La condition postmoderne tratteggiata da J. F. Lyotard nel 1979 definisce la messa in crisi delle certezze del pensiero moderno, della politica del continuum e delle grandi narrazioni metafisiche (illuminismo, marxismo, idealismo), substrato ideologico sociale degli ultimi tre secoli, presupposto delle utopie avanguardiste di inizio novecento.
Le prime destabilizzanti ripercussioni del nuovo scenario sociale in architettura furono immediate.
Al disincanto ironico di P. Blake e R. Venturi degli anni settanta, e al coevo eclettismo di J. Stirling e C. Moore faceva eco il manifesto del movimento post-modernista di C. Jencks, del 1986, che ammoniva su come nessuna linea di pensiero fosse più percorribile senza imbarazzo o ironia.
Per contro F. Purini alla selettiva inclusività di Jenks opponeva ed oppone, nel lavoro progettuale, una esclusività selettiva. (cfr. F. Purini, Dal progetto, a cura di F. Moschini e G. Neri, Roma, 1992, p.95, nota n.11.); S. Settis leggeva “l’inclusione di elementi di origine classica o neoclassica […] come un citazionismo intrinsecamente frammentario e sconnesso” (S. Settis, Il futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino, 2004, p.23.).
Già al confronto tra i procedimenti parattattici rossiani e i ludici bricolage di C. Rowe si coglie la distanza dei primi orientamenti dell’epoca post-moderna.
Di fronte alla situazione attuale ancora più frammentaria e convulsa ritengo sia improduttivo, se non dannoso, seguitare in tentativi di sopraffazione di una posizione sull’altra. Sempre Purini (in un articolo del 2002 –La scena nuova-edito in questa rivista) suggerisce di superare la concezione militare della dialettica.
Se di Common Ground è difficile parlare (la laguna veneziana nell’ultima Biennale era l’unico terreno comune di questa fallita esperienza) si rivela fondamentale la convivenza ed il riconoscimento reciproco delle differenze, degli opposti, delle contraddizioni; è necessario dar voce alle minoranze.
La sintesi, semplificatrice ed artificiosa, produce la pericolosa spirale di un centro rigidamente totalizzante
E’ sempre attuale la lezione di Gregorio Magno: “pro veritate adversa diligere”.
La politica attuale, nel paesaggio della globalizzazione mediatica, predilige la spettacolarizzazione di un’architettura che, mortificata, si fa sempre più icona di se stessa digeribile alla velocità di un clic da un pubblico ormai sazio e indifferente, sacrificando la molteplicità sull’altare della rendita.
Già nel 1974 P. P. Pasolini denunciava il sistema dei mass-media come forma di dittatura ben peggiore di quella del regime; ridendo di sé e della sua maggioranza rivalutava l’architettura di Sabaudia non già figlia del fascismo, ma specchio di un’autentica realtà italiana non ancora corrotta dal mostro orwelliano dell’omologante dominio mediatico.
Oggi ogni architetto dovrebbe fare proprio il dettato chomskyano che mette in guardia dai bisogni indotti da implacabili ed imbellettate leggi di mercato.
Se un riscatto politico vuole essere tentato, evitando le derive ideologiche di un utopismo regressivo, l’architettura dovrà agire, secondo la lezione di M. Tafuri, con discrezione guicciardiniana: affrontando i fenomeni volta per volta, non macchiandosi di uβρiς sulla strada di un’attività astratta e/o mistificata dall’ideologia dominante.
Bisogna imparare a “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio” (I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972).