Ciò che accade al Politecnico è sintomo di ciò che accade nell’università italiana, e ciò che accade nell’università serve, almeno in certa misura, a inquadrare e spiegare ciò che avviene nell’ateneo. Anche la vicenda della Scuola di architettura civile va riportata a questo quadro, a meno di perderne il senso.

Da tempo si è affermata non solo nelle politiche di governo, ma nell’opinione comune, un’idea nuova di scuola e di università. Si pensa che entrambe debbano corrispondere a criteri di efficienza e che l’efficienza debba essere misurata secondo criteri di «rendimento produttivo». Il sapere è cumulabile e capitalizzabile. Va oggettivato e trasferito. L’università deve fornire prestazioni che vanno ridefinite nel tempo, in modo da adempiere ai suoi obblighi nei confronti della società. Il rendimento è immaginato come il rapporto tra le risorse impiegate nella vita dell’istituzione, intese in senso lato, e le prestazioni che come ritorno deve garantire, procurando un utile in senso sia economico che sociale. I risultati cui arrivare sono un sapere di cui ci si possa valere in modo diretto, ma anche un capitale umano spendibile sul mercato del lavoro. È un’idea tendenzialmente aziendale. Scuola e università sono riportate a compiti di servizio e a una sfera di scopi riconoscibili e lineari. Sono viste soprattutto come strumenti. Devono essere subordinate, nella concezione come nella struttura organizzativa, alla logica di funzionamento di una società basata sul mercato e sulla competizione tra individui. È un mercato pensato com’è, senza volontà di prefigurazione. Con il paradosso che la forza lavoro deve essere preparata e resa disponibile in un momento di crisi drammatica del mercato del lavoro. Il Politecnico è uno degli avamposti di questo processo di trasformazione.

Bisogna dunque produrre giovani laureati; poi studi, articoli, libri; infine (e soprattutto) ricerche spendibili nel mondo delle imprese. Meglio se i «prodotti» sono fonte di guadagno e di denaro, perché servono ad autofinanziare un’università sempre meno finanziata dallo stato. Il lavoro e l’elaborazione universitaria sono ridotti ad attività valutabili in termini quantitativi ed econometrici. Per organizzare e misurare è necessaria una burocrazia che si ingigantisce. Ma è necessario anche un legame stretto con il mondo economico, che diviene «controfaccia» o «committente» del lavoro universitario. Non si tratta solo di un’ideologia: si tratta di una pratica ormai comune e di un corpo normativo e di leggi esteso e approvato, che impone il modello e lo traduce in realtà. È il modello liberista che entra nell’università e ne stravolge la tradizione. È il «superamento» di un’idea di università basata sull’elaborazione critica, sulla costruzione di cultura, sulla formazione di un pensiero capace di immaginare il destino del paese.

Ma come si può – diranno in molti – essere addirittura contro l’efficienza? È chiaro che dobbiamo essere contro quel tipo di efficienza: ed è chiaro che l’università deve assolvere in modo incisivo ed efficace il suo mandato, ma che esso dipende dall’idea che ne abbiamo, dal ruolo e dalle finalità che proponiamo. Il modo di organizzarsi dell’istituzione è legato ai suoi compiti pedagogici e di ricerca e ai suoi rapporti interni di lavoro. Vanno eliminati gli sprechi e ridistribuite le risorse; combattuto il dilagare della burocrazia; contrastati in modo duro l’assenteismo e il disimpegno; messe in discussione le rigidità del sistema gerarchico, per promuovere la cooperazione tra persone con ruoli e competenze diverse; la logica della valutazione e dell’esclusione va sostituita con quella del recupero e dell’esaltazione delle diversità.

