Come si declina oggi il rapporto tra globalizzazione, megalopoli e villaggio globale ?
Questo interrogatiovo implicito nelle sezioni e nella call for paper è stato avanzato con il massimo dell’efficacaia da una frase lapidaria del testo di M. Sbacchi: paradossalmente la megalopoli contemporanea deve affidare il suo destino al ruolo che in essa giocano i suoi “accidenti” e cioè i villaggi urbani.”
D’altra parte corrisponde  in modo pertinente alla domanda della call for papers: come resistere alle forze omologanti dell’urban profit (profitti, capitale finanziario, urbanizzazione, infrastrutturazione) che, nell’ossessione del presente non scorgono le ragioni della genesi al futuro e l’esigenza di trattenere i fatti  per il futuro come non –rifiuto da smaltire?  E poter così guardare all’urban no- profit (sopravvivenze, inurbamento, favelas) come potenza qual’è? Sapendo che la povertà, che venga dalla indigenza che cerca fortuna o da chi nasce al mondo nudo porta i diritti promessi della cittadinanza civile.
Pare d’altronde che le reazioni alla “Call” che vuol essere provocazione di un dialogo o di un dibattuto che prosegue numero per numero, abbiano, in un modo o nell’altro, tutte, qualcosa a che vedere con questa domanda. Anzi rispondano  con l’ interesse e la passione sorta nel proprio campo d’interessi.  In ogni caso qui si deve stabilire un ponte che, non appiattendo i contributi, peraltro esposti per intero nel seguito, intrecci le sezioni delle tre edizioni, Italia, Mondo e Magazine.
Torno all’oservazione di Michele Sbacchi, che riprende una tesi di Graham Shane  sulla megalopoli che sorge dal processo di crescita della città contemporanea – un tessuto di espansione moderna, più o meno pianificato, che “si imbatte” in nuclei preesistenti e/o  esplode nel territorio circostante, procedendo così nel tempo fino a divenire megalopoli –  che si trova a dover affidare il proprio destino al ruolo che in essa giocano i suoi “accidenti” e cioè i villaggi urbani.” È questo ruolo che apre una possibilità alla visione apocalittica di Mike Davies, cfr. Planet of Slums .
S’incrociano le tesi di Lorenzo degli Esposti che chiede da architetto agli architetti una azione . S’incrociano altresì le aspettative  implicate in molti dei contributi arrivati dove l’attenzione alla smallness (…) segnalano la rilevanza del problema. all’occupazione di strutture abbandonate o dismesse (…)
È come se da ciascuno venisse un memento ed un monito che annuncia la urgenza di qualcosa che un tempo poteva chiamarsi “monumento”, cioè un segno del valore del presente,  non ancora architettonicamente nominato, ma già percepito come tale ed appartenente a ciò che chiamiamo informale, spontaneo e no-profit, non perché estraneo all’economico, ma perché esuberante ed incontenibile entro la sua urgenza di consumo e di rimozione. Ha a che vedere con la storicità, ma come genesi del peresente, di ogni presente che è o che sia stato come genesi. Ad una diversa attenzione ai suoi “momenti” come generativi. Perciò all’irriducibilità del suo “presente” al suo “passato”. Come la re- building european city è iriducibile alla cità del XX secolo, o i procedimenti del Team X sono irriducibili a quelli razionalisti perciò fatti oggetto di esequie simboliche.
Vale perciò l’attenzione, oggi distratta, alle conseguenze della “innovazione” urbana ed  alla rimozione delle preesistenze simboliche  che un’America giovane e attiva guardava con ineluttabilità ma con ansia, come appare dalla ricerca di Alessia Bianco acutamente memore dei capricci settecenteschi o delle carceri di Piranesi. La quale sembra aprire una archeologia del sapere artistico.
Vale allora l’attenzione alla passato recente, razionalismo o post- modernità dei team X o della recostruction . persino i casi di resistenza alla speculazione turistica cfr. cabanyal o i nuovi fenomeni di occupazione come quella del teatro Valle, quelle legalizzate di villaggi montani abbandonati le “aldeas”, o le legalizzazioni recentissime di di antiche occupazioni come Cristiania; tutte appaiono moniti di una urgenza ancora insoddisfatta che relativizza, il valore oggi esclusivo, apparentemente, delle proposte “archistar”, spesso esaurite.
Il tema del tempo nel presente come oltre l’oggi, tema della “storia” come genesi di era in era di nuovi periodi epocali, ed in essi di ora in ora del  successivo momento, tema che ossessionava Focillon come riferisce Kubler….
Il territorio vive e si trasforma oggi più che mai, aggiungo con Giovanni Santamaria, attraverso la  cooperazione tra natura e uomo, sintesi di apporti storico-geografici, estetico-sensitivi e ecologico-naturali, una cooperazione “costruita” da “opere del lavoro. Questo è ciò che determina il ricambio urbano, che, per non dimenticare il sostegno delle energie e risorse naturali che sono anche umane, ma non solo, ha chiamato metabolismo introducendo la componente diacronica (cioè storica dal punto di vista antropico) ma interamente determinata dal lavoro umano che nell’operare conserva e rinnova. E conferisce “intellegibilità” e perciò “comunicabilità” alle cose fatte. Ne consegue una nozione di presente totalmente esposto al futuro, ed una diacronia temporale del tutto motivata al futuro. Sottolineo dunque la mira al futuro della diacronia storica. Essa oggi è invece esclusivamente volta al passato come morto e pietrificato, quindi piuttosto sotto una lente dissezionante che preso nel processo del presente verso il futuro.
Ricordo la nozione di presente esteso e sovrapposto messa a punto da Focillon in Vie des Formes. Un presente che protrae il momento/evento d’origine in una sospensione simbolica dello scorrimento, salvo che nella ora ultima sopraggiunta nella sua interezza  pone mano al futuro, sempre in fieri in costruzione. Il presente posto a soggetto d’azione relativizza i soggetti che operano senza che scompaiano come tali ma trovandosi assoggettati ai problemi concreti che si presentano la cui ricognizione viene solo da una istruzione che si nutre del contributo di molti. Ribadisco allora la necessità delle papers from call e per sottolinearla cito Vincenza Farina che ci rivolge a monito
“Il faut cultiver notre jardin”  il motto di Voltaire pronunciato nel settecento. Oggi “nostro” ha assunto nella vicinanza massima alle affezioni, la massima distanza dalla esclusione possessiva. Nostro quindi caratterizza la accidentalità introdotta dall’istanza al “villaggio” (sempre riprodotto in nuove forme architettoniche) anche nella megalopoli  cui appartengono entrambi villaggi e megaforme, ma le seconde sono “salvate” dai primi.