Non è possibile parlare della fondazione a Roma del Politecnico in Via Tiepolo senza collocare questa importante iniziativa culturale nel clima complesso e difficile che caratterizzò la vita italiana dal 1968 al 1980. Una clima che non può essere descritto in tutti i suoi aspetti in questo breve scritto. Per tale motivo cercherò di analizzare solo alcuni aspetti di quel momento storico, soprattutto in riferimento a Roma. L’inizio è la rivoluzione del 68, voluta inizialmente dalla generazione dei giovani provenienti dalla componente più avanzata della borghesia e, successivamente, fatta propria anche da gran parte della sinistra. La genesi di questo movimento era stata determinata sia dalla dimensione di massa che aveva trovato nei mezzi di comunicazione la propria ragione e insieme le sue finalità, in particolare sia per mezzo della mediatizzazione proposta in varie definizioni dal gruppo 63 sia dalla volontà dei giovani di infrangere la formazione rigida e gerarchizzante trasmessa dalla scuola nonché dalle famiglie. La liberazione etica che ne conseguì ebbe risultati positivi ma anche deviazioni negative. All’interno di questa condizione lo scontro tra la sinistra e la destra ebbe come esito il terrorismo, da collocare in ambito più vasto come conseguenza dello scontro tra Capitalismo e Comunismo e da Occidente e Oriente materializzato dalla guerra del Vietnam. Parallelamente la nascita di un femminismo militante metteva in crisi i rapporti familiari, il concetto stesso di famiglia, di matrimonio, dei ruoli sociali. Nel frattempo la dimensione di massa era divenuta operante nella fondamentale questione di cosa dovesse essere lo studio, con la trasformazione dell’università in un ambito che era divenuto talmente vasto da sovvertire definitivamente la sua precedente tradizione senza, però, proporre una sua adeguata trasformazione. L’ insegnamento divenne una pratica sempre più omologante esercitata in un contesto nel quale i rapporti storici tra docenti e studenti venivano ribaltati, contestati, negati mentre i saperi, subivano contaminazioni crescenti. In contraddizione con la criticità di quella stagione, nel sistema generale della cultura e dell’arte, gli anni dal 1968 al 1980, restarono a Roma molto produttivi, costellati da tendenze nuove, dall’emergere di artisti importanti, di registi originali, di scrittori di notevole interesse. Il tutto in una notorietà amplificata dai mass media. Il terrorismo, che produsse anche le stragi di stato, trovò il suo culmine nel sequestro e nell’assassinio di Aldo Moro, nel 1978, che sembrò avesse minato le stesse basi della Repubblica. L’Estate Romana inventata da Renato Nicolini, architetto, docente universitario, Assessore alla Cultura del comune di Roma ha risposto dal 1977 in poi al disfacimento potenziale della società prodotto dal terrorismo con le relative paure, le concezioni ideologiche sempre più conflittuali, la scomparsa dalla scena urbana di molti, consentendo una riscoperta dell’essere una comunità da parte di una moltitudine di romani di ogni ceto che cominciarono a riappropriarsi dei luoghi, a stare assieme discutendo, confrontandosi, delineando una nuova idea più aperta, plurale e operante della cultura.
La Facoltà di Architettura di Roma, frequentata in quegli anni da un ingente numero di studenti, che già nel 1963 nel convegno del Roxy aveva deciso, sulla base della visione che ne aveva Bruno Zevi, di dividersi di fatto in due scuole molto diverse vive, a partire dalle contraddittorie vicende del 68, una situazione particolare consistente, sinteticamente, nel non considerare più il sapere architettonico come un campo suddiviso in alcune componenti sempre legate in una unità superiore, ma come un sistema di discipline autonome. Negli stessi anni l’architettura stava vivendo una stagione molto difficile in quanto la crisi economica del 1973 e il terrorismo avevano limitato notevolmente il settore edilizio mentre il numero degli architetti cresceva a dismisura. A causa degli effetti di questa condizione erano in pratica scomparsi gli studi degli studenti, che nei primi Anni Sessanta erano stati per un verso altrettante controscuole, nelle quali si cercava per un verso di contrastare positivamente ciò che si apprendeva nelle aule di Valle Giulia, per l’altro si metabolizzavano i saperi oggetto degli insegnamenti cercando di confrontare la loro origine con i nuovi scenari sociali, ambientali e culturali. In questo modo l’autoformazione si integrava con le conoscenze ufficiali, se così si possono chiamare, in una produttiva tensione dialettica. La fine degli studi alimentò incertezze diffuse, fraintendimenti, illusioni. In breve essa finì con l’ostacolare il percorso dei futuri architetti in un momento in cui la professione, come ho già detto, stava perdendo i suoi spazi operativi. Nello stesso periodo la Facoltà di Architettura acquisì altre sedi oltre quella storica di Valle Giulia. Alcuni istituti si spostarono in altre parti di Roma, mentre venne acquisito a Piazza Borghese un edificio della Sapienza che aveva ospitato, se non ricordo male, la Facoltà di Statistica o, forse, quella di Economia. Questa divisione non fu soltanto logistica ma materializzò una separazione della Facoltà di Valle Giulia in due entità. Nell’edificio di Enrico Del Debbio rimase una scuola dei migliori docenti e allievi mentre l’edificio di Piazza Borghese venne destinato alla massa dei molti studenti ritenuta meno interessati a studi impegnativi. Successivamente, ma questo è un altro argomento, fu aperta un’ulteriore sede a Via Flaminia, duplicata dopo qualche tempo da un’altra poco lontana dalla terza, a Via Gianturco. Questa dispersione va considerata come una metafora spaziale della perdita di unità del sapere architettonico.
