Il Politecnico milanese, e in particolare le sue scuole di architettura, condividono un processo comune a tutta l’università italiana, di progressiva consumazione e dissoluzione della figura del professore. Nell’università italiana, secondo i documenti della conferenza dei Rettori, il reclutamento dei docenti è da moltissimi anni ridotto ai minimi termini, e questo «…blocco [del turnover] …ha determinato un invecchiamento degli organici che non ha paragoni al mondo e l’esclusione di una generazione di giovani meritevoli che sono costretti a emigrare…»[1]. Si è così di fronte al paradosso di un «…corpo docente e ricercatore, la cui età media è oggi cresciuta a 51 anni (per i ricercatori 45 anni!)»[2]. L’anno accademico 2006-2007 è stato l’anno in cui i professori ordinari e associati hanno raggiunto il loro numero più alto (19.843 e 19.086); nel 2012-2013 erano diventati 14.522 e 16.143. Significa che in sei anni il numero degli ordinari è diminuito del 26,82% e quello degli associati del 15,42%[3]. È una tendenza che prosegue e si aggrava. Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale, ha affermato in un intervento recente che «la legge di riforma universitaria (240/10) e i tagli al finanziamento delle università stanno riducendo drasticamente il numero dei docenti, con una proiezione fino al 2015 di oltre il 22% in media per tutte le fasce. La legge Gelmini sta riducendo in modo generalizzato il numero dei docenti»[4].
Come ha potuto in queste condizioni sopravvivere l’università? Attraverso i professori a contratto. Essi sono stati «inventati» alla fine degli anni ottanta dal ministro per la ricerca scientifica e tecnologica Antonio Ruberti, per portare nell’università figure esterne di prestigio e di comprovata qualificazione[5]. Si sono presto trasformati nei sostituti precari di docenti che si venivano riducendo sempre più nel numero. I professori a contratto sono assunti di anno in anno, ma sono professori a tutti gli effetti, con mansioni e obblighi identici a quelli degli strutturati; non sono pagati o lo sono per cifre irrisorie; non hanno trattamento assistenziale e previdenziale; non godono di diritti sindacali; non hanno rappresentanza e non partecipano alla vita democratica dell’istituzione; non vengono scelti per concorso. Erano nell’anno accademico 2011-2012 in Italia negli atenei statali e non statali 36.924 [6]. Rispetto ai 56.449 docenti di ruolo dello stesso anno accademico, la loro percentuale complessiva era dunque del 34,59%, che è però cresciuta di molto negli anni successivi. In molte università i docenti a contratto sono oggi oltre o molto oltre la metà.
È vero che quella del lavoro senza garanzia di stabilità è in Italia una condizione generale, tanto che il rapporto annuale del Censis per il 2013[7] calcola che gli occupati in situazione di precarietà lavorativa sarebbero quasi 6 milioni, mentre 4,3 milioni di persone non troverebbero occupazione. Ma poiché i professori a contratto non hanno retribuzione, o hanno retribuzione così ridotta da essere simbolica, la loro condizione non è di precarietà, ma di volontariato. Spesso svolgono il loro lavoro nell’università con impegno, ma esso rimane secondario rispetto a un altro che procura sostentamento e rimane al centro delle preoccupazioni. Non per demerito, ma per le condizioni in cui si svolge, la loro non può che essere un’attività «leggera». Si sceglie di praticarla per motivi di prestigio e per costruirsi un curriculum, nella speranza, soprattutto dei giovani e quasi sempre delusa, di diventare veri professori. In più, il loro è un ruolo conferito per nomina con procedure discrezionali, ogni anno passibile di revoca. Va da sé che coloro che sperano in un possibile avanzamento di carriera, vivono in stato di «libertà relativa», condizionata da chi quell’avanzamento decide o promuove.
Contro i docenti a contratto, e in nome della battaglia al precariato, si è da tempo costruita una campagna d’opinione. Al loro numero sono state imposte delle soglie, in genere non rispettate. È una politica autolesionista. Anziché regolarizzarne la posizione e incrementare il numero dei docenti stabili, si eliminano le potenzialità didattiche e l’esperienza di insegnamento che essi rappresentano, cancellando risorse con le quali l’università è sino ad ora sopravvissuta e frustrando le aspettative dei giovani.
Nel Politecnico, ateneo prestigioso che, si dice, vanterebbe condizioni migliori di quella di altre università, nell’anno accademico 2012-2013 i docenti di ruolo erano 1.346 e i professori a contratto 1.225, pari al 47,64%, con percentuale nettamente superiore a quella nazionale. Nello stesso anno nelle due scuole di architettura i docenti di ruolo erano 293 e i professori a contratto 677; la loro percentuale, cresciuta rapidamente negli anni, era dunque del 69,79%[8], più bassa nella Scuola di architettura civile e molto più alta in quella di architettura e società; comunque altissima rispetto ai diversi settori di ingegneria. La legge ha stabilito per i professori a contratto la soglia del 30% del numero complessivo dei docenti oltre la quale varrebbe l’obbligo di indire nuovi concorsi di professore ordinario e di ricercatore. La conferenza dei Rettori ha tuttavia denunciato l’inapplicabilità della norma, dato lo scarsissimo numero di posti banditi e presumibili[9]. Le uniche due strade che possono essere praticate, sono dunque quella del non rispetto della norma, o quella di un ridimensionamento drastico del numero di studenti, che infatti il Politecnico ad architettura sta perseguendo. Va osservato, infine, che tra i docenti effettivi attuali, la categoria di gran lunga più numerosa è quella inferiore dei ricercatori, la cui percentuale è destinata a crescere.
