A lungo considerate luoghi senza storia, senza tradizioni, senza regole, a volte addirittura senza un nome, le periferie appaiono oggi, paradossalmente, tra i contesti più vitali di Dakar, la capitale del Senegal. Dall’alto sembrano formare un’entità omogenea e compatta, un assembramento di cubetti bianchi pigiati stretti gli uni contro gli altri, per chilometri. Dietro povertà e contrasti, tuttavia, ogni insediamento nasconde una storia originale, rappresentativa dei modi diversi in cui, nel corso dell’ultimo secolo, si sono affrontate le trasformazioni dell’antica capitale dell’Africa Occidentale Francese in una moderna metropoli. La sua cinta periferica, fin dal periodo coloniale, costituisce un vero e proprio laboratorio a cielo aperto, “un territorio sperimentale” secondo Georges Balandier, difficile anche solo da descrivere perché “si organizza e si stratifica davanti ai nostri stessi occhi”. Qui i suoi abitanti, in gran parte contadini e villageoises recentemente immigrati dalle campagne, sperimentano autonomamente modelli urbani innovativi, in cui forme e modi d’uso propri della tradizione si contaminano con la civiltà moderna.
Spazi e tempi diversi si intrecciano, collidono, stridono in maniera quasi schizofrenica per le sue strade, dove non è difficile incontrare pecore al pascolo di fronte a centri commerciali o villaggi tradizionali accanto a costruzioni in cemento e vetro. Invano le differenti amministrazioni hanno cercato di imporre delle forme allo sviluppo urbano: il metabolismo frenetico impresso alla città dai suoi abitanti, tradizionalmente abituati a costruire da sé le proprie abitazioni, ha finito per stravolgere singoli edifici quanto interi quartieri. Come a Medina, ghetto africano costruito dai coloni a inizio Novecento, dove gli abitanti hanno destrutturato dall’interno l’originario tessuto regolare; o a Castors, esperimento di auto-costruzione assistita realizzato attorno alla metà del secolo scorso, oggi sommerso da aggiunte e modifiche; o ancora a Parcelles Assainies, sorta di “bidonville-attrezzata” con la quale il governo senegalese, assistito dai tecnici della Banca Mondiale, ha tentato senza successo di contenere, dopo l’Indipendenza, il proliferare degli slums nella capitale.
Se molti quartieri ispirati a modelli importati si sono rivelati, nel tempo, poco adatti ai modi di vita dei locali, nei tanti insediamenti informali, sparsi tra gli interstizi della città ufficiale, si nascondono realtà urbane tra le più interessanti. Come Pikine, vibrante e caotico “villaggio di villaggi”; o Guinaw Rail, vero e proprio “villaggio urbano” dove, con mezzi poverissimi o di riciclo, la popolazione locale è riuscita a organizzare da sola un tessuto urbano a misura della comunità che la abita. Questi complessi presentano certamente dei problemi enormi, legati in primo luogo alla mancanza di adeguate infrastrutture e alle precarie condizioni igieniche; invece di affrontarli, però, si continua spesso a far ricorso agli sfollamenti. Di fronte agli insuccessi di tanti quartieri pianificati, afflitti da problemi endemici (degrado, speculazione, mancanza di identità) che nessuna amministrazione sembra in grado di risolvere, emerge allora un sospetto: che forse un cambiamento avverrà solo quando gli abitanti delle banlieue vedranno riconosciuti e valorizzati i propri modelli culturali.