La fondazione del Politecnico avviene nel 1973. Come ho già detto la cultura romana degli Anni Settanta continuava la sua straordinaria stagione vissuta del decennio precedente tranne che nell’architettura. La pittura, la scultura, il cinema, la letteratura, il giornalismo, il teatro, la scienza trovavano soprattutto in Piazza del Popolo un luogo ricettivo e comunicativo di importanza non solo locale o nazionale, ma di notevole rilevanza internazionale. Lo Studio di Laura Thermes e mio a Via dell’Oca, a pochi metri dalle esedre accoglienti della Piazza, era una postazione dalla quale era possibile seguire giorno per giorno il Tridente nella sua doppia capacità di proporre nuove tendenze culturali e di assimilare quelle che pervenivano da fuori. Piazza del Popolo era per questo un grande laboratorio sperimentale aperto a ogni ricerca, nel quale anche gli architetti avevano la possibilità di dare un loro contributo. Ricordo tra questi Maurizio Sacripanti, presso il quale avevo lavorato a lungo durante i miei anni in Facoltà un illuminato e costante tessitore di relazioni tematiche con intellettuali e artisti, tutti impegnati a cercare nuove strade per i loro linguaggi.
Il Politecnico nasce anch’esso, come Piazza del Popolo, ma ovviamente più circoscritto dimensionalmente rispetto al grande spazio poeticamente modellato nel periodo napoleonico da Giuseppe Valadier, come un luogo di ricerca avanzata nel quale convergevano più attività artistiche. Non visibile dall’esterno del grande recinto di intensivi che lo perimetravano occupava, con bassi, numerosi e accoglienti edifici che avevano ospitato attività artigianali, officine e magazzini, un vasto cortile. Tale collocazione dichiarava non certo in modo consapevole ma comunque simbolico, che in quel momento i linguaggi dovevano non certo nascondersi, ma evitare quella visibilità mediatica che si era rivelata in quel periodo uno strumento di autopromozione più che un vero veicolo informativo e, soprattutto, formativo. L’essere sottratto alla vista, schermato dalle facciate degli edifici che lo avvolgevano, amplificava attività importanti che richiedevano un’atmosfera di lavoro aperta alla città ma protetta da una sua importante atmosfera raccolta, appartata, discreta, che favoriva la concentrazione nella sperimentazione che il Politecnico aveva come fine. Analogo per più versi alla Factory di Andy Warhol, questo innovativo centro studi era articolato in vari settori culturali autonomi ma al contempo impegnati in un continuo confronto cercando sintesi linguistiche che creassero una coinvolgente e operante totalità di segni e di azioni. I diversi linguaggi sui quali i singoli gruppi lavoravano si ibridavano, si sovrapponevano, si modificavano attraverso quella convergenza dei lessici che negli stessi anni il grande pittore astratto Achille Perilli aveva definito l’Intercodice.
Lo Studio Politecnico era articolato in più gruppi. Gli architetti erano Amedeo Fago, Sergio Bianconcini, Gianni Giovagnoli, Paolo Mazzocchi, Renzo Grimaldi, Gabriele Milelli. Amedeo Fago era anche scenografo, regista, commediografo, oltre che uno degli inventori e un costante promotore di questo nuovo laboratorio di ricerca. Il Teatro era rappresentato da Sergio Castellitto, Ernesto Colli, Mario Prosperi, Giancarlo Sammartano, Stefano Santospago, Edoardo Siravo, Giorgia Trasselli, Claudio Trionfi, Massimo Venturiello. Se non ricordo male l’animatore più attivo di questo gruppo era Mario Prosperi, che ampliava con continuità le attività di questo settore del Politecnico ospitando attori e autori, tra i quali ricordo per la sua assidua energia creativa Andrea Ciullo. La Fotografia vedeva all’opera Mario Corsi ed Eugenio Monti. Il gruppo delle Arti visive era composto da Cristina Bonagura, Emanuela Fraire, Ida Panicelli, Giovanna De Sanctis Ricciardone. La Ceramica era un settore curato da Maria Luisa De Astis. Il Cinema, uno dei settori più seguiti dal pubblico, era affidata ad Alberto Abruzzese, uno dei sociologi più impegnati nel comprendere il senso drammatico ma anche denso di potenzialità di quel periodo, Ottavio Fatica, Giancarlo Guastini, Bruno Restuccia, Roberto Silvestri, Giovanni Spagnoletti. Scusandomi se ho dimenticato qualche protagonista delle vicende del Politecnico va riconosciuto che esso è stato un polo culturale di ampiezza a livello metropolitano, un precedente, assieme alla storica vicenda teatrale delle cantine, una grande stagione di incontro, di discussione, di costruzione e di nuovi comportamenti sociali e di critica di quelli convenzionali, ma soprattutto di un’evoluzione di quell’industria culturale teorizzata dal Gruppo 63 ma rimasta spesso chiusa nella dimensione mediatica. Un’evoluzione necessaria verso una più aperta e avventurosa comunità di saperi e di lessici libera sia dai vincoli di una comunicazione codificata, divisa in diversi ambiti, dal carattere troppo spesso vicino a un nuovo corporativismo, sia dalla volontà di questi stessi ambiti di renderli sempre più orientati verso una complessità specialistica che voleva produrre un plusvalore di potere.
