La nuova logica delle valutazioni, cui l’università viene piegata, da poco e per la prima volta è stata messa alla prova su grande scala. In questo periodo vengono pubblicati, dopo diverse proroghe, i risultati delle «abilitazioni» nazionali nei vari settori disciplinari. Per ogni settore una commissione nazionale, nominata con procedure complesse, è chiamata a giudicare in anteprima e per tutt’Italia chi potrà partecipare ai concorsi futuri di professore associato e di professore ordinario. Perché adottare questo percorso? L’idea è che ai concorsi si presentino troppi aspiranti. Questo li renderebbe farraginosi e confusi, perché le commissioni sono chiamate a giudicare una massa indistinta e senza discrimine, con troppe persone di basso livello. L’abilitazione serve ad attestare in modo preventivo «[…] la qualificazione scientifica che costituisce requisito necessario per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori»[1]. Si scelga prima, per titoli e in modo obiettivo, chi ha l’esperienza e la dignità per potersi presentare. Si scartino coloro che non hanno dato buona prova di sé, selezionando una cerchia più stretta da cui trarre nuovi docenti. La selezione si basi su criteri indiscutibili e uguali per tutti, e dunque su «indicatori di attività scientifica» che consentono di «misurare» sia la qualità che l’«impatto» esterno della «produzione» dei candidati (in particolare il numero delle citazioni di cui si è stati oggetto)[2]. La misura si traduce per lo più in indici numerici. È il sistema già richiamato e detto Asn, Abilitazione Scientifica Nazionale, e una delle prime dimostrazioni di quella rigorosa «macchina per valutare» messa a punto nel tempo.

Ad oggi, secondo il Cun (Consiglio universitario nazionale) e il suo presidente Andrea Lenzi[3], su 36.367 domande per professori associati le abilitazioni sarebbero state 15.502, il 42,6%, mentre su 16.038 domande per professori
ordinari le abilitazioni sarebbero state 6.960, il 43,4%. La valutazione avviene per settori disciplinari, e mentre in alcuni le commissioni hanno abilitato una percentuale di candidati relativamente alta, in altri è stata molto bassa, del 20% o meno (come nel settore della Progettazione architettonica). Tre osservazioni. La prima: pochi commissari sono stati chiamati a giudicare spesso molte centinaia di candidati e migliaia e migliaia di pubblicazioni. Per quanto possa esser stato lungo il tempo complessivo dedicato al giudizio, quello dedicato a ciascun candidato e al confronto collegiale davvero non poteva che essere molto ridotto. La conoscenza delle pubblicazioni, delle carriere e delle persone era per forza superficiale. Seconda osservazione: la procedura non portava a un conferimento di posti, ma autorizzava a concorrere in futuro a dei posti. Abilitare una percentuale alta o bassa di candidati, era per le commissioni una scelta discrezionale sulla quale hanno avuto comportamenti ogni volta diversi, che sarebbe strano attribuire alla qualità dei concorrenti, anziché all’atteggiamento di chi era chiamato a decidere. Quanto più la cerchia degli abilitati è stata ristretta, tanto più essi avranno possibilità future di vincere i pochi posti a concorso. Terza osservazione: i criteri di ponderazione, di misurazione e di calcolo cui la normativa imponeva di attenersi, erano complicati e astrusi, come si è cercato di mostrare, tanto che ad essi i commissari hanno dato un rilievo apparente e spesso nessun rilievo. E quando li hanno tenuti in maggior conto, sulla neutralità apparente ha vinto in ogni caso il giudizio personale e interessato. È dimostrato dai verbali e dai giudizi sui candidati[4]. Ed è di nuovo accaduto che abbiano vinto logiche parentali.

L’esito è stato quello di promozioni e condanne di assoluto arbitrio. Non si sa (o si sa bene) quanto l’arbitrio sia stato guidato dal sistema antico dei «suggerimenti» e delle «spinte». Non si sa (o si sa bene) quali e quanti siano stati i conflitti e i veti tra i commissari. Si sono ridisegnati i settori disciplinari, escludendone o ridimensionandone alcuni e favorendone altri.

Di sicuro un tempo regnava il disordine. Nel disordine, erano i potenti e le loro trame ad avere la meglio. Costruiamo una regola che sia sopra le parti, disse qualcuno. La regola deve avere uno scopo nobile ed alto, che è di rimediare al disordine: per questo dobbiamo farla rigorosa, neutrale e sicura. Ma si scopre che il disordine non è solo ingiusto, ma intricato. Per controllarlo, la regola gli deve corrispondere ed essere intricata a sua volta. Così la si definisce per leggi, decreti, allegati, articoli, sotto-articoli, regolamenti, procedimenti, e poi ancora per commissioni, riunioni, indicatori, mediane. Nella società complessa la norma ha da farsi per forza complessa. Si trasforma in una nuvola vasta ed oscura. Dentro la nuvola si nasconde a quanto pare il rigore. Così si usa in altri paesi, si dice, così sia nel nostro (non ci si chiede se anche altrove sia giusto; né quali siano stati gli effetti; né quanto il nostro sistema si discosti da quello di altri). Fatto sta che non si sa dove siano finiti i potenti e le trame. Nel disordine di un tempo regnava l’arbitrio. Nell’ordine di oggi regna un arbitrio che sembra ordinato. I condannati piangono l’ingiustizia della loro condanna, ma è diventata meno visibile la mano che ha compiuto l’abuso. Esaminate con attenzione la natura dei fatti, e quanto meno stupitevi e trovatela strana.

 


[1] Legge 240 del 30 dicembre 2010, cit. alla nota 1, art. 16, «Istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale»

[2] Sono espressioni ricorrenti nella normativa e in particolare nel «Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari […]», Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Decreto Ministeriale 76 del 7 giugno 2012.

[3] I dati sono tratti dalla relazione «Quale modello di sviluppo per i docenti universitari», tenuta il 20 febbraio 2014 dal prof. Andrea Lenzi, presidente del cun, all’università La Sapienza di Roma. La relazione era parte del terzo incontro dei cosiddetti «Sapientia Colloquia», organizzati dall’università sul tema
«Modelli e proposte per il futuro».

[4] Nelle polemiche suscitate dalla pubblicazione dei risultati, si è sostenuto che la discrezionalità degli esiti non dipenderebbe dal sistema generale di valutazione, in sé rigoroso, ma da trucchi impiegati e da norme accessorie. Tra esse, l’appiglio costituito dalla previsione, all’interno dei settori disciplinari, di un insieme di «sottoinsiemi omogenei». Essi hanno una procedura di individuazione complicatissima, che il Cun ha contestato. Poiché le «mediane» o valori medi di un «sottoinsieme» possono essere diversi da quelle di un settore disciplinare considerato in modo unitario, i risultati si possono manipolare, in modo che candidati mediocri prevalgano su altri di qualità e con ottimi lavori. Ma al di là degli espedienti cui è possibile ricorrere in una normativa così complicata, ciò che va respinto sono la logica d’assieme e l’ideologia delle valutazioni in sé e per come sono state pensate.

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