Nella visione corrente, si pensa che il centro dell’università stia nella sfera delle tecniche e dei saperi strumentali. Ma tecniche e strumenti mutano con grande rapidità e l’università è costretta a inseguirli, al fine di inseguire le esigenze produttive. La tecnica contagia per analogia l’impostazione e il funzionamento della scuola, che sempre più sceglie di basare la propria pedagogia su criteri di funzionalità, sul dominio del numero, sulla misura dei meriti, sul sistema dei crediti, sul ricorso a tecnologie estese ad ogni aspetto. Gli strumenti tecnologici valgono per le loro apparenze e il loro mito, anziché essere al servizio di una costruzione lenta del sapere. Il flusso strabordante delle immagini e delle informazioni crea una realtà virtuale potente, in cui gli studenti si trovano immersi e con loro i docenti. È una logica di consumo, che riduce gli spazi della conoscenza e del pensiero; una logica del superamento e della velocità, alternativa ai tempi della conoscenza non effimera e alle esigenze della riflessione. All’opulenza informativa corrisponde l’indigenza culturale.

È singolare come Antonio Gramsci avesse descritto con efficacia un’evoluzione delle strutture scolastiche e universitarie, che oggi, a distanza di quasi ottant’anni, pare corrispondere a ciò che viene accadendo, come se si trattasse di una tendenza di lungo periodo e di un’ideologia che si rinnova e ritorna. «Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola “disinteressata” (non immediatamente interessata) e “formativa”, o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale, e di diffondere sempre più le scuole professionali specializzate in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati. […] È da tener presente la tendenza in sviluppo per cui ogni attività pratica tende a crearsi una sua scuola specializzata, così come ogni attività intellettuale tende a crearsi propri circoli di cultura, che assumono la funzione di istituzioni post-scolastiche specializzate…»[1]. Ciò vale ancor oggi sia per la scuola che per l’università, dato che entrambe sottraggono spazio agli aspetti formativi e si chiudono in dimensioni d’ordine pratico e settoriale.

Ma Gramsci aveva intuito anche i modi e le finalità di una nuova burocrazia, formata per consentire l’intromissione di interessi privati. «Questa attività ha già creato tutto un corpo burocratico di una nuova struttura, poiché oltre agli uffici specializzati dei competenti che preparano il materiale tecnico per i corpi deliberanti, si crea un secondo corpo di funzionari, più o meno “volontari” e disinteressati, scelto volta a volta nell’industria, nella banca, nella finanza. È questo uno dei meccanismi attraverso cui la burocrazia di carriera aveva finito col controllare i regimi democratici e i parlamenti; ora il meccanismo si va estendendo organicamente ed assorbe nel suo circolo i grandi specialisti dell’attività pratica privata, che così controlla e regimi e burocrazie. …ogni tentativo di esorcizzare queste tendenze dall’esterno, non produce altro risultato che prediche moralistiche e gemiti retorici»[2]. La riforma Gelmini ha previsto l’ingresso di soggetti esterni negli organi di governo dell’università, in particolare nei Consigli di amministrazione. È un problema che dovrebbe pur essere affrontato, questo dell’intreccio tra interessi privati e ricerca universitaria, e di un sistema di scambi stabilitosi nel tempo tra poteri teoricamente autonomi. Il primo atto dovrebbe essere quello di istituire una trasparenza che non c’è.

Non si tratta, com’è ovvio, di negare in sé l’importanza dei rapporti col mondo della produzione. Si tratta di riportarli a un quadro di autonomia vera delle università e di sottoporli a controllo, regolamentandoli e rendendoli pubblici; si tratta insieme di dare consistenza non solo alla ricerca applicata, ma a quella scientifica e di base, alla riflessione epistemologica, a quegli studi «disinteressati» e «formativi» che hanno avuto così poco spazio nel Politecnico di Milano, diversamente che in altre scuole europee di tradizione politecnica. Scopo dell’università non è di formare solo «produttori competenti», ma prima ancora cittadini ricchi di spirito critico e tecnici in grado di intendere in modo globale le questioni.

torna all’indice

 


[1] Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, volume dei Quaderni del carcere, Editori Riuniti, Roma, 1975, p. 128. La citazione è tratta dalla vecchia edizione dei Quaderni, organizzata in 6 volumi tematici.

[2] Ibidem, p. 129.