Parlerò della “scuola” milanese, _ che ho frequentata e “professata” per un quarantennio_ a partire da qui, da quanto ho assimilato ed insegnato, a partire da Camillo Boito che riassume il dibattito ottocentesco.
Convinto , come sono, che l’ascendere al medioevo fosse un modo di sganciarsi dalla eredità rinascimentale senza tradirla ma indicando una diversa ascendenza al nuovo stile, apriva, per così dire, una strada al futuro che condurrà poi al liberty ed al futurismo.
Ovviamente non dico che Boito professasse il nuovo stile perché non è vero. Dico che le sue testi, e la sua teoria dello stile, indicava una via che lui stesso voleva originale (cfr.C. Boito, Sullo Stile futuro dell’Architettura italiana, in Architettura del Medio Evo in Italia, Milano, 1880, Hoepli ; introduzione. p.XI. ). Questo , nella interazione coi movimenti artistici internazionali, art nouveau, nell’attenzione alla originalità del proprio tempo, che dal medioevo traeva soprattutto l’attenzione pragmatica al caso per caso, al privilegio del locale sull’universale, sull’artigianato piuttosto che sull’intelligenza speculativa, porterà dapprima gli architetti milanesi ad una forma originale di “art nouveau”, il liberty ed in seguito al futurismo. Si veda la biografia architettonica di sant’Elia.
Sottolineo questo sviluppo da Boito ad Albertini o Arata e a Sant’Elia perché il rimando a Boito, ed al palladianesimo milanese, che persiste nelle sue tesi, come al maestro irrinunciabile, non sembri un richiamo retrospettivo.
So che si impose in quegli anni il problema della genesi, e so che a questo contribuì potentemente il futurismo per la rivoluzione nelle arti ed in architettura. Ma so che la scuola italiana negli anni cinquanta rappresentò un punto di forza nel ripensare i fondamenti dell’architettura moderna; e che l’insegnamento di Boito, attraverso Annoni, insegnante di caratteri stilistici dei monumenti, giunse a E.N.Rogers che tenne quella cattedra per il decennio successivo che fu tra i più importanti per il rinnovamento dell’architettura cui partecipò da attore divenendo il ferimento principale della scuola milanese degli anni ’70 e ‘80. Anche per me che ho avuto De Carli come maestro ed ho tratto da di lui l’idea dello “spazio primario” come nascita ideale o mentale delle “cose” architettoniche.
Scrive Boito: «Ogni stile architettonico ha dunque un’ossatura sua propria, che viene dalla distribuzione interna dell’edificio, dalla qualità dei materiali impiegati nella costruzione, dall’ordinamento statico della fabbrica, dalle condizioni naturali del paese, da certi principii della scienza e della pratica architettonica, – principi diversi, come tutto il resto, secondo i secoli e i luoghi.
Or questa ossatura logica, davvero dipendente, più razionale che artistica, è l’organismo. Ma l’organismo non basta a formare lo stile. L’architettura non si ferma all’ufficio di servire e di rivelare la distribuzione e la costruzione: intende ancora alla bellezza, esprimendo con allegorie dirette, con astratte analogie, o con l’indefinibile spirito dell’arte, l’uso dell’edificio, rappresentando quasi inconsapevolmente l’indole della civiltà, certi stati delle culture, certe inclinazioni poetiche o prosaiche dei popoli, e finalmente dando una forma all’animo artistico tutto individuale dell’architetto. Or questi molteplici e differenti ufficii, più civili, estetici, ideali che non scientifici, sembra a noi di poter indicare con la parola simbolismo. Chi ne vuole una più propria, la cerchi. Il vero bello viene dalla intimità delle due parti. E l’espressione anche: le due parti formano dunque unite ciò che si dice uno stile architettonico.»
Noto che i sei termini: statico, distributivo, estetico civile, geometrico, ornamentale sono riconducibili, con le opportune variazioni, a quelli coniati da costruzione, distribuzione, decorazione coniati dalla trattatistica settecentesca francese ed in particolare da J.F.Blondel, si veda il suo famoso “Cours…(1752/71)… ou traitè de la distribution, de la decoration et de la construction” diffusa in tutta Europa dall’Encyclopèdie di Diderot/D’Alambert che così traduce in operazioni architettoniche la triade vitruviana Utilitas/firmitas/venustas designanti piuttosto i fini dell’architettura che non le operazioni intese a soddisfarli.
Le tesi di Boito risalgono alle tesi di Milizia e dell’Enciclopédie (quindi a Blondel) ed in ultima analisi alla estrema versione (illuminista e francese) di Palladio. Boito parla di stile, non di tipo, ma, nel distinguere una parte organica da una simbolica segnala la irriducibilità dell’invariante. Conferisce bensì, al simbolico un primato ma nel contempo lo riduce all’insignificanza di ciò che trapassa. Cosicchè all’altro è attribuita l’invarianza di ciò che resta.
Insomma B. distingue la fabbrica (costruzione) articolata in elementi e parti (distribuzione) – organica – dai segni che ne espongono significati complessi (decorazione) – simbolica – In tal modo l’unità postulata si scinde.
L’effetto della separazione si manifesterà nella prassi d’atelier dove due figure, l’ingegnere e l’architetto impersoneranno i due aspetti dell’opera d’architettura.
L’autore che proporrà la unificazione in una idea per cui il telaio impostato su cellule tridimensionali armoniche , sarà Terragni, la cui chiara sintesi tra organico e simbolico nella casa del Fascio di Como 1932/1936, fa data, mentre coincide con la mostra del Moma di New York del ‘33 intitolata all’ International style, e con il numero famoso di Casabella dello stesso anno con gli articoli di Pagano e Persico sull’architettura moderna e sull’architettura senz’architetti.
La sintesi sta in una sapiente uso dei numeri, quindi delle proporzione tra cubo e parallelepipedo dai lati in rapporto armonico o rettangolo aureo.
Questa armonia dei numeri che accomuna Alberti, Palladio, Terragni ed anche le Corbusier, è stato per me regola di composizione. Perciò sono stato affascinato dal testo di Wittkover Principi architettonici del rinascimento, dal Modulor I e II di Le Corbusier e dalla Matematica della villa ideale di Colin Rowe. Del resto una genesi ideale o mentale, dell’architettura non puà prescindere dai numeri pitagorici.
Però penso che l’Architettura esiga di essere riguardata non solo come individua fabbrica, ma come tale inserita in un contesto urbano. Perciò due altri libri della scuola milanese mi sono diventati necessari, L’architettura della città di A. Rossi ed il Territorio dell’architettura di V. Gregotti che per me riassumono e rinnovano l’insegnamento di Cattaneo, il secondo, ed il procedimento ermeneutico dell’arte il primo, soprattutto per quella Autobiografia scientifica che promuove l’idea di analogia come manifesto di insorgenza genetica dell’archetipo che non può avrere modelli ma repliche originali.
A questi aggiungo altri autori: la Yates, L. Febvre, H. Focillon e L. Kahn, che confriscono alle tesi degli autori milanesi un’apertura ad ulteriori domande la cui rilevanza teorica è massima toccando la questone del monumento questione chiave della semilogia architettonica, la questione del rapporto tra percezione e intelletto delle cose, la questione del rapporto tra spazio corporeo e spazio mentale, la questione del tempo nella diacronia del presente e la questione del rapporto tra topografia e storia.