Il tema degli “edifici ibridi”, nonostante raccolga al suo interno riferimenti alla tipologia e alla morfologia urbana e coinvolga un numero significativo di termini specifici del dibattito architettonico più recente, implica una forzatura dei confini disciplinari e propone un nuovo modo di pensare il rapporto architettura-città, imponendo una apertura di campo potenzialmente molto feconda in termini strategici.

Tra i vari modi possibili di trattare il tema, quello che mi sembra più interessante è cercare di mettere a fuoco una chiave di lettura significativa, ovvero individuare esperienze in grado di restituire, per la loro profondità di analisi, la complessità intrinseca che è alla base del fenomeno descritto da questa definizione.

In quest’ottica, è a mio avviso interessante partire da tre ricerche:

1. J. Fenton, Hybrid Buildings, 1985;

2. M. Kaijima, Y. Tsukamoto, J. Kuroda, MIT – Made in Tokyo, 1996;

3. A+T, Híbridos, 2008-2009.

Nonostante lo sfalsamento cronologico, nonostante riflettano su contesti geografici, socio-economici e culturali molto diversi e utilizzino approcci e metodologie differenti, le tre ricerche sono accomunate da una visione aperta e dall’obiettivo di definire un campo di sperimentazione come percorso sia verso una ridefinizione terminologica, essenziale per comprendere l’evoluzione dell’architettura in termini di complessità, sia verso il superamento dei confini disciplinari come strada verso la possibile codifica di strumenti innovativi in grado di generare uno spazio che sappia accoglie le nuove istanze sociali.

Una delle questioni centrali può essere posta in questi termini: recepire e accogliere il cambiamento sociale o proporlo e indurlo attraverso ipotesi formali e spazi codificati?

La prima delle due strategie sembra essere uno dei denominatori comuni delle differenti riflessioni sugli ibridi. In questo senso l’utilizzo di “analoga” concettuali presi a prestito dalla genetica consente di contemplare, all’interno del discorso sulla trasformazione della città, “modelli” concettuali mutuati dalla biologia (si fa riferimento per esempio  al “vigor ibrido” o al “principio della vita”) e viene utilizzato in chiave antitipologica (cfr S. Holl, premessa a Hybrid Buildings, 1985), a partire dall’assunto che la codifica tipologica rappresenti un processo della disciplina troppo rigido per accogliere le esigenze e l’immaginario di una società in continua mutazione.

All’interno della trattazione del tema “edifici ibridi” esiste infatti una componente fortemente critica verso i prototipi disciplinari, considerati come ideologici e rigidi nei confronti delle capacità delle forme strutturate di recepire il cambiamento.

L’analogia biologica viene quindi utilizzata anche come mezzo per superare il macchinismo/meccanicismo tipico dell’approccio funzionalista. Il rapporto forma/funzione si svincola dalla dinamica causa/effetto per riproporsi su un piano interattivo/dialettico.


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