Il nostro studio si chiamava “Laboratorio di Architettura”. Noi ci sentivamo anche tecnici e cercavamo un posto dove costruire un laboratorio per fare esperimenti di vario tipo. Era il 1972 e avevamo trovato un capannone sulla via Nomentana ma Sergio Bianconcini si rifiutò di prenderlo in considerazione, perché era troppo lon- tano e scomodo. Era quasi in campagna, all’altezza del raccordo anulare.
(Paolo Mazzocchi)
A quel tempo tutti gli studenti di Architettura usavano unirsi in uno studio dove dovevano essere rigorosamente rappresentati tutti gli anni del corso di studio. Quindi per ogni “studio” c’erano studenti del primo anno, secondo, finoal quinto e anche i fuoricorso. Io avevo una grande ammirazione per Amedeo Fago e a quell’epoca condividevamo lo studio di Via Cimabue e fu proprio lì che ci raccontò della scoperta di quello strano luogo in Via Tiepolo.
(Gianni Giovagnoni)
Quando Amedeo Fago, mio padre, creò il Politecnico io avevo quattro anni.
… Mi ricordo uno studio di architetti su un piano sopraelevato con un tetto a shed…
…Mi ricordo lo studio di Mario Carta, scultore e fratello di mia madre e un corridoio buio in fondo al quale c’era lo studio di un fotografo.C’erano tanti cunicoli poco illuminati, una sorta di labirinto in cui mi perdevo e di cui non capivo assolutamente il percorso…destra, sinistra, chissà dove si arrivava.
…Un evento indimenticabile è stata la performance che fece mio padre nel 1978. Avveniva in una piccola sala. La famosa “sala B” che poi, nel corso del tempo divenne lo studio di mio padre. C’era tantissima gente.
Nel mio ricordo tutti stavano in piedi tanta era la ressa di persone che affollava la sala. Ho ben presente mio padre che si aggirava per quel piccolo spazio davanti ad uno specchio.
(Matteo Fago)
…La prima volta che andai al Politecnico fu nel 1975: avevo scoperto un nuovo cineclub a Roma!…
Da quel giorno ci andai quasi tutte le sere. Io venivo da Milano ed ero stata una assidua frequentatrice della Cineteca di Piazza San Marco. … era anche diventato un punto di ritrovo tra amici. Un appuntamento fisso…
(Lia Morandini)
Sono arrivata al Politecnico alla fine del 1973. Ero allora allo studio Arco di Via degli Scipioni con Cellini e il suo gruppo. Lì era confluito anche Sandro Anselmi che aveva lasciato lo studio Grau e francamente l’atmosfera di gruppo chiuso e monastico che avevano quasi tutti gli studi di architettura, non mi corrispondeva, mi stava stretto. Ricordo perfettamente che una mattina incontrai per caso Amedeo Fago che mi informò che aveva fondato un’Associazione Culturale dentro un cortile del Flaminio e che mi propose di aderirvi anch’io e io andai subito a vedere. Trovai il posto un po’ “sgarrupato”, però con tante presenze diverse che avevano come programma obiettivi culturali comuni a cui arrivavano attraverso i linguaggi più disparati e tutto ciò mi interessava tantissimo e subito pensai di aderirvi.
Andai allo studio di Via degli Scipioni e comunicai agli amici, ai colleghi, marito compreso, che avevo fatto la mia scelta e che andavo via dallo studio. E così ho fatto, prendendo possesso al Politecnico di quel locale dove poi sono rimasta più di trent’anni, portando con me un gruppo di arrabbiatissime femministe. (Giovanna de Santis )
Io mi ricordo che fui subito entusiasta, quando Amedeo Fago mi propose, per primo, di partecipare al progetto del Politecnico e da questo momento cominciai a scrivere la musica, perché io avevo suonato tanto, però non avevo mai scritto. Lì in quei giorni c’era Nietta La Scala, lei mi passava le favole che scriveva e io le componevo la musica…così iniziai la mia carriera di compositore.
