ultima attraverso un canale, noto per i luoghi di piacere che affacciavano su di esso, e che, dalla città stessa prese il nome.
Il canale, nell’antichità, divenne talmente noto che finì per essere identificato con qualunque vasca allungata dedicata all’otium in ogni giardino.
Proprio dal Tempio di Serapide egiziano, prende il nome il Serapeo scenografico che conclude la straordinaria prospettiva del complesso tiburtino.
Ma scendendo ancora più nel dettaglio scopriamo che i cromatismi, bianco e rosso, della statuaria seguono i due colori simbolo dell’Alto e Basso Egitto, che la cascata sembra rievocare la Prima Cataratta da cui si pensava provenisse la piena del Nilo e che i canali concentrici sono l’immagine dei bracci del Grande Fiume mentre la vasca piccola centrale simboleggia il lago di Borollos. Una celebrazione della terra dove l’amato Antinoo trovò la morte.
Se l’edificio “era l’Egitto”, la grande vasca non poteva che “essere il Mediterraneo” e a conferma di questo ci sono i ritrovamenti delle statue che adornavano i lati del bacino e che evocano le città di Efeso e di Atene, sui due fronti opposti, e che sembrano, addirittura, seguire le tappe del viaggio di ritorno di Adriano dal Paese dei Faraoni.
Questa rappresentazione di microcosmo autobiografico, ipotizzata da Jean-Claude Grenier10, mette a nudo, con chirurgica precisione, quanto l’imperatore, ed il suo vissuto, abbia influito nel disegno della Villa.
Rimane il fatto che la matrice, metodologica ripeto, era tracciata e chiara.
Tenuta assieme da un rigore progettuale e geometrico limpido, ma, al tempo stesso connotato da estrema flessibilità.
Non si spiegherebbero altrimenti giaciture allineate per complessi così distanti tra loro all’interno del sito tiburtino come quella fra il Teatro Greco, il Teatro Marittimo e la Bocca degli Inferi (R_6. TAV. III.II del Tractatus Logico Sintattico) o quella fra il Tempio di Venere Cnidia, l’Antinoeion e la Torre di Roccabruna (R_22 TAV. IV.I del Tractatus Logico Sintattico).
Né il rapporto fra padiglioni che potrebbero sembrare indipendenti, ma che, ad un’analisi più attenta mostrano connessione con i propri contigui necessariamente non casuali come quello fra le Tre Esedre, le Piccole e le Grandi Terme (R_48, TAV. V del Tractatus Logico Sintattico) o, ancora di più, quelli che sistematizzano il complesso del Grande Vestibolo, l’Edificio con Pilastri Dorici ed il Ninfeo retrostante (R_66, R_67, R_68, R_69, R_70, TAV. VIII del Tractatus Logico Sintattico).
Il sistema individuato da Caliari, in effetti, evidenzia delle potenzialità pressoché infinite di insediamento, dimostrando delle capacità di adattamento al contesto, inteso sia come paesaggio che come altre fabbriche progettate nel sito, che definirei quasi darwiniano. Mostrando, al tempo stesso, quella strettissima maglia di legami che tiene assieme tutto l’intervento e che è tipica della mente progettante di un architetto.
Ho sempre ritenuto che il vero motore trainante nella ricerca di Caliari, magari anche inconsciamente, fosse la sua implacabile determinazione nel ritrovare proprio questa matrice del pensiero progettante dell’architetto che lui non poteva accettare non emergesse, convinto e sicuro com’è, giustamente, a mio avviso, che non si possa assumere che lo sviluppo di un complesso come quello tiburtino, ordinato dall’Imperatore di Roma, l’Impero di gran lunga più potente del mondo occidentale allora conosciuto, fosse lasciato a scelte, non dico casuali, ma quantomeno improvvisate al procedere dell’attività progettuale e di cantiere.
Impensabile che una mente raffinata come quella di Adriano non esigesse quantomeno una sistematicità che tenesse assieme tutto.