In effetti l’atmosfera culturale creata dal Politecnico nell’insieme delle sue attività, che secondo me ha un lontano ma significativo precedente storico nel Teatro Sperimentale degli Indipendenti dei fratelli Bragaglia, anch’esso una struttura multidisciplinare, è molto vicina a quella vera e propria trasmutazione alchemica che Renato Nicolini voleva produrre nella sua Estate Romana tra varie espressioni artistiche particolarmente riuscita. Un’illuminata invenzione nell’edizione del 1979, dal titolo Parco Centrale. La sezione Cinema del Politecnico, in particolare con Alberto Abruzzese, Giancarlo Guastini e Bruno Restuccia, dette un notevole contributo alla fase iniziale della manifestazione, consistente nella proiezione di film alla Basilica di Massenzio iniziata nel 1977. Mi permetto a proposito dell’Estate Romana una breve considerazione personale. In quell’anno Renato Nicolini mi chiese di curare l’allestimento di una mostra, che riteneva molto importante, che doveva celebrare i primi venticinque anni delle trasmissioni televisive in Italia. Non mi ricordo se questa iniziativa dovesse avvenire all’interno delle manifestazioni estive o dovesse essere ospitata dal Palazzo delle Esposizioni. Siamo andati insieme da un funzionario allora tra i più importanti della Rai, Paolo Valmarana, che parlò con Renato Nicolini e con me per un intero pomeriggio su come impostare i programmi e i contenuti di questa iniziativa che purtroppo, però, non vide mai la luce. Ripensando a quelle vicende credo che fu deciso dalla Rai di non realizzarla per più motivi, probabilmente per l’immane tragedia dell’uccisione di Aldo Moro o forse per una divergenza di opinioni di altra natura all’interno dei piani alti della Rai di Viale Mazzini. In ogni modo la dialettica interna al Politecnico può essere senz’altro annoverata tra gli antecedenti, assieme alle sperimentazioni teatrali, e delle esemplari presenze del Folkstudio e del Filmstudio, del capolavoro della carriera politico-amministrativa nicoliniana.
Concludendo queste note vorrei proporre una mia idea, spero non inesatta, sul significato più autentico della vita culturale del Politecnico, la sua missione o usando un termine meno elevato, la sua finalità. Sono convinto che ciò che si è prodotto nelle attività di questa realtà neoavanguardista, che con l’inizio degli Anni Ottanta affronterà avventurosamente le scogliere della post-modernità, è il prodotto di una interessante e positiva contraddizione. Il periodo che ho analizzato, che va dal 1968 al 1980, è caratterizzato da una cultura di livello più che alto, purtroppo a Roma quasi sempre negativa nei confronti della Città Eterna, che si è trasformata, nonostante il suo indubbio valore, in qualcosa di mediaticamente consumabile, non più da considerare un’entità autonoma, anche se sempre in relazione con altre attività umane, dotate di una durata e di valori essenziali per la vita degli individui e della comunità, ma come un fenomeno transitorio, effimero nel senso opposto a quello caro a Renato Nicolini per il quale tale aggettivo significava la folgorante apparizione nell’immaginario collettivo del “Meraviglioso urbano”. Non a caso Pier Paolo Pasolini, una delle grandi vittime del periodo che è al centro di questo scritto, rifiutava lo sviluppo a favore del progresso. Lo sviluppo è infatti la condizione di chi vive il consumo. Da qui la finalità del Politecnico, vale a dire trovare il modo di produrre varie scritture artistiche che siano capaci di superare la veloce erosione temporale causata dai mass media essendo al contempo in grado di rappresentare il sistema che tali scritture continuano a rendere vitale, un sistema che trova negli stessi mass media la sua legittimazione. Questa duplice e difficile compresenza di intenzioni è anche oggi più che valida. Vivere liberi nell’esprimere con un linguaggio il più possibile personale il proprio essere al mondo e contemporaneamente farsi comprendere dai più nelle tante realtà che viviamo è il messaggio che il Politecnico continua dopo quasi mezzo secolo ancora a inviarci.