Il cinema italiano della seconda metà del XX secolo prende in carico le istanze della modernità e, dal Neorealismo in poi, mostra un’alternativa all’approccio narrativo del cinema classico, fondato su personaggi che agiscono per raggiungere un obiettivo. Se la trasformazione dello spazio in ambiente narrativo contraddistingue tutto l’arco della storia del cinema hollywoodiano classico, il cinema del Neorealismo italiano istituisce il processo complementare, quello della trasformazione dello spazio in paesaggio. Il cinema hollywoodiano classico, fondato sull’ontologia dell’azione, non consente allo sguardo di esplorare il mondo in quanto tale, né al mondo in quanto tale di manifestarsi se non al servizio dell’azione; il Neorealismo, fondato sull’ontologia della vita oltre l’azione, mette al centro dell’esperienza del personaggio l’atto del guardare. Il cinema classico è fatto unicamente di ambienti che ospitano, contengono, ostacolano o assecondano le azioni; il cinema italiano moderno è fatto di spazi imperturbabili, indifferenti alle azioni, e disponibili all’attraversamento di personaggi che non possono o non sanno agire. Di questa grande lezione, Emidio Greco (non a caso assistente alla regia di Roberto Rossellini nel periodo delle produzioni televisive) è stato senz’altro un interprete consapevole e originale. Il suo primo film, L’invenzione di Morel, è la storia di un uomo alla deriva in mare aperto, un uomo che proviene da un’esperienza di militanza e dunque è in fuga dal dominio dell’azione; a bordo di una piccola imbarcazione, egli raggiunge un’isola apparentemente deserta, ma risonante di presenze. Esplorando l’isola e facendosi puro sguardo, il naufrago contempla ignaro le immagini che lo scienziato Morel, cinquant’anni prima, ha ripreso e registrato durante la settimana trascorsa sull’isola da un gruppo di giovani benestanti, affidando a un complesso macchinario di sua invenzione la proiezione sempiterna di quegli eventi, su un set ormai abbandonato.
Il paradosso del naufrago di Emidio Greco è diverso da quello del naufrago Robinson di Daniel Defoe: Robinson sa di trovarsi in un mondo individuale e si impegna in una successione di atti tesi a trasformare la natura in cultura. Il naufrago di Emidio Greco, interpretato da un grande Giulio Brogi, si confronta invece con il non trasformabile, e tutti i suoi atti sono atti mancati, destinati a non produrre alcunché, perché quello che gli appare un mondo per l’uomo è in realtà un mondo senza l’uomo, in cui una macchina produce un loop di eventi finzionali. La finzione coatta vincola le azioni del protagonista a quello che Bremond chiama lo stadio eventuale: nessuna intenzione può trasformarsi in atto, né tantomeno l’atto può essere portato a compimento. Da qui la necessità profonda di radicalizzare l’intenzione e distruggere la macchina, per uscire da un’architettura da intendere nel duplice senso di struttura narrativa e, letteralmente, dell’arte di dare una forma allo spazio.
L’invenzione di Morel costruisce dunque un eroe-spettatore, che coerentemente con il proprio statuto attraversa tutte le fasi di credulità e di identificazione sino alla maturità del distacco oggettivante dall’immagine. A un film tanto ambizioso, l’impianto scenografico-architettonico di Amedeo Fago (già collaboratore di Petri, Lizzani, Bellocchio) offre un contributo strutturale e determinante perché, come vedremo, ospita una drammaturgia modernista (ossia capace di problematizzare il concetto di inazione) all’interno di una costruzione architettonica configurata dal repertorio stesso del modernismo.
La rilevanza del concetto spaziale di Fago che è alla base del nucleo di senso del film è esplicita fin dalla sequenza di avvicinamento del naufrago alla casa di Morel, nella prima parte del film. Si tratta di un evidente prelievo e riformulazione combinatoria del Gropius pre-Bauhaus, dalle officine Fagus al padiglione del Werkbund all’esposizione di Colonia; insomma il Gropius che progetta sotto l’influenza di Peter Behrens (infatti anche qui c’è molto della fabbrica di turbine AEG del 1911) nell’era dell’architettura industriale tedesca. Vi si colgono anche echi di Mendelsohn (la torre) e di Oud (il profilo scalettato del muro), ma in esterni villa Morel, che in interni vedremo essere villa Müller, deve molto al modello Fagus Werk, ricordando l’interpretazione che ne diede Argan: “L’edificio ha un valore di determinazione spaziale, cioè un valore estetico, soltanto per chi si ponga dentro il suo spazio e, non potendo più oggettivarlo, viva e operi in esso”. È esattamente questo l’obiettivo dello scenografo-architetto Amedeo Fago, creare un’architettura che sia spazio drammaturgico, una scenografia che abbia valore per chi la percorre, per chi la vive; per chi l’ha vissuta e l’attraversa come il fantasma del passato, per chi la scopre con lo sguardo in un presente sospeso.
Una volta entrati negli interni dell’Invenzione, siamo al centro dello spazio drammaturgico: ecco compiersi il passaggio dalla Raumgestaltung di August Schmarsow al Raumplan di Adolf Loos. Lo spazio interno, per quanto vengano disseminati oggetti Bauhaus e corbusieriani e miesiani, è ispirato alla casa praghese dei signori Müller del 1930.
Il verbo di Loos si disintegra nel dettato di Mendelsohn, con la citazione diretta della scala di casa Weizmann a Rehovoth (1936-37), epitome e climax della ricerca spiritualistica alleggerita delle turbe espressioniste, come scrive ancora Argan “ultima conseguenza dell’architettura-simbolo, dell’architettura-musica, dell’architettura espressione di forze primigenie e misteriose, che insorgono e aspirano a liberarsi nello spirito”. Mendelsohn è il riferimento di partenza anche per il corpo esterno, in particolare la torre, nella sua prima configurazione di progetto, si ispirava all’Einsteinturm di Potsdam, celeberrimo capolavoro della fase espressionista. Queste forme della spazialità non ospitano azioni (che sono precluse al protagonista) ma esclusivamente atti percettivi, visioni: non sono ambienti in senso classico, ma oggetti della contemplazione.
In questo senso, L’invenzione di Morel è un’opera che spinge alle estreme conseguenze le conquiste estetiche della modernità, proprio mentre a livello globale si inaugura una fase nuova, quella della spazialità che si impone sulla temporalità delegittimando il potere della Storia e le sue gerarchie; il film esce infatti negli stessi anni in cui nel dibattito scientifico si parla di spatial turn e in cui l’architettura postmoderna sferra un attacco al modernismo e ai suoi principi costitutivi. Ma mentre l’eroe moderno de L’invenzione di Morel dopo l’immersione nella irrealtà decide di distruggere la macchina della finzione e tornare al dominio dell’azione, rinnovando l’obiettivo di intervenire sul reale, al contrario l’uomo postmoderno deciderà di collocarsi nella dimensione esistenziale del simulacro.