Consumazione e dissoluzione della figura di professore significano due cose: la prima, che si tratta di una categoria sottoposta a ridimensionamento programmato e in via di progressiva estinzione, affidando sempre più l’insegnamento ad «esterni» non pagati; la seconda, che i professori «interni» vivono una condizione collettiva di disagio e demotivazione, sino a perdere il senso del proprio ruolo. È una mutazione profonda della figura di docente e di professore così come si è venuta definendo negli ultimi due secoli: immaginata per immettere la conoscenza in un sistema di scambi e in un circuito sociale; garantita nella sua autonomia, perché centro di un’idea di università autonoma nel suo potere e capace di promuovere ricerca e di elaborare pensiero; liberata dalla sacralità delle sue tradizioni e dei suoi riti, per concorrere in modo laico alla costruzione di una coscienza comune. Sono prefigurazioni rimaste discoste dal reale, ma importanti come tutte le prefigurazioni, perché sono state alla base di un disegno politico: hanno avuto la capacità di orientare, indicando una prospettiva.
È dunque una situazione, questa del corpo storico dei professori, di involuzione, cui dall’interno di una singola scuola non si può rimediare. Ma bisogna esserne consapevoli per affrontarla a viso aperto, capendo come comportarsi anche nello specifico oggi e domani. Bisogna costruire una linea che sia di difesa di chi viene dopo di noi, e dunque coinvolgendo studenti e giovani docenti.
[1] Documento Crui per il nuovo governo, (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), Assemblea del 23 maggio 2013, p. 2.
[2] Verso una nuova università. Le proposte della Crui, Roma, Assemblea del 28 gennaio 2014, p. 3,
[3] Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), Ufficio di Statistica, «Banca dati dei docenti di ruolo (Ordinari, Associati e Ricercatori)», rilevazioni al 31-12-2006 e al 31-12-2012. I ricercatori erano viceversa alle stesse date 23.045 e 24.264, con un incremento del 5,29%. Il totale dei docenti di ruolo (tali sono considerati i professori ordinati e associati e i ricercatori) erano alle stesse due date 61.974 e 54.929, con un diminuzione del 11,37%. I dati al 31-12-2012 sono gli ultimi ufficiali disponibili. Nell’anno successivo la tendenza alla diminuzione è proseguita e ha riguardato in modo rilevante anche i ricercatori.
[4] Dalla relazione del prof. Andrea Lenzi, intitolata «Quale modello di sviluppo per i docenti universitari», tenuta il 20 febbraio 2014 all’università La Sapienza di Roma, al terzo incontro del ciclo «Sapientia Colloquia», sul tema «Modelli e proposte per il futuro»; da Adnkronos.
[5] Antonio Ruberti è stato dall’estate 1987 Ministro senza portafoglio con delega alla ricerca scientifica e tecnologica, e dal luglio 1989 titolare del Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica (murst). La disciplina dei professori a contratto è poi stata modificata più volte, a partire dal decreto n. 242 del 1998, voluto dal ministro Luigi Berlinguer.
[6] Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), Ufficio di Statistica, «Banca Dati del Personale Docente a Contratto e Tecnico Amministrativo», Rilevazione 2012, Modello A, «Professori a contratto con incarichi di insegnamento per le attività formative che consentono di acquisire crediti formativi universitari a.a. 2011/2012». Il 2011/2012 è l’ultimo anno accademico di cui siano disponibili i dati ufficiali relativi ai professori a contratto.
[7] «Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, è un istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964. A partire dal 1973 è diventato una Fondazione riconosciuta con Dpr n. 712 dell’11 ottobre 1973, anche grazie alla partecipazione di grandi organismi pubblici e privati» (dal sito). Il «47° Rapporto sulla situazione sociale del Paese» è stato pubblicato il 6 dicembre 2013.
[8] I dati provengono dagli uffici del Politecnico, Servizio Studi, Ufficio Nucleo di Valutazione, al quale sono stati richiesti per una ricerca più ampia e al quale va un particolare ringraziamento.
[9] La Crui (Conferenza dei Rettori), nel documento «per il nuovo Governo», approvato nell’assemblea del 23 giugno 2013, ha osservato: «Peraltro c’è da osservare che l’attuale vincolo che scaturisce dall’art. 4 del D.Leg. 49/2012, per cui tutti gli Atenei che presentino un rapporto tra professori ordinari e professori superiore al 30% sono costretti a programmare
un posto da ordinario (inclusi gli ‘interni’) e simultaneamente
un posto di ricercatore di tipo b),
è giugulatorio. Infatti, tutti gli Atenei (con una sola eccezione) presentano un rapporto largamente superiore al 30%: visto il costo di un ricercatore di tipo b), ciò equivale a cancellare qualunque assunzione per docenti di prima fascia. Per sostenere in ogni caso assunzioni di ricercatore di tipo b) si dovrebbe prevedere, con un impegno di 70 milioni di euro, un contingente aggiuntivo di 1000 posti di ricercatore da distribuirsi meritocraticamente fra gli Atenei».