(Massimo Coen)
Era il marzo del ’73 e attraverso il passaparola di alcuni ragazzi che frequentavano un Laboratorio teatrale con Mario Prosperi – alcuni di loro studenti della Facoltà di Magistero, dove io ero all’epoca Cultore della Materia alla Cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo con Federico Doglio – venni a vedere lo spazio, che aveva trovato Amedeo Fago in Via Fracassini, per valutare la possibilità di mettervi in scena il saggio di fine anno di un laboratorio teatrale universitario. Fu un incontro abbagliante, coinvolgente e sconvolgente: un grande spazio pieno di luce, silenzioso, un labirinto di sale all’interno di un grande isolato di palazzi anni ’30. Un’architettura di respiro europeo. Nulla a che vedere con le salette della rive droite di Trastevere. Accanto al portoncino di quella che sarebbe diventata la Sala Teatro, un ciliegio in fiore. Mi sembrò il campo dei ragazzi della Via Pal.Fu amore a prima vista.(Giancarlo Sammartano)
Di lì a poco il Politecnico si fuse con il Filmstudio, perché in effetti anche la cultura dei cinefili stava ormai maturando una visione molto più larga. E in qualche modo il Politecnico nella sua specifica natura di spazio cinematografico e spazio filmico, ma anche nel suo insieme, nelle relazioni che stabiliva, aveva funzionato da laboratorio per preparare quel salto di qualità, che nella messa in scena fu appunto Massenzio e l’Estate Romana di Renato Nicolini. Oggi a quarant’anni di distanza penso che la fase iniziale del Politecnico, oltre ad aver dato vita a Massenzio con Renato Nicolini, Bruno Restuccia, Francesco Pettarin e Giancarlo Guastini, abbia costituito l’elemento di raccordo, la sperimentazione, l’intuizione e la traccia di quelle che poi sarebbero diventate le televisioni private. (Alberto Abruzzese)
Nel ’74 è nato il Gruppo Cinema del Politecnico. Eravamo cinque ex studenti militanti del Liceo Augusto di Roma sud più amici cinefili e avevamo coinvolto nel progetto di apertura di una sala, inizialmente nel centro storico, oltre ai genitori pensionati (per esempio 2 milioni e mezzo tolti dalla liquidazione del mio) i nostri punti di riferimento teorici, il professore Alberto Abruzzese (che insegnava storia della letteratura italiana alla Sapienza, come assistente di Asor Rosa) e Beniamino Placido, un americanista di straordinaria cultura e ironia, che avevamo molto apprezzato nei convegni organizzati proprio da Abruzzese a Pesaro e a Venezia in quegli anni. Ristudiare il cinema americano classico, riletto e rianimato dalla new Hollywood, era il nostro primo obiettivo sia politico che estetico. In quegli anni era molto difficile e costoso accedere alle Library delle Mayors. E molto presto sarebbe stato impossibile per i lauti accordi economici con le nascenti tv commerciali private. Si ballò per sole poche estati.
(Roberto silvestri)
C’era un grande fermento nell’aria. Tutti ricordano Il famoso maggio francese, che è cominciato il 3 maggio 1968 ed è durato quattro settimane: con gli accordi tra Pompidou e i sindacati e più tardi le elezioni indette da De Gaulle, a giugno era già tutto praticamente finito. In Italia invece il fermento è stato molto più attivo ed è continuato per anni. La battaglia di Valle Giulia è avvenuta ben prima del maggio francese, nel marzo del ’68…Eppure quando si parla di ’68 per prima cosa si pensa al “maggio francese”. Si sa, i francesi sono molto più bravi a rendere memorabile la propria immagine…
Noi allora eravamo tutti compagni di scuola del liceo classico Augusto, un enorme liceo per i quartieri Appio, Tuscolano e Cinecittà, che da solo serviva un’area di centinaia di migliaia di abitanti. Avevamo organizzato una cosa che chiamavamo “cooperativa”, ma che era un gruppo assolutamente informale, e avevamo messo insieme cineprese e altre attrezzature per girare dei film – super8, s’intende. C’era Roberto Silvestri della sezione C, Giancarlo Guastini della sezione L, io della sezione M: anni diversi, stesso comitato di base. Io ero il rappresentante del ginnasio. Poi, con la trasmigrazione a scaglioni verso l’università, il gruppo di amici si era mantenuto e anzi si era allargato sempre più, con Ottavio Fatica, Francesco Petrone e tanti altri.