Gli stessi parallelismi con altri impianti epocali della cultura architettonica, tutti conosciuti e visitati dall’Imperatore, testimoniano una volontà più che emulativa, direi sperimentale e strutturante.
In qualche modo, probabilmente, anche legittimante l’intervento.
Un atteggiamento, quello di Caliari, evidentemente ereditato da un certo Illuminismo, quello di Cartesio e del suo “Discours de la méthode”11 per intenderci, e che cerca, in qualche modo, di avvicinare la disciplina dell’architettura ad una dottrina, in qualche modo, scientifica (sebbene lo stesso pensatore francese lo utilizzasse anche per provare l’esistenza di Dio e dell’anima dell’uomo).
D’altronde anche la modernità, e più ancora la contemporaneità, riesce ad accettare un progetto, per di più se molto esteso e complesso, solo a fronte della riconoscibilità di invarianti ripetute e costanti che caratterizzano e guidano l’intervento stesso.
Proprio questo impulso di“determinismo meccanicistico” (non me ne abbiano i fisici), guida tutta la ricerca portando talvolta a dei travisamenti nel lettore che rischia di intravedere nelle asserzioni di Caliari delle attestazioni quasi dogmatiche, ma che, in realtà sono tutto fuorché questo.
Il Tractatus Logico Sintattico, infatti, intende “solo” registrare alcune evidenze e ricorrenze nell’impianto di Villa Adriana e si pone come sistema aperto a successive implementazioni ed interpretazioni. Solo un nuovo passo nella lettura compositiva del complesso tiburtino, magari cruciale, ma di certo non l’ultimo

(1) R. Cassanelli, Roma antica e moderna. I luoghi della memoria, in AA.VV. M. David (a cura di), Frammenti di Roma Antica nei disegni degli architetti francesi vincitori del Prix de Rome. 1786-1924, De Agostini, 1998, Novara.
(2)E. D’Alfonso, Villa Adriana. Costituzione d’interno e mappatura mentale, in L. Basso Peressut, P. Caliari (a cura di), Villa Adriana. Environments, Libreria CLUP Soc. Coop., 2004, Milano, pp. 38/39.
(3) N. Pagliara, Perché Villa Adriana, in L. Basso Peressut, P. Caliari (a cura di), Villa Adriana. Environments, Libreria CLUP Soc. Coop., 2004, Milano, p. 133
(4)P. F. Caliari, Aufklarung e Grand Tour. Ricerca e formazione per una museografia senza frontiere, in G. Celada, C. Gentilini, C. Martinelli (a cura di), Aufklarung e Grand Tour. Ricerca e formazione per una museografia senza frontiere, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romangna (RN), 2008, p. 11
(5) P. F. Caliari, La forma dell’effimero. Tra allestimento e architettura: compresenza di codici e sovrapposizione di tessiture, Lyra Immagine, 2000
(6) M. Falsitta, Villa Adriana: una questione di composizione architettonica, Skira, 2000
(7) P. F. Caliari, Villa Adriana e la questione della Vera Forma, in G. Vita (a cura di), Villa Adriana. Progetto incompiuto. Tomo I, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2007, p. VII
(8) Per approfondimenti: P. F. Caliari, Tractatus Logico Sintattico. La Forma Trasparente di Villa Adriana, Edizioni Quasar, Roma, 2012
(9) P. F. Caliari, Tractatus Logico Sintattico. La Forma Trasparente di Villa Adriana, Edizioni Quasar, Roma, 2012, p. 11
(10) J. C. Grenier, Il “Serapeo” e il “Canopo”: un “Egitto” monumentale e un “Mediterraneo”, in Adriano. Architettura e progetto, catalogo della mostra, Electa, Milano, 2000
(11) Titolo completo: “Discours de la méthode pour bien conduire sa raison, et chercher la verité dans les sciences Plus la Dioptrique, les Meteores, et la Geometrie qui sont des essais de cete[ Methode” (Discorso sul metodo per un retto uso della propria ragione e per la ricerca della verità nelle scienze più la diottrica, le meteore e la geometria che sono saggi di questo metodo.)


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