Fu allora che ci venne l’idea di aprire un cineclub…(Bruno Restuccia)
All’inizio degli anni settanta, all’Università “La Sapienza” di Roma in cui studiavo, avevo conosciuto Silvana Silvestri e tramite lei ero entrato in contatto anche con il fratello Roberto. Furono però Bruno Restuccia e Giancarlo Guastini, amici di Silvestri, che ebbero l’idea e ci proposero di fare insieme un cineclub che sarebbe dovuto essere diverso da quello già esistente a Roma dal 1967, il Filmstudio. La nascita del nostro gruppo era stata teoricamente accompagnata dagli insegnamenti di Alberto Abruzzese, poi iniziò la ricerca di un “nido” che trovammo finalmente nel centro polivalente, allora così si chiamava, del Politecnico nel 1974, anno in cui iniziammo i lavori per trasformare la vecchia falegnameria del complesso in una sala cinema attrezzata per ogni tipo di proiezione.
Inoltre in quello stesso lasso di tempo, non mi ricordo bene l’anno, mi trovai ad andare, per la prima volta, grazie ad una piccola ricerca collettiva propostaci da Abruzzese, alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, di cui successivamente sono diventato per 15 anni Direttore, l’appuntamento fondamentale di tutti i cinefili italiani di allora.
…Fui quindi costretto a studiare e a confrontarmi con un grande passato cinematografico fatto di Espressionismo, Kammerspiel e grandissimi registi come Ernst Lubitsch, Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang e Georg Wilhelm Pabst. Da una parte quindi ero sollecitato, tramite il mio lavoro di ricercatore germanista, ad occuparmi del periodo classico, dall’altra volevo diffondere il contemporaneo nuovo cinema tedesco che era quello che sen- tivo vicino alla mia sensibilità e contava autori profondamente innovatori come Kluge e Reitz prima e poi Fassbinder, Herzog e Wenders. Tutto ciò lo riproponevamo anche nel nostro cineclub.
La nascita del Politecnico-Cinema è stato quindi un momento molto ricco di suggestioni e di stimoli. Crescevamo con il cinema che si vedeva e che ci arricchiva – oggi, purtroppo, non è più così, anche se ovviamente non mancano dei buoni film. Per noi allora il cinema era la vita e la vita il cinema…(Giancarlo Spagnoletti)
Un altro ricordo dell’epoca fu la performance “Auto-ritratt-azione” di Amedeo Fago: emotivamente molto forte. Il senso era di dare un autoritratto di sé stesso e contemporaneamente un’autoritrattazione, cioè ricusare quello che era stato fino a quel momento, raccontarlo e probabilmente agire un cambiamento in scena. Questo era il suo intento. Lui si tagliava la barba che era una forma di “rivelarsi in quel momento”: la barba è un elemento che copre, nasconde e rappresenta un preciso momento storico, cioè il ’68. Lui tagliandosela, probabilmente, si voleva scoprire e anche mettere un punto sul passato. Il titolo della rappresentazione mi aveva molto colpito e anche i tre, quattro, forse anche cinque significati, che lui dava a quell’azione. Un altro spettacolo di Fago a cui partecipai fu “Risotto”. All’epoca c’era da parte nostra una grande volontà di partecipare alle azioni degli altri. A me è sempre piaciuto lavorare con le mani, anche nella mia attività profes- sionale. Stavo sempre nelle falegnamerie a guardare quali strumenti si adopera- vano, a capire le differenze e le procedure. Mi interessavano i materiali e tutto quello che si può fare con le mani. Al Politecnico quasi tutti lavoravano con le mani: chi dipingeva, chi faceva ceramica, chi fondeva il bronzo. Anche chi fa teatro in fondo lavora con le mani, anzi con tutto il suo corpo.
(Giancarlo